Se Brunello ti Strega

In attesa del nuovo che avanza in quella che è già stata battezzata l’Acropoli di Montalcino , obbligata a casa da un malanno, relegata tra libri impilati alla meglio e la cronaca dei quotidiani, vado con la memoria a casa Bellonci, prima ai tempi di Maria, quando pubblicò il suo ultimo libro e la presentazione per pochi (si fa per dire) intimi – non più di duecento, però – avvenne a casa di Leonardo Mondadori, a Milano, in via Donizetti, in mezzo ai quadri del padrone di casa, icone russe comprese. E la Bellonci che passando tra le donne che in editoria non sono (soprattutto non erano) poche aveva un sorriso per tutte e con voce flautata, da vipera gentile, esclamava oh le mie Isabelle.
Era il 1986 e Maria Bellonci aveva appena pubblicato il suo ultimo romanzo e non ebbi più modo di incontrarla. Ma da quei giorni mi restò un rapporto stretto con Annamaria Rimoaldi, fedele custode del pensiero ‘stregato’ di Maria Bellonci.
Divenni una frequentatrice di casa Bellonci, casa affollata di libri e quindi amica della Rimoaldi, che cercava di carpirmi gli umori della casa editrice – sia parlandomi delle debolezze dei miei colleghi del comparto libri (e c’era di che sbrigliarsi in pettegolezzi maliziosi, aneddoti succulenti, illazioni fondate e pure sfondate …), sia svelandomi il backstage del Premio Strega. La casa era tenuta lustra dalla Luigina, prossima ad andarsene in pensione, trattata da Annamaria come un’esserina fragile, con benevolenza, come la gatta, anche lei donna e complice – come solo sanno esserlo i gatti che da sempre si compiacciono di girellare tra i libri (forse in caccia di topi di biblioteca), anzi tra i gatti che hanno condiviso la mia vita ce ne sono pure stati di quelli che giravano le pagine ai libri, mentre io leggevo …
In queste frequentazioni, oltre a capire quali erano i penchant di Annamaria, che proteggeva il figlio del portinaio cercando di fargli guadagnare qualche soldo e aveva tutto un suo giro di protégé meritevoli, tra cui alcuni intellettuali, poco a poco capii che essa (ma pure la Luigina) aveva un debole per i buoni vini, pur non conoscendoli affatto.
Quando capì che la casa che avevo a quel tempo in campagna era in Toscana; e addirittura era in quel luogo di cui aveva sentito parlare vagamente come del luogo in cui si faceva un vino che rischiava di rubare la scena al grande Barolo (che a lei piaceva moltissimo), iniziò a corteggiarmi con discrezione, facendomi domande sulle vigne, su come andava l’agricoltura (di cui ero completamente ignara), e in breve capii che a uno dei prossimi pranzi a due o a tre a cui ero spesso invitata potevo fare un figurone portando una testimonianza ‘in vitro’ delle mie incursioni a Montalcino. Annamaria Rimoaldi era elbana, era stata una competente e appassionata funzionaria del ministero dell’agricoltura e questa qualità ammantava in modo credibile l’interesse per le vigne. Ricordo di averle fatto  recapitare un cartoncino da sei di bottiglie di ottimo Brunello di Montalcino di un’azienda che si chiama Poggione e lei le apprezzò moltissimo. Poi, un giorno, invitata a un ‘pranzone’ le portai un paio di bottiglie di Poggio di Sotto e le raccontai, durante il pranzo, con suo schietto godimento e dei suoi ospiti, delle lepri che girellavano per la vigna del Poggio di Sotto e che attraversavano la strada ai visitatori che guidavano su per l’erta, sicure com’erano che questi fossero Io e il Brunello (ma quello vero!)persone speciali (appassionate di un vino così speciale!). Quante storie da Strega per le leggende del Brunello.

Mi manda Mendel

DC_250165224Il dono della telepatia, l’istinto di conservazione, la capacità di distinguere, la curiosità di vedere oltre, la passione per la conoscenza, il bisogno di imparare, la fame di bellezza, l’attenzione ai più fragili, il senso del ritmo. Un terzo occhio, saper perdonare, chiedere scusa, ignorare l’arroganza, resistere alla seduzione, non avere paura.

Ecco, soprattutto non avere paura.

C’è qualcosa – come un soprassalto appena affronti la “cosa difficile”, o penosa, o rischiosa o dolorosa – che ti tira per il braccio e ti fa partire un sorriso: non di sfida ma di ‘relativizzazione’; c’è qualcosa, insomma, che ti fa sapere all’istante, subito, che tutto si stempera (a cominciare da ognuno di noi) in una treccia folta e fusa, e ti dà quella forza speciale: allora se parto con questo piede sono come un ‘dune buggy’ su una spiaggia nostrana e porto quello che scelgo, dove io voglio.

Le cose cambiano, e se ne sei consapevole governi il cambiamento.

