Del maiale non si butta niente

rscn1020Leggi i giornali e se metti in fila i titoli e li confronti con quelli dei quotidiani di (solo) due anni fa, sbatti le palpebre. Quello che ci piaceva chiamare, con un certo sussiego, “l’universo mondo” ti si svela come una scatolona piena di orrori, un vaso di Pandora il cui coperchio ha preso l’aire ed è volato via lontano … è un UFO … sfuggito dalle mani di quelli che l’hanno scassinato.

Ti apparti, cerchi rassicurazione, ti pulisci gli occhiali, ma gli occhi si riempiono di sabbia e non riesci a vedere bene. Si è aperta una crepa – sembrava un filo sottile su una superficie levigata e compatta, una minuscola imperfezione … tutto è iniziato così.

Mi ricordo “Truman show” e mi scappa di pensare che ‘cammina, cammina’ può darsi che – anche in questo nostro film – si possa arrivare ai margini della rappresentazione e uscire all’aperto. Perché (oltre) c’è una bella radura verde, con una tovaglia stesa sull’erba, stoviglie sistemate gradevolmente, un cesto di vivande pronte per essere consumate, una bottiglia di vino pronta per essere stappata, un gruppo di amici intenti a conversare e guardare gli alberi intorno, nelle loro infinite sfumature e luccichii; poco lontano un piccolo gruppo di pecore intente a brucare – consapevoli degli umani, ma discoste e ‘sulle loro’ – e alcuni maiali che scavano accanto al gregge, alla ricerca di tuberi e altre loro  ghiottonerie …

Da lontano giungono attutiti i suoni e i rumori della vita quotidiana di un centro abitato.

Il Cielo sulla Vigna

dscn0974Ci sono svariati modi di invecchiare … qualche settimana fa un cretinetti mi chiedeva su questo blog, commentando anonimamente (ovviamente!) un post che non ricordo più, “ma non invecchierai mai come tutti?!”. Beh certo che quelli che hanno l’occasione di invecchiare si portano addosso un bel fardello. E’ un processo (talvolta lungo) complicato e faticoso; ma d’altra parte – come pare abbia detto Woody – l’alternativa è davvero drammatica.

Ma non sto borbottando sul tema, né tantomeno facendovi un pistolotto promozionale per l’ultimo libro di Pansa (lui mi è simpatico, ma ho letto un’anticipazione del libro e mi sembra piuttosto la scoperta … del viagra!); perché nei tourniquet degli anni che passano, se devo fare un bilancio tra gioie (esagerando) e tormenti (esagerando, ma un po’ meno) non posso lamentarmi.

Forse perché l’abitudine all’empatia, acquisita lavorando in pubblicità, mi fa continuamente alzare gli occhi dal mio piatto per guardare ciò che succede altrove, soprattutto negli immediati dintorni e poi nei dintorni dei dintorni. Questo gesto abbastanza compulsivo (ma – giuro – totalmente privo di quella curiosità morbosa che mi è capitato di osservare o ascoltare in alcune persone), mi costringe a placare certi  sentimenti (e la mia innata impazienza) nei confronti di tutto quello che tarda ad accadere, come se gli appuntamenti posticipati fossero una iattura. Così, mentre freno lo scontento per cose che non girano come potrebbero (o come vorrei), mi capita di ritrovarmi toccata nel profondo dal dolore che all’improvviso piomba nella vita di qualcuno.

Un bel modo per iniziare impeccabilmente una giornata – in cui poi può accadere di tutto – è quello di dare ascolto al “Grande Piede” e lasciarsi scaraventare fuori casa, molto presto al mattino. (Si può camminare a qualsiasi ora del giorno, ma farlo mentre ancora un po’ di sé è immerso nel sonno è più emozionante). Camminare vuole anche dire guardarsi intorno, per me anche guardare il cielo, che mi piace e mi interessa molto. Fossi nata in altri tempi forse avrei imparato a leggervi dei messaggi e sarei diventata un’aruspice, ma vegetariana e incruenta

Oggi il cielo, di primo mattino, mi ha offerto visioni più tecno e assolutamente consuete e banali: quello nella foto lì sopra è il Roma Milano, e però vederlo mentre si cammina sul margine di una vigna, immersi nel clima pre-vendemmia che si respira (e si annusa) da queste parti in questi giorni, mi ripropone una volta di più com’è diversa la vita – nello stesso istante e in luoghi non distantissimi tra loro – tra persone in situazioni diverse.

Ho divagato un po’, però oggi è passato un mese dal terremoto del Lazio e mentre guardavo il cielo da quella vigna, stamattina, pensavo a quelli lì, ad Amatrice e nei dintorni, che il cielo se lo sono visto piombare addosso …

Ciao cretinetti, lo vedi che invecchio anch’io?!

