Caro Papà,

sono passati, questi ventinove anni, e quasi me li ricordo giorno per giorno. Non sono stati anni facili, ma è stato il mio tempo, qualcosa che arrivavo appena a intuire, negli anni precedenti a quel pomeriggio di sabato ventitré novembre. Fino a quel giorno ero abituata a pensare a me in modo piuttosto lineare – figlia unica (e privilegiata, di due persone fuori dall’ordinario, anche per quegli anni), tre figli, separata con un lavoro bellissimo, piena di entusiasmi e di pigrizie -; invece quella sera, quando ho visto per l’ultima volta i tuoi occhi azzurrissimi, ho capito all’improvviso che ero sola, con le spalle scoperte e con una specie di sollievo momentaneo – per essere riuscita a varcare una soglia per me prima inimmaginabile senza strazio -.

Negli ultimi anni abito in un luogo dove il papà lo chiamano babbo (“oh mio babbino caro …”), come nei melodrammi. Negli ultimi anni, un tale – uno con cui quando te ne sei andato non avrei mai immaginato di pranzare settimanalmente e di averci a che fare per lavoro quotidianamente – ha talmente sputtanato i vezzeggiativi di ‘papà’ che nella mia mente non riesco più a chiamarti, silenziosamente come ho sempre fatto, “papi, papino mio …”, anzi proprio quei vezzeggiativi (anche prescindendo dalle incresciose performance di quel tale) sono divenuti parte di un lessico superato dal clima ‘culturale’ che si è andato rapidamente instaurando in Italia (ma non solo!). Oggi avresti di certo qualche ragione in più per amare l’America degli Usa, quella a cui eri così affezionato. Tornando alla sera in cui te ne sei andato, e a quello che mi è successo dopo e ai tuoi nipoti, che ventinove anni fa mi hai chiesto di salutare con aria un po’ distante, mentre mi facevi le tue ultime raccomandazioni e mi spiegavi come si fa a organizzare in modo economico e meno doloroso un funerale (soprattutto il proprio!), ti vorrei dare qualche notizia. Non so se hai notato, ma ho virgolettato l’aggettivo ‘culturale’: questo riguarda proprio quello che è successo dopo, anche a me.

Non che sia successo tutto in un botto, ovvio che no, ma nemmeno è successo qualcosa di identico a ognuno di noi, no, no! Però il mondo si è ristretto parecchio e se tu fossi tra i viventi, avresti un bel daffare a preoccuparti per gli uomini che non hanno lavoro; il fatto che questo clima di silenziosa inquietudine (mal compresa anche dagli inquieti) non sia diffuso nei miei immediati dintorni, non  mi lascia tranquilla, perché ho imparato fin da piccina, da voi, che se sta male qualcuno, quel malessere finisce per coinvolgere tutti. Tu eri uno che guardava e osservava: molto occhio per gli altri, questo l’ho imparato da te, come disegnare e modulare la propria calligrafia secondo l’umore corrente, e affrontare la vita in salita, e anche la rabbia per chi non affronta se stesso e non cerca di vincere le proprie paure.  Quello di non avere paura è qualcosa che mi avete insegnato entrambi – tu e la mamma -: forse per quello mi ha colpito molto l’intervista di Werner Herzog a Repubblica, giorni fa, e quella sua dichiarazione con cui si chiude: “La paura? Non esiste nel mio vocabolario; non so cosa sia.”!

Caro papà, oggi avresti centodieci anni e ancora più fisime di quante non ne avessi avute prima di ammalarti. Ma sono certa che non avresti paura. Se in qualche modo internet ti raggiunge, vorrei che tu sapessi che nemmeno io ho paura, e ti penso, praticamente ogni volta che mi lavo le mani e che attraverso la strada. Ma non mandarmi più segnali: io mi ricordo sempre di te (e della mamma), vi sento e vi penso. Ciao papà.

La finestra di Brunello

Ai (bei?) tempi della pubblicità – quella degna di questo nome, ora in piena evoluzione – come pubblicitari italiani eravamo talmente consapevoli dell’arretratezza del nostro paese, da cercare in continuazione ispirazione e modelli nel mondo anglosassone (solo in un secondo tempo anche nella vicina Francia), per proporre ai nostri clienti – cioè ai clienti delle agenzie in cui lavoravamo – annunci, spot cinema e tv, affissioni, nonché quell’insieme di attività chiamate below the line, degni di strategie avanzate, in grado di cambiare davvero la situazione dei prodotti che ci erano stati affidati.

Commettevamo però due peccati d’ingenuità: il primo era quello di considerare gli imprenditori italiani più maturi e colti di quanto non fossero nella realtà delle cose; ma il secondo era forse più grave, per dei professionisti della comunicazione, ed era quello di dimenticare la totale assenza di sense of humour degli italiani tutti. Sense of humour che era – è ancora – il tono e lo stile della comunicazione anglosassone, a cominciare dalla pubblicità e le consente di non scivolare nella mielosità.

Solo una cultura dotata di molta autoironia, infatti, poteva e può permettersi certi ads e certi messaggi che nel nostro paese così “controverso” sarebbero suonati melensi. A questo riflettevo, pensando all’imminente ouverture di “Benvenuto Brunello”. E mi veniva in mente la pagina di una campagna pubblicitaria (americana) di un’auto che non ricordo (sono passati parecchi anni), con un visual singolare, bellissimo e impossibile, con un messaggio che lo sottolineava. L’immagine infatti ritraeva (alla lettera) fotograficamente, ma con uno stile ‘botticelliano’, la suddetta auto, in un prato fiorito all’inverosimile, sotto un cielo stellato (e con la luna), in cui però trovava posto anche un sole perfetto, in un clima da sogno quale può essere evocato solo da un abile ritoccatore capace di rendere fotograficamente plausibile una situazione di real unreal, e dare corpo ai sogni più straordinari.

Il perché di questo ricordo, apparentemente slegato da questo appuntamento annuale con un vino conosciuto davvero in tutto il mondo (anche solo di nome), è presto detto, ma non altrettanto facilmente. Per abitudine, per deformazione professionale – anche se non lavoro più in quel settore, certe cose mi restano appiccicate – sono abituata a ‘vedere’ istintivamente certi aspetti di luoghi e situazioni, in modo piuttosto immaginifico, e … sì, per me il Brunello è anche un prodotto; ma un prodotto speciale(come un’opera d’autore) da tenere al riparo dalla pubblicità, come tutti i grandi vini (non le marche, però: c’è  differenza, tra le due cose). Perché un grande vino trova “da solo” il suo posto nella nostra immaginazione, inserendosi nel mondo immaginato da ciascuno di noi e in quello di ogni suo potenziale consumatore / conoscitore, in modo singolare e molto personale. Proprio in modo irreale, come fosse evocato da immagini – come quella che ho sommariamente raccontato qui sopra – che danno corpo più a sentimenti (spesso sfuggenti) che a sensazioni organolettiche. Una bottiglia può (proprio come un libro, per esempio) anche essere solo acquistata, per il piacere di possederla, e tenuta lì, magari non per collezionismo. Per pura emozione. Come quella che proviamo ascoltando musica o quando ci affacciamo a una finestra e guardiamo un paesaggio che ci ispira.DSCN8836.

 

Gli occhi azzurri di Alberto B.

DSCN6923

Scrivo pensando a ciò che Alberto Bevilacqua avrebbe detto leggendomi, ma lui non può più farlo e ciò mi rende un po’ meno libera, tuttavia. Alberto non era un amico, nemmeno un conoscente, anche se qualche prova di (vera) amicizia da lui l’ho avuta e per conoscerci ci si conosceva molto bene. Ma Alberto era l’Autore, quello con la “A” maiuscola e non perché faceva Alberto, ma per l’ovvia ragione che portava immensi guadagni all’editore. Per questo, quando riuscirono a catturarlo, gli ordini di scuderia furono tassativi e assolutisti: andava assecondato, in tutto e per tutto.

Ma se mi aspettavo un dittatorello isterico e vanitoso – come troppi autori che non conoscono lo specchio, soprattutto quello dell’anima – mi fu dato di ritrovare qualcosa di diverso e non c’è tempo qui, ora, di raccontarlo. I ricordi vanno alla rinfusa, dalla sua conoscenza della banda della Magliana – e i racconti puntuali che ne faceva, le gesta e i caratteri, a chi aveva inclinazione all’ascolto -, al tonno con piselli che mi servì una moglie (slava, mi par di ricordare) a casa sua, a Vigna Clara, una sera di venti e poco più anni or sono. E l’ultima nuotata insieme, all’Argentario, dov’era in vacanza al Pellicano con l’amica di quell’anno 1994; e il consiglio “parla con l’Opus Dei, ti possono aiutare”, in un momento difficile (suggerendo ovviamente anche il nome giusto).

L’amico delle donne, soprattutto delle cento e più mila lettrici degli anni d’oro dell’Italia che non leggeva, amava l’azzurro (come i suoi occhi) e temeva la morte, ma forse più ancora la decadenza fisica – lui che aitante non era, ma poteva vantare mille sfumature di una voce interessante, che sapeva usare e che usava.

Un viaggio a Lily Dale, per lanciare un suo titolo in uscita, mi valse l’incontro con il mondo della spiritualità americana e non solo, ma soprattutto la momentanea guarigione dal mal di schiena, da cui ero stata colpita con l’arrivo di Berlusconi in casa editrice; di quel viaggio a New York, con il consueto nugolo di giornalisti importanti avemmo occasione di parlare anche per altre ragioni, che riguardavano la politica italiana, di cui conosceva praticamente tutti i retroscena.

Tra tante foto, ne ho scovata una del giorno in cui l’ho consolato un po’ della vecchiaia incipiente, rivelandogli che somigliava sempre più a un pittore fiammingo. Gli piacque.

Pensieri Piccanti

DSCN6246DSCN6251DSCN6254Mentre la luce calava, per giungere a gustare la saporita pasta di Ilaria, siamo passati attraverso una nutrita (e nutrientissima) batteria di assaggi. Su tutti, tre “frutti dell’orto”, di un orto raffinato e speciale, a mollo nell’olio debitamente affettati, erano lì a ricordarci, in tricolore, che il mondo (vegetale) è ricco e creativo. E straordinariamente piccante.

Mentre la luce calava, filtrando tra le forme di un ricco giardino – pieno di ricordi – in undici eravamo a parlare, tutti insieme. Poteva quasi sembrare un trattato sulle ragioni di una scelta comune, pur diversamente motivata. Mi veniva da pensare che non c’era un toscano che non avrebbe potuto concludere, ascoltando, perché, in tanti, allora abbiamo scelto questa terra, e di quali pensieri, allora, ha arricchito le nostre vite.

Speciale: Promozione Turistica

Vivere in un piccolo paese – visitato quotidianamente da decine di turisti in cerca di emozioni, di cose ‘vere’, di scoperte inedite, può sembrare – persino essere – un privilegio. Dipende da te, da come ti fai capire, ma anche da come gli altri ti capiscono: Dipende molto anche dagli altri: soprattutto se sono profondamente diversi da te, per appartenenza, scolarizzazione, abitudini, cultura, frequentazioni.

I miei (personalisssimi) incidenti di percorso, nel luogo ameno in cui provvisoriamente abito, non sono stati numerosi, ma abbastanza pesanti da suscitare – in una con il mio carattere – un senso di schifo e di ripulsa – anche se non ho avuto il pesante “privilegio” di subire assalti: solo avance pesanti, a mio modo di sentire imperdonabili, non fosse che il livello (morale e sociale) dei protagonisti delle “virili” performance era di poco superiore alla nullità. Ora l’età mi preserva da tali attenzioni, anche se me ne riserva altre, da parte di chi magari pensa che una donna vecchia coincida con un essere inerme e inoffensivo; e che costui continui a crederlo.

Essere donna, oggi, nell’Italia irrancidita dalle larghissime intese e dalle equivoche alleanze, è difficile. Perciò può essere ancora più difficile esserlo in campagna – luogo di solitudine, di bellezza e di pace, ma (ogni giorno si impara) anche di guardoni e di molestatori.

Non fa certo piacere scrivere queste parole che irriteranno coloro che hanno (e sentono di avere!) responsabilità istituzionali, ma vorrei sottolineare che non fa nemmeno comodo alla scrivente, dedicarsi a questa “promozione speciale”.

A me è successo – qui, dove vivo ora – di subire attenzioni speciali e sono stata zitta perché non mi pareva che valesse la pena di spiegare o di far capire – con mezzi legali o coercitivi – che una donna – ancorché sola – è una persona esattamente come ogni altro essere umano, con pari dignità. Per poi accorgermi che le controparti (se posso chiamarle così) la dignità manco sapevano che cosa fosse.

Ora invece mi colpisce la stupidità – anzi, direi l’assenza completa dal mondo reale – di un (chiamiamolo per così dire) un uomo che ha aggredito e molestato – con eloquente (se mai ve ne fosse bisogno) strizzata di tette – una donna, piuttosto bella, di mezza età, dall’aria un po’ esotica e certamente attraente. Chissà che che cosa pensava di combinarci; magari portarsela a letto? Non credo, ma non riesco neppure lontanamente a capire che cosa gli possa essere saltato in mente…

Quello che vorrei sottolineare – immagino che chi legge possa capire il mio schifato disgusto, ma vorrei andare sul pratico, che così magari qualcuno capisce meglio che queste cose non sono prive di conseguenze – quello che dunque vorrei sottolineare è la seguente cosa: la persona che ha subito questi inauditi palpeggiamenti è figlia di un grande editor musicale, conosce e parla con tutto il mondo dello star system, ha amicizie in tre continenti e ha scelto di venire a stare qui perché cercava un luogo bello, poetico, e tranquillo. Nella ricerca non erano e non sono incluse le strizzate di tette, né le avance; la persona di cui parlo è in grado di scegliersi amicizie e compagnie, da sola, senza che intervenga qualche velleitario nostrano che forse pensava costui al palpeggio come a una promozione turistica extra?!