Leggo le sue leggi e so cosa faranno i miei nipoti, anche quelli sconosciuti. Mi manda Mendel: conosco il modo in cui muoverai le mani, so perché mi guardi in quel modo, ti immagino nel leggere quel libro, ti piacerà il tè ma non come piace a me; ricordo il modo di intrecciare le mani della nonna che non ho mai conosciuto e te lo sto passando, anche se l’ho ben guardato solo nella sua vecchia foto – di lei con mio padre neonato in grembo – scattata in un campo di fronte a una casa: tutto virato in bistro, che è un nero che si addice ai ricordi che diventano futuro.

Per questo, per questo e tanto d’altro – che tu sai già e forse no – mi manda Mendel e ti volevo avvertire.

Gentrificazione in viale Monza

Una corsa a perdifiato e loro due – il padre e l’infante – che trovano il tempo (e il modo) di un gioco da complici, teneri e sghignazzanti; una marcia longhissima che mi trova impreparata, come un percorso in treno in mezzo a un paesaggio noto che però non puoi (più?) toccare. La scuola a cui siamo diretti è quella di mio figlio al suo primo giorno e sento ancora il pianto disperato (proverò la stessa angoscia anni dopo e per mia scelta). Passa nel chilometro, tra cinesi e fashion che chiudono e aprono, lanciato nel tempo, la mia vita di bimba – qui suor Maria Ersilia mi prendeva per le spalle e scuoteva, scuoteva la mia animuccia di bimba pigra e meditativa per riportarla alle regole dell’ortodossia monacale, qui anche i vini tipici pugliesi d’un tempo e poi qui abitavano i Montorsi, soprattutto lei la signora Montorsi a cui penso spesso e non so perché – il corpo minuto e il volto scarno e intelligente, il marito col cappello grigio e floscio -; qui il matrimonio di Grazia V. col marito parente dello scienziato scomparso nel nulla (la chiesa squallida da periferia senza sogni e il colbacco bianco di pelliccia), i marciapiedi con le cacche di format milanese, le scritte prive di pensiero che imbrattano i muri, le cancellate ridipinte, le belle architetture liberty e déco, le cornacchie impudenti che rubano i sacchetti e ci frugano dentro, gli eterni piccioni, l’amica a Bruxelles a rifarsi – da vecchia – una vita interessante, qui stava la Fortis noblesse oblige fidanzata con l’intellettuale schivo che saliva con i piedi sull’asse del cesso e lasciava sporco; qui il lattaio dove era cliente Rina Fort, il tram che è come un jingle, il super che legge il futuro, Vinicio ritrovato girando l’angolo a Parigi, Sanae Ando che scende dal tram in kimono per Natale, Augusto Morello e i marchi d’origine controllata, il boalum e la sinfonia dalla Cavalleria Rusticana, il Gerry Mulligan Quartet alla Salle Pleyel, tanti alberi conosciuti in un’altra vita, nel parco grigio e freddo, Fabrizio Corona. Poi il ritorno sempre di corsa, e di corsa mi ri-affaccio su viale Monza che non riconosco (ma ero qui un mese fa!). “Ci prendiamo un caffè?”: gentilezza e cortesia come in Piemonte (o in Sicilia) nel bar pieno di professionisti in nero grigio blu, due parole col figlio che ti sembra un tuo babbo remoto: “gentrification”, e te lo spiega pure.

Un mattino d’inverno a Montalcino

DSCN2415Succede che dopo aver passato anni a organizzare incontri tra gente che deve dirsi cose che già sa ma che bisogna mettere in sintonia, oppure cene per accordarsi su fatti riservati che però stanno scritti su certi giornali più giusti di altri, poi un mattino d’inverno a Montalcino mi trovo a percorrere, in auto per essere puntuale, una bella strada che la folla dei partecipanti a Benvenuto Brunello forse non conoscerà mai e il paesaggio la cui bellezza rischia di farmi deragliare fuori strada è, ancora una volta, il compagno di una giornata a Montalcino.

Vado a un incontro organizzato da un signore del vino – “il” signore del vino – il cui nome conosco fin dall’infanzia, quando mio padre – che andava in Piemonte per il vino di casa ed era un appassionato di Barbaresco – mi parlava di quel vino e di quella famiglia.
Guido su questa strada sterrata e tortuosa, ricca di asperità irregolari, che ho percorso infinite volte a piedi godendomi ogni passo, con gli occhi aperti e il respiro profondo di chi – come me – ama (e rimpiange un po’) la città e le sue promesse ma ha scelto la campagna e la vicinanza alla terra quasi come un esilio, ma benefico, una voglia di sbucciarsi l’anima e guardare alla base delle cose, per riprendersi una vita più naturale.

Succede che “una vita più naturale” oggi è in realtà una scelta abbastanza complessa, che comporta pensieri che mettono in risalto continuo contraddizioni e incongruenze: le proprie  e quelle della scelta che si è fatta. Me lo dico mentre guardo la piccola colonna di auto che vedo nel retrovisore, dietro a me, a distanza abbastanza ravvicinata. Mi fermo nell’attraversare le Case Basse perché c’è Gianfranco Soldera in tenuta da vigna – perciò elegantissimo (toni violacei in delicato controcanto con quelli austeri del suo grande vino) – ma non posso indugiare, non per il tempo a disposizione: sono in anticipo, come tutti quelli che seguono, ma appunto per non essere scortese con loro. Mi limito a un saluto, però affettuoso – un saluto che viene da lontano, quando cenavamo al Pozzo, a tavoli diversi e ci conoscevamo appena, entrambi venuto da nord e innamorati di questa campagna – un po’ dispiaciuta di non poter scambiare con lui qualche parola sul tempo (finalmente freddo: è persino nevicato un po’, ma poco gelido).

Scoprirò che i miei pensieri sulle scelte di vita non sono così estranei al piccolo gruppo eterogeneo di convenuti, tutti straordinariamente colloquianti – puntuali e attenti e compresi del futuro di questi luoghi preziosi. “Prezioso” è forse un aggettivo che non ho usato mai per Montalcino, ma la sua campagna, ancora ricca di angoli non piegati alle logiche produttive – a mio modo di vedere spesso troppo indifferenti alla bellezza -, né all’estetica dell’accoglienza che ci si immagina vogliosa di una Toscana mai esistita se non al cinema, oggi lo chiede. Sull’aggettivo “prezioso” Piero Chiara avrebbe avuto da ridire, quando mi somministrava preziosi (appunto!) consigli di scrittura … Piero Chiara, sì, ma in altri tempi, quando il mondo non era ancora abitato da sette miliardi di uomini e ‘viaggiato’ da oltre un miliardo di turisti in perenne movimento.

Ho avuto nostalgia – una volta di più – di Giampaolo Fabris e delle sue (pre)visioni così esatte e puntuali, per tutta la durata delle riflessioni – spesso lucide, sagaci e puntuali – ascoltate per tutta questa mattinata inedita da queste parti; perché i temi affrontati – accoglienza, ma anche ristorazione – giustamente anche con l’occhio e l’esperienza di chi lavora quotidianamente e conosce regole, difficoltà, problemi, complicazioni e prospettive, avrebbero bisogno dello sguardo esperto di un monitor che racconti dove sta girando il mondo – dove va e perché ci va – come e perché cambiano i gusti.

Ancora una volta mi sono tornati in mente gli anni brevi in cui ho visto scegliere, dalla politica, ricerche di mercato fasulle e compiacenti. Qui no: c’è la consapevolezza di uomini  – molti venuti da altrove – di parlare di un luogo “prezioso” (scusa Piero!), che prima ancora di generare profitto, è entrato nel cuore di alcuni, magari mentre guardavano oltre la collina prospiciente, verso il bosco, sopra la vigna spolta, pensando a come era bello quel paesaggio. Una mia (pia) illusione? Non so, non credo. Certo non è mai stata nominata, nemmeno evocata, nemmeno lontanamente. Ma mi pare di avere ascoltato – nelle parole di molti – un fruscio di consapevolezza inedita, il suono di una protagonista innominata, la bellezza, che mormorava al cuore degli ospiti della Pieve di Santa Restituta.

Perché ho scelto la campagna

Sono passati almeno quindici anni, da quel giorno. Ero seduta con due giovani promessi sposi (che poi non sposarono) nel dehors di un’osteria ‘tipica’; lì di fronte le foglie dei lecci luccicavano di luce primaverile e nell’aria appena tiepida si avvertiva la promessa di un’estate calda e intensa, come difatti fu – anzi rovente, se ricordo bene -: stavamo per ordinare dal solito menu ‘tipico’, almeno quanto l’osteria, ma la circostanza radiosa e serena avrebbe reso sublime qualsiasi piatto, anche il più greve …

Si fece avanti il proprietario e prese le ordinazioni, con aria cordiale, gesti un po’ rustici e piglio indaffarato; si era appena avviato per passarle in cucina, ma si rigirò verso di noi, tornando sui suoi passi verso il nostro tavolo con aria complice e quindi squadrandomi in volto mi chiese se, “scusi tanto”, io ero “quella” di Fonterenza. Certo che sì, risposi mentre stavo per dirgli quanto fosse simpatico essere riconosciuti in un locale di cui conoscevo l’esistenza ma in cui non ero ancora mai stata.

“Madonna santa, ma come s’è fatta vecchia e brutta, da quanto era bellina, quasi non la riconoscevo più…”, gridò l’oste e a scanso d’equivoci, ripeté due volte il commento, alzando le mani al cielo e gesticolando, mentre ritornava sui suoi passi più e più volte, come a sottolineare con i suoi movimenti il proprio sgomento, la presa d’atto di una tragedia che aveva avuto luogo sotto i suoi occhi attoniti e compresi.

Non ricordo che cosa mangiammo a pranzo quel giorno – di certo una pasta ‘tipica’ del luogo – ma ricordo bene lo sguardo scandalizzato della giovanissima coppia, la mia risata per rassicurarli (erano loro a pagare il conto) e la lontananza siderale dell’oste dall’idea di aver svelato, con un solo commento, lo spirito del luogo.