Ci sono situazioni, momenti (e ovviamente luoghi), che associo a un aspetto del paesaggio, o del panorama circostante. Ciò succede quando mi ritrovo nel limitare tra una zona ai margini dell’abitato di una città (ma anche di un paese), con le attività umane che lì si svolgono e il ‘subito dopo’, dove la natura prende (o tenta) la rivalsa, il sopravvento.
Possono anche essere situazioni sentimentali – come quando si scivola fuori da un affetto, talvolta sospinti o silenziosamente incoraggiati da un altro – oppure momenti dell’esistenza, più difficilmente individuabili come momenti di ‘cambiamento’ o di transito da una fase all’altra (perché di solito quando c’è stato passaggio da una fase all’altra, ci si accorge dopo del cambiamento avvenuto).
Un momento in cui si cambia, e si sente che ci sta succedendo qualcosa, è quando si allungano le giornate in modo apprezzabile (“al passo di un cavallo”, dice il proverbio), ma non è affatto ancora primavera; anzi può succedere una nevicata, anche abbondante, o una giornata di sole falsamente tiepido. Ma anche se non è ancora primavera, il cambiamento è già dentro di noi, forse anche dentro la terra, sotto gli strati di foglie marcescenti che non hanno nemmeno più la levità o l’energia per sollevarsi al vento, appesantite da una stagione che le ha ineluttabilmente consumate fino a ridurle concime delle stesse piante da cui sono cadute.
In questi limitari è sempre complicato muoversi, starci nel modo giusto – direi quasi, avere il colore giusto, sempre per usare una metafora -. E io spero che nonostante l’uso della metafora, indispensabile scrivendo in pubblico, si capisca che cosa vorrei dire.
Vivendo mi è capitato di essere tante persone diverse, senza tuttavia essere un camaleonte né tentando di nascondere o nascondermi. Semplicemente accade che qualcosa finisca e qualcos’altro prenda il suo posto e si cambia pelle; proprio come, al limitare della città, sulla via dei campi – in un giorno prima della vera primavera – ci accorgiamo che tra i frammenti di asfalto e di ghiaia stanno crescendo ciuffi di erbe che si riappropriano di spazi che gli erano stati sottratti da un’urbanizzazione incompleta o incerta.
Le chiamavamo ‘erbacce’, poi il nostro sguardo è cambiato e abbiamo capito (stiamo capendo) che sono le preziose avanguardie del verde selvatico e spontaneo, che preparano un ritorno alle loro sorelle più bisognose di attenzione, più delicate, più paturniose.
Stare in campagna mi ha dato più sguardo per questo ‘terzo paesaggio’ e insegnato a vedere che cosa c’è nel limite, tra la fine di qualcosa e qualcos’altro di nuovo.