Un Albero a Camme mi cambia la Vita

 

DSCN0442La camma è un elemento di forma eccentrica “ancorato” su un asse, viene impiegato in innumerevoli cinematismi, l’impiego più conosciuto è nei motori a scoppio, dove prende il nome di albero a camme o asse a camme.

La camma è una metafora, naturalmente; di questi tempi è un’immagine che mi torna spesso in mente. Quando ero giovane, ero appassionata di auto e la funzione dell’eccentricità delle camme l’avevo capita intuitivamente: tutt’ora mi resta difficile tradurla in parole, ma mi ha sempre fatto venire in mente quel momento particolare in cui si “acquisisce in tutta chiarezza” un cambiamento o qualcosa che è divenuto; come l’insolvenza nel cinema, quando si mette a fuoco un’immagine e il racconto diventa improvvisamente chiaro.

Oppure quando la luce cambia, in modo importante, delineando qualcosa in modo finalmente chiaro. Ecco, per me la “camma” è un po’ l’emblema di questo momento storico, in cui i valori si stanno muovendo, come tessere di un mosaico che rappresentava un’immagine e che spostate in modo radicale vadano a formarne un’altra. Un’altra immagine non solo di forma diversa dalla precedente, ma di genere, categoria e finanche racconto diversi. Qualche volta solo ribaltati (quello che valeva non vale più, quello che veniva lasciato ora viene ricercato), ma qualche altra volta, il risultato dello spostamento è addirittura foriero di fine di qualcosa o di inizio di qualche cosa.

Ho provato questa sensazione molto spesso in questi ultimi tempi, ma in alcune circostanze l’ho proprio “toccata con mano”.

Mi è successo di recente, leggendo due o tre articoli – sulla Lettura – relativi all’agricoltura; in uno di questi si constatava l’assenza del contesto agricolo nel panorama della narrativa nostrana e si azzardava una ragione di questa assenza, quasi un’assenza di tipo culturale. A fianco del primo, un altro articolo presentava un “grattacielo fattoria”, come una prossima soluzione alle necessità alimentari di un’umanità cresciuta a dismisura, fuori controllo; come corollario si criticava il modello “bucolico” a cui si rifà l’agricoltura biodinamica, perché la terra (si diceva a un certo punto) è piena di infestanti, di microrganismi nocivi, insomma di porcherie da cui ci salva solo la chimica. Ho capito che l’agricoltura è stata acquisita finalmente come tema centrale; dopo essere stata ai margini di chiacchiere da enoteca, ora diventa prepotentemente protagonista e ci si accorge che la terra … ci sta letteralmente per mancare sotto i piedi. La terra non si produce, non si sintetizza, non si inventa. Vedo nero, a questo proposito, anche perché stiamo leggendo sempre più frequentemente di ‘land grabbing’. 

Ho visto in un’altra luce le camminate nella frescura in mezzo alle vigne o accanto ai boschi; mi domando quando la pressione demografica che accende la cronaca, la politica, lo scenario internazionale, si avvertirà da vicino anche qui.

La condizione di ‘esilio’ campestre, di isolamento nel bello, di ricercata solitudine (come non unica beatitudine), di aria, spazio, colori, stagioni, sole-pioggia, natura sentita fisicamente, tutto ciò mi è sembrato per un attimo un privilegio pazzesco. Passato quell’attimo, pensavo che fosse stato un mio momento di ‘fuga in avanti’, invece mi sono accorta di essere entrata in un’altra dimensione: sono cambiate le proporzioni dell’esistere (di quello mio, almeno). Quelli che si intendono di alberi a camme, forse sanno che a cosa alludo; gli altri penseranno che sono impazzita definitivamente.

Restitution Time

RESTITUTION

  1. (nome) a sum of money paid in compensation for loss or injury
  2. (nome) the act of restoring something to its original state
  3. (nome) getting something back again

La radio irrompe nel silenzio della campagna, portando voci e suoni che ci lasciano lo spazio-tempo di visualizzare situazioni, volti, miracoli e disastri. La radio irrompe nei nostri silenzi e nella nostra distrazione e ci costringe a vedere e pensare. Se la voce, se la scelta delle parole, se la sintesi, se il momento (o il tempo) sono giusti, la radio – più di ogni altro mezzo – senza banalizzare con immagini (alle immagini siamo troppo abituati) ci porta dritti dritti al punto.

Questa mattina a radio3 – Prima Pagina -, un programma benemerito, che i giornalisti conduttori tendono ad annacquare (per non irritare troppo i vari padroni dei giornali e il mondo della politica), ha fatto irruzione la voce cantilenante di un veneziano. Un accento – distinguere il veneziano dal veneto! – che ci porta subito accanto a un canale e si sente forte l’odore dell’acqua di laguna; siamo a Venezia, dunque e ci sono le navi mostruose che sovrastano la città e la sua storia, la mettono in mutande e in ginocchio, alla mercé di un qualsiasi turista un po’ fesso (non può che essere un po’ fesso uno che vuole vedere Venezia così!) che la penetra e la sfascia (perché lo spostamento generato da navi gigantesche che passano più volte al giorno non sarà senza conseguenze).

L’accento veneziano non nasconde i sentimenti che squarciano il ritmo consueto di tutti i mali italiani: il MOSE è servito soprattutto a favorire gli interessi di qualcuno che guadagna con un turismo che sfrutta biecamente la città, il MOSE inoltre è stato gestito in modo talmente disonesto che tutta la cordata dei ‘responsabili’ ora è sotto inchiesta e molti sono finiti agli arresti domiciliari. Ma è di tre miliardi di euro il malloppo che manca all’appello, anche se la magistratura indaga, anche se i giornali pubblicano con le consuete oscillazioni, anche se ne parla la radio e si vede in tv.

Il veneziano erompe, con il pensiero dei cittadini onesti, normali. “Questi signori saranno riconosciuti colpevoli, faranno un po’ di carcere o di detenzione ai domiciliari, poi torneranno in circolazione tenendosi il denaro sottratto alla collettività. Ma questo modo di procedere dura da decenni, depredando il nostro paese. Ogni volta si scopre l’ennesimo scandalo, si parla e si scrive, si accusa, si condanna, ma non si sa mai che fine hanno fatto i soldi sottratti; ai cittadini ora interessa solo questo: che venga restituito ciò che è stato rubato”. E il pensiero ovviamente non riguarda solo il MOSE. Perché la somma di tutti i malloppi spariti è una cifra enorme.  

Di certo non sono riuscita a scrivere con la stessa efficacia con cui sono state dette, le frasi che danno corpo al pensiero del signore veneziano, un’idea condivisa da tutti i cittadini esasperati dalle connivenze e dal malaffare, dalla mafiosità pervasiva che inquina il paese, lo immiserisce e lo taglieggia. Restituire il maltolto deve diventare un obiettivo comune da perseguire e da raggiungere. Non interessa tanto il destino dei corrotti, quanto la restituzione del bottino alla collettività derubata.

Per ascoltare questo pensiero, detto molto meglio di come io l’ho scritto, collegarsi a radio3 – primapagina, per sentire in streaming l’efficace intervento del signore di Venezia.

Mi dia un Etto di Paesaggio

Sì, paesaggio ma non troppo. Un etto basta e avanza: è giusto quello ‘zic’ che serve a “fare business”, un’espressione che sto incominciando a detestare; non per moralismo nei confronti dei danée, degli affari, cioè del business di cui prima, ma perché in questa fase delicatissima, in cui chi pensa e legge e riflette dovrebbe aver capito che valorizzare non vuole dire tradurre in cartamoneta, ma significa proteggere, riguardare, rivedere i criteri di convenienza a lungo termine, senza – ovviamente – trascurare il lavoro e le sue remunerazioni. Invece il paese sembra abitato da pappagalli orecchianti, pronti a dire la parolina giusta, quando si pensa che sia quella che “fa fare business”. La parolina, ma nulla che vada oltre; e invece è vero che “basta la parola”, ma basta ad andare “là”! DSCN5991

Così, dopo il super qui e il super lì, dopo i lunghi anni di ginnastica sulla “qualità” e sull'”eccellenza”, la campagna nostrana scopre il paesaggio, cioè scopre sé stessa. Qualcosa che, nei secoli è stato nel cuore e nella mente di poeti e musicisti, alle spalle di madonne e altri santi, nell’idea di un mondo intelligente e colto (che non vuol dire libri letti, ma gente che pensa!), in cui l’agricoltura “produce” il paesaggio; e quanto più è bello il paesaggio prodotto, tanto più è buono ciò che l’agricoltore produce.

Diamo il benvenuto ai nuovi adepti del paesaggio, e speriamo che non lo pensino come nell’immagine qui sopra: qualcosa da citare, da da tenere in un recinto di comodo, affinché non rompa le scatole a chi “deve fare business”. Perché il paesaggio – ce lo ha spiegato uno dei massimi poeti viventi – è dentro di noi e produce, sì: produce pensiero e civiltà.

Conserve di ricordi

Il vecchio podere ha vissuto stagioni tra loro assai diverse. Rispetto ai suoi coetanei e anche ai poderi più recenti ha conservato i suoi caratteri, e il suo carattere. Due aspetti diversi – il secondo più intimo e avvertito solo da persone particolari, il primo più immediatamente accessibile -. Tutto sembra sia avvenuto casualmente, dal giorno ormai lontano in cui l’abbiamo visto per la prima volta, tenuti per mano da un amico innamorato della Toscana e soprattutto di queste colline – al confine tra Maremma e senese, allora parecchio selvagge e quasi sconosciute -. In verità, ha contato molto la percezione che ogni sasso, ogni pezzo d’intonaco, ogni mezzana sdrucita non fosse lì per caso, ma ricordasse presenze di uomini e donne, durante cinque secoli – tant’è l’età in cui si è venuta stratificando la casa – in cui vi si sono avvicendate famiglie di contadini e di mezzadri. “Senz’acqua, senza luce – così mi viene, parafrasando – ma piena di memorie  e di pensieri.”

Che sia un luogo speciale lo intuiscono anche quelli che ci arrivano da lontano e da altre culture, colpiti dalla bellezza generale della zona, talvolta un po’ manierata – tutta ferro battuto, filari di cipressi, con gli arbusti giusti al posto giusto, ben pettinati e intenti a rappresentare la Toscana, come i toscani (e gli immigrati di lusso) pensano debba essere, per essere all’altezza di un qualcosa che si è decisamente perduto di vista.

Perché quel qualcosa (e per favore non chiamiamolo genius loci, fingendo di sapere che cos’è!), più che di archi, scale, giardini rustici, travi a vista e coppi, è fatto di storie e pensieri, e sentimenti, e lavoro di campagna, di cui chi sa leggere a volte può trovare traccia in questi vecchi poderi. E sono quelle tracce a volte impossibili da cancellare altre volte così sfuggenti che sembrano frutto di un’illusione soggettiva, che quando le incontri – più che riconoscerle ti sembra di sentirle – possono diventare qualcosa di speciale, che ispira nuove idee, amori, lavori e vite (raramente tranquille).

Quando ho conosciuto il vecchio podere e sospettato una storia intensa, si faceva fatica a trovare una camera per la notte. Erano tempi in cui l’inverno era così freddo che – con una battuta – pensavo di essere arrivata in val d’Aosta; ma le estati erano così torride che pareva di vivere in prossimità di un incendio continuo. Guai a me se penso ‘altri tempi’, perché le conserve di ricordi sono quasi più saporite degli originali.

Ora, che le camere per dormire si trovano e purtroppo spesso ti porgono lo stile d’antan non sempre ben imitato, le crepe vere si rivalutano e i ricordi pure. Bisognerà conservarli in modo adeguato, perché non solo non devono inacidire, ma serviranno pure a far sapere che alle tue spalle c’è qualcosa di vero, anzi davanti a me.DSCN6233 DSCN6229DSCN6226

Pensieri Piccanti

DSCN6246DSCN6251DSCN6254Mentre la luce calava, per giungere a gustare la saporita pasta di Ilaria, siamo passati attraverso una nutrita (e nutrientissima) batteria di assaggi. Su tutti, tre “frutti dell’orto”, di un orto raffinato e speciale, a mollo nell’olio debitamente affettati, erano lì a ricordarci, in tricolore, che il mondo (vegetale) è ricco e creativo. E straordinariamente piccante.

Mentre la luce calava, filtrando tra le forme di un ricco giardino – pieno di ricordi – in undici eravamo a parlare, tutti insieme. Poteva quasi sembrare un trattato sulle ragioni di una scelta comune, pur diversamente motivata. Mi veniva da pensare che non c’era un toscano che non avrebbe potuto concludere, ascoltando, perché, in tanti, allora abbiamo scelto questa terra, e di quali pensieri, allora, ha arricchito le nostre vite.

Al Nemico pela il Fico

Il fico comune (Ficus carica L.) è una pianta xerofila dei climi subtropicali temperati, appartenente alla famiglia delle Moraceae. Rappresenta la specie più nordica del genere Ficus, produce il frutto detto comunemente fico.Ficus CaricaIncombe il Ferragosto e mi secca pure ricordarlo nel mio diario on line. Ogni anno mi pare la stessa storia, con poche varianti che non fanno altro che incrementare la banalità della ricorrenza e dei commenti che la riguardano. Ma alcuni ricordi piacevoli vengono stimolati dal profumo delle piante e delle erbe; chi ha l’abitudine di camminare in campagna, in questi giorni potrebbe farlo ad occhi chiusi e ascoltare con il naso i messaggi delle piante.

Così, già al mattino presto, col primo sole che le stimolano, le piante emettono odori, alcuni più verdi, altri più dolci; tra questi sentori campagnoli, inevitabilmente mi colpisce quello degli alberi di fico: le foglie, i frutti, forse anche il tronco, profumano in modo molto particolare, con un sentore che è il prodromo di quello del frutto, quasi un avvertimento…

E’, quello del fico, un odore di memorie – sensuali, vacanziere, amicali, gastronomiche -; e il frutto, così polposo che “non sta più nella pelle”, stillando umori e resine e fluidi appiccicosi è stato ed è legato a piccole storie il cui ricordo mi fa allegria.

Ho imparato il proverbio “al nemico pela il fico, all’amico il persìco” da Laura Malloggi, in un memorabile weekend d’agosto di un secolo fa, quando la Toscana era ancora il mito di noi milanesi e poco mancava che baciassimo la terra appena riuscivamo a venirci. I Malloggi hanno un bel podere – l’Infernino – , piccino e ben messo, in un’ascella della terra sotto Sant’Angelo in Colle, circondato da bosco ulivi vigne e alcuni alberi da frutta, ficaie (così in toscano) incluse. In quel weekend furono colti i fichi (che non stavano più nella pelle!) e aiutai Laura a pelarli, a passare la polpa al setaccio e fare quindi una gigantesca marmellata di fichi, che più gigantesca non si riesce a immaginare. I fichi erano svariate decine di chili, furono pelati in un nugolo di vespe e api impazzite dall’eccitazione: impiegammo tutta la giornata a preparali, immerse nelle bucce fino ai fianchi, e parte della notte a cuocere la marmellata e a metterla nei vasi. Fino a qualche anno fa ancora si poteva trovare in circolazione qualche vasetto testimone di quell’estate molto calda e delle ficaie molto produttive. Fu durante la pelatura di quei frutti che Laura mi spiegò che la marmellata è l’unica circostanza in cui il fico va pelato, altrimenti va mangiato con la sua buccia che è davvero squisita. Mentre la pesca (il persìco, nel proverbio) ha una pelle fastidiosa e sgradevole: perciò è da pelare, quando lo offri a un amico.

 

Spaghetti, pollo, e il gusto di un Bongusto diverso

DSCN3090senza tronchetto che Natale èChi se lo ricorda Alfredo Bongusto detto Fred?! Con la sua Frida (t’aggio voluto bene), la rotonda sul mare, dove ho ballato anch’io (e patito una congestione epocale), ma soprattutto gli “spaghetti, pollo insalatina (e una tazzina di caffè)” di un’italietta che pensavamo di aver lasciato alle nostre spalle… e invece riemerge davanti e intorno a noi, senza la poesia di quegli anni, ma come una specie di immiserimento collettivo, che ha poco a che fare con i soldi e molto con la tv becera e regressiva, con la politica che chiede al popolo di essere sempre più bue, con un bel pezzo di paese sbocconcellato da casette e fabbrichette, condoni e sanatorie, incurante e incapace di capire che cos’è la bellezza e dove stia la bontà.

Anche ieri mi dicevano “ma com’è bello, ma com’è buono; com’è tutto affascinante, qui da voi; che bel paese l’Italia, da noi hanno distrutto tutto…” 

Ma non mi lascio incantare da questo bel paese che si accontenta di ciò che viene lasciato agli occhi e ai piaceri del gusto oppure dai buoni pensieri che la terra – che ancora profuma – sa suscitare. Perché accontentarsi di bellezza e bontà sufficienti, quando esse potrebbero essere smisurate?

DSCN1574DSCN0769DSCN1762DSCN5846DSCN0770DSCN1548DSCN5866DSCN5873divoro anche la salviail cappone di Carlo e la mia mayonnaiseDSCN6167pinci al pluraleDSCN1508

Numerology

guarda come volo!Gli animali sanno contare?
Secondo gli specialisti, la nozione di numero non è estranea al comportamento di certi animali. Anche i più scettici attribuiscono ad alcune specie una rudimentale capacità di contare, che si esplicita in svariati modi.
E’ quanto afferma Georges Ifrah, nell’introduzione di “Storia Universale dei Numeri” (Mondadori 1983), un libro coinvolgente, in cui si può anche cercare – junghianamente – la spiegazione di qualcosa di particolare, di un evento che ci sembra in sincronia con qualche nostro pensiero.
Perché, come scriveva Aristotele, ben più di duemila anni fa, a proposito dei seguaci di Pitagora, “pareva loro evidente che tutte le cose modellassero sui numeri la loro natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico“.
Il numero appare sempre di più, oggi, la chiave per comprendere i fenomeni più diversi.
Il libro che cito qui sopra si impegna a raccontare e spiegare una fase eroica dell’umanità: quando gli uomini che abitavano la pianura lungo il Nilo, i giardini di Babilonia o le foreste dello Yucatan hanno inventato i modi per rappresentare i numeri.
Io, più modestamente, ho capito l’essenza dei numeri quando mi sono resa conto di avene smarriti ottocento. Quelli telefonici che – più o meno – sono in grado di dare voce a un amico, prenotare un ristorante, raggiungere qualcuno che (càpita) si è perso di vista, in una fase successiva della vita, chiamare qualcuno in aiuto, in un momento critico; oppure lavorare.
Ottocento numeri non erano tutti quelli della mia/nostra esistenza, tuttavia sono quelli che – con o senza sei gradi di separazione – mi connettono con il mondo, o con quella sua porzione che ha acquisito spazio e vitalità nella mia vita di ora. Grazie alla rete ne ho recuperati quattrocentoventitré; poi si è materializzata Vodafone – un po’ in ritardo, ma con la voce gentile di Rafaela – e mi ha dato altri tre numeri, che dovrebbero mettermi al riparo da altre incresciose disavventure.

Per tornare a ciò che ho perso e spiegare a me stessa come sia potuto accadere, mi rifaccio al messaggio di Aristotele che ho trascritto qui sopra. Questa perdita è come doppiare una boa e misurarsi con un vento nuovo, la cui forza è tutta da misurare.

In vista del Ferragosto.

12 agosto (08) 2013: numero antroposofico: (1+2+8+2+0+1+3) = 8

Diamo i Numeri

 

Il mio cellulare ieri è sparito – perso o rubato, non lo so e poco importa – sto ricostruendo una nuova rubrica telefonica: per favore, date i numeri. Grazie 

Nella mitologia greca Mercurio (Hermes), figlio di Zeus e della ninfa Maia, era il messaggero degli dèi, dio protettore dei viaggi e dei viaggiatori, della comunicazione, dell’inganno, dei ladri, dei truffatori, dei bugiardi, delle sostanze, della divinazione. Tra gli altri ruoli, Hermes era anche il portatore dei sogni e il conduttore delle anime dei morti negli inferi.

Nella mitologia romana Mercurio rappresenta non solo per la sua velocità i ladri ma è anche il dio degli scambi, del profitto del mercato e del commercio, il suo nome latino probabilmente deriva dal termine merx o mercator, che significa mercante.

Mentre l’estate (e non solo) si avvia a girare la solita boa, con la solita metafora che ci impedisce di guardare oltre e vedere che cosa – davvero – ci sta succedendo, incontro Mercurio (e non era la prima volta) che mi agita davanti la verga d’oro con cui opera prodigi e confonde le visioni. Tra l’idea di ritrovare un’amica che non ci sta più con la testa e quella di togliermi di torno, con garbo e buone maniere, un uomo che la testa ce l’ha sulle spalle, ma la usa poco, cerco di salvare il salvabile. Ci riesco, quasi, ma Mercurio pretende un pedaggio sacrificale e si prende il mio smart phone con ottocento numeri di telefono nella preziosa rubrica. Il ricordo dell’amica resta – indelebile -, l’uomo se ne va e le buone maniere sono salve. E Mercurio mi sbeffeggia perché non so dove guardare, per vedere dove (come) stanno le cose.