 

Italo non è un treno

dscn0942Italo non è nemmeno un aereo e, soprattutto, Montezemolo non c’entra. L’ho richiamato ieri sera, dopo qualche mese dalla sua ultima telefonata, ma quando il telefono è arrivato al quinto squillo a vuoto ho cominciato a pensar male; invece ha risposto con la sua voce un po’ cantilenante e piena di punti di domanda. Erano alcune settimane che volevo chiamare Italo, poi le settimane si sono raggruppate e sono diventate mesi. Ma ieri sera, nell’ora più scomoda (per me e forse anche per lui) – ora di cena – gli ho telefonato.

Mi sembrava di avere delle cose da dirgli e invece ho lasciato che fosse lui a domandare: ogni volta ci raccontiamo un pezzo di vita e sembrano racconti di Alice Munro. Non a caso lui è vissuto lunghissimamente in Canada, un paese con cui ho avuto un po’ a che fare anch’io. E’ il mio legame residuo con Biella, dove è rientrato – dal Canada – alcuni anni fa. Biella, dove è morta mia madre, dove ho avuto un’amica (la nostra amica), dove ho conosciuto alcuni gentilissimi imbroglioni; Biella, dove non ho allungato il braccio per afferrare la pratica dalle mani di uno che dava numeri che non corrispondevano ai miei.

Certe cose ti restano di traverso per un bel pezzo, manco fossero frammenti di una subdola lisca di pesce (una triglia, magari); quella storia biellese l’avevo raccontata a Italo, una volta per telefono e non c’eravamo ancora mai visti in faccia. Avevamo riso come due vecchi navigati (più navigato lui, però).

Ieri sera gli ho telefonato ed era appena tornato dalle vacanze, e gli ho raccontato un po’ di cose mie. Poi gli ho chiesto un po’ di cose sue. Una ex moglie, un figlio, nuora e nipoti grandi: tutti oltremare ed è qualche anno che non li vede e ogni tanto – mi ha detto – sente un po’ di nostalgia. Poi mi ha detto di sua sorella che sta ancora a Biella ma non vuole più vivere dov’è ora e pensa a un luogo “dove vivere negli anni che le restano”.

La nostra telefonata era solcata da onde, come flussi d’aria leggermente colorati, poi siamo arrivati al dunque. Perché Italo non è nemmeno un amico, nel senso corrente del termine; io l’ho trovato cercando una mia amica smarrita, che non ritroverò più. Avevo annotato su un bigliettino (che avevo ritrovato) un numero di telefono che lei mi aveva scritto, l’ultima volta che ci eravamo viste. Scriveva tutti gli indirizzi e i numeri di telefono, su innumerevoli fogliettini per ricordare quelli che avrebbe voluto chiamare, ma di cui non ricordava più il nome; poi non ricordava più che li voleva chiamare e poi non sapeva più chi fossero e che cosa fosse chiamare, figurarsi un telefono.

Comunque quel telefono suonava a vuoto e ha suonato a vuoto un po’ di volte, finché qualcuno ha risposto. Così ho conosciuto Italo e quella volta gli ho chiesto notizie della nostra amica. Lui era sempre via, a girare documentari che lo impegnavano per lunghi periodi, per questo non l’avevo trovato prima. E la nostra amica stava bene, ma non riconosceva più nessuno, nemmeno sé stessa.

Così ogni tanto io e Italo ci sentiamo al telefono e ci raccontiamo qualcosa delle nostre vite; poi a un certo punto parliamo di lei, della nostra amica che non si ricorda più di noi e nemmeno di sé. Oggi ascoltando la radio ho sentito che è “la giornata” dell’Alzheimer e mi sono ricordata della prima volta in cui ho letto questo nome: era un servizio su Newsweek, probabilmente nei primi anni ottanta e il mio medico non ne aveva mai sentito parlare. Alla radio oggi hanno detto che ci sono cinquecentomila malati di Alzheimer, in Italia.

Oggi si vola alto

dscn0941Prima delle sette del mattino il cielo ha un colore d’opale che ti fa venir voglia di volare in Australia – luogo agli antipodi dei miei desideri (ma l’opale non viene forse da quelle lande?) -; il volo in cui mi imbatto alzando per un attimo il naso in su dev’essere il Roma Milano, il primo volo del mattino.

Ho iniziato questa breve camminata proprio pensando ai voli mattutini a Roma di cui sono stata per decenni un’assidua frequentatrice; ma era un controcampo di pensiero, perché allora, da lassù, quando il mattino era terso e illuminato dalle luci radenti dell’alba, a questo punto del viaggio guardavo giù per riconoscere i luoghi in cui accorrevo appena possibile. E mi succedeva ogni tanto di ritrovare – oltre al riferimento della grande Amiata – i laghi di Banfi che luccicavano incastonati tra vigne e bosco.

Oggi, nell’ ultimo giorno dell’estate finita qui, ho anche incontrato un plotone di balestrucci che facevano le ultime prove di volo, prima di cimentarsi nel grande balzo e attraversare il mare in una migrazione all’incontrario, sotto gli occhi impietriti di alcuni leoni bianchi. Ma il volo più alto l’ho trovato a pagina 49 del Corriere della Sera in un articolo a firma di Paolo Di Stefano. Il cui titolo ci dice solo che si tratta di saloni del libro (Milano o Torino, o Milano e Torino), e il volo alto lo trovo nella chiusa dell’articolo: “…fossi un insegnante di scuole elementari (sì, di elementari) o di medie sfiderei l’ipersensibilità protettiva dei genitori chiedendo ai miei allievi di imparare a memoria, tra l’altro, anche A Zacinto (“né più mai toccherò le sacre sponde …”) e Alla sera: “Forse perché della fatal quiete/ tu sei l’imago a me sì cara vieni,/ o sera”. E proporrei a uno dei soloni dei possibili Saloni di aprire un concorso, per la prossima edizione, in cui premiare la memoria della poesia nelle scuole. …”

Io non amo Foscolo, ma l’ho imparato a memoria e mi ha tenuto compagnia, insieme a altre poesie. La chiusa di Paolo Di Stefano nel suo articolo (giustamente) polemico a proposito dei Saloni del libro in corso di discussione, mi è apparso come un volo – alto, così alto – da farmi nascere il desiderio di dotare di queste ali le mie piccole nipoti.

Tutti quelli che amano e ricordano la poesia sanno quanto spigolando tra i versi si ritrova nel pensiero dei poeti un aiuto, una via di scampo dalla grettezza che spesso ci riserva la vita quotidiana (e viceversa, noi a lei), anzi un rifugio per ripararsi.

E prepararsi a un volo.

La Pattuglia del Giamaica

rscn0929Ritrovo Giancarlo Iliprandi in una foto del 1990, scattata al Jamaica durante i festeggiamenti per i novant’anni di mamma Lina (in basso a destra) – tartine alle acciughe limone e burro, per tutti gli anni del liceo -. Accanto a Iliprandi, abbronzato ultrasettantenne, ci sono la Cederna e Guido Ballo, il mio professore di storia dell’arte e fratello di Aldo Ballo, uno dei miei fotografi preferiti nonché cognato di Oliviero Toscani …

La foto l’ha scattata Uliano Lucas, che con Ugo Mulas, Mario Dondero, Alfa Castaldi – solo per ricordarne alcuni tra tutti – bazzicavano il Giamaica (Jamaica), tra un viaggio e un reportage, una festa e una presa di posizione, assieme ai giornalisti del Corriere, agli artisti che erano di casa – Manzoni, Fontana, Peverelli, Tancredi, Vedova, Crippa, Dova, Bobo Piccoli, … – e ai designer, i grafici – Noorda, Iliprandi, Albe Steiner, Tovaglia, Max Huber -; poi c’erano la Melato, gli antiquari, un sarto famoso, gli artigiani del quartiere, un paio di editori e gli attori che passavano per Milano.

Quando scivolavo fuori casa con il vestito di rasatello blu a bolli rosso vinaccia, uscendo da via Venini dove stavo con i miei, prendevo la “O” che si fermava davanti al Giamaica (Jamaica) e spesso ci trovavo la Triumph noisette decapottabile di Giancarlo Iliprandi. In quegli anni si beveva tequila (forse qualcuno era stato in Messico?) con limone e sale sul bordo del bicchiere, c’erano le tartine di mamma Lina e piccoli sandwich con maionese pomodoro e speck.

La foto la trovo in un libro che nel 2012 celebrava il Giamaica, con una raffica di foto in bianco e nero che raccontano la rinascita di Milano, dal dopoguerra agli anni novanta, prima dei primi barcollii di tangentopoli. Ora il Giamaica (Jamaica) è diventato un luogo dove vanno i turisti; mamma Lina ha festeggiato un secolo di vita e se ne è andata. Il Giamaica però è lì. Quando ci passo davanti, raramente, posso ancora sentire l’odore di quegli anni.

Giancarlo Iliprandi l’ho ritrovato giorni fa, riordinando dei libri, in uno dei suoi volumi di lettering e oggi nei necrologi del Corriere della Sera. Necrologi sereni, perché era vecchio (e certamente ancora elegantissimo). Domani a Firenze c’è il vernissage di una mostra di Albe Steiner: uno dei primi a lasciare via Brera, ancora piuttosto giovane.

Mi sono chiesta perché mai presentare Albe Steiner a Firenze, e soprattutto ‘questa’ Firenze così imburrata di turismo; volevo andarci, ma se ci vado mi tocca ascoltare qualcuno che non c’era raccontare di chi c’era e di Milano com’era. A Firenze.

Lente, lenta, lettera, lenticchia

dscn0909Lì dove sto è un posto dove potrebbero anche avvenire miracoli. Qualche volta è successo. Ne hai la sensazione in certi momenti, quando non c’è nessuno in giro a rompere il fiato della natura che respira e invia messaggi. Meno male che c’è lei, qui. Altrove c’è meno, ma uno si accorge meno di cos’è diventato il nostro paese. Altrove le cose si confondono un po’. Qui invece – quando ti abitui a capire da cosa nascono i comportamenti, i gesti, il modo di salutare – capisci tutto. Ed è come un “imparaticcio” del paese Italia.

“Imparaticcio” è una parola che non mi sentivo in testa da un’infinità di anni; risale a quando andavo dalle monache (parte delle scuole elementari, la prima classe delle medie, un anno di liceo dalle suore Orsoline, dove ho conosciuto Paolo VI). Imparaticcio è un ‘campionario’ di punti di cucito e ricamo che la piccola alunna esegue su un rettangolo di stoffa e poi replicherà, messi in bella, su tovaglie, federe o altri pezzi del corredo, durante le lezioni di economia domestica.

Perché lì dove sto – tornando all’imparaticcio come metafora – è come vedere, attraverso una lente d’ingrandimento un campionario di quello che non sappiamo di essere. E quando te ne accorgi è tremendo. (Forse per questo una volta la gente beveva così tanto da ammalarsi e morire; morire per dimenticare?).

La campagna è bellissima. La campagna è tremenda, perché se non parli con gli alberi, o se non leggi i giornali, al di fuori delle attività domestiche (per le donne o per i vecchi scapoli) e delle attività agricole, non ci sono attività ‘terziarie’, o se ci sono, sono attese da poche persone, e non hai nessuno con cui ridere. E ridere è importantissimo: soprattutto di sé stessi. Ma le vecchie massaie e gli operai agricoli non hanno voglia di ridere: gli operai per stanchezza e le massaie per disabitudine.

Oggi ho letto che gli organismi viventi al mondo sono per il 98%, o giù di lì, vegetali. Nel resto ci metti insetti animali uomini. Forse, lì dove sto, la percentuale da attribuire al vegetale sarebbe anche più alta: lì dove sto gli umani sono davvero pochi e più o meno consapevolmente te li ritrovi a portata di lente. Perciò capisci quando hai fatto qualcosa che al paese – cioè agli abitatori del paese – non piace, oppure non capiscono; capisci quando pensano che tu sei troppo assente, o troppo presente, o che sta cambiando qualcosa nella tua vita. Qualcosa a cui magari non riescono ad attribuire un significato.

Si chiama ‘controllo sociale’ ed è qualcosa che può assomigliare al mobbing, se uno non ha dentro di sé qualcosa di più di quello che è la quotidianità, intesa come mangiare, dormire, l’auto, (il vestito?), la messa (Messa), cosa ha fatto X.

Per riassumere: lì dove sto non c’è ironia, il sarcasmo regna sovrano. Una come me, che ha militato a lungo in pubblicità (quella vera, con il messaggio, la promessa, la reason why, il consumer benefit e – soprattutto – il tone of voice)  è abituata a dare valore all’ironia, che è lo zucchero che manda giù la pillola, e che è anche la ‘lente’ attraverso cui guardare la vita che scorre veloce.

Cenavo con una zuppa di lenticchie e pensavo alla vita che scorre veloce, mentre leggevo – sul Corriere della Sera – un’intervista a Bill Gates:” I soldi non mi interessano”. Ho fatto un salto sulla sedia chiedendomi ohibò che cosa ne avrebbero pensato, di questo incipit, lì dove sto …

Incontrare Nicoletta

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Io sono ancora abbagliata dai riflessi del sole sull’acqua e non avevo capito subito che questa signora stava dicendomi qualcosa. “Volevo dirle che c’è una fontanella qui accanto, se vuole sciacquarsi i piedi”. Mi sono avvicinata: stava accanto a un pino, all’ombra, di fronte al mare e parlava senza quasi muovere la bocca; ma la voce è sorridente e gli occhi, dietro occhiali scurissimi, sono pronti a cogliere tutto ciò che le piace. I miei orecchini – dopo che mi sono avvicinata per dirle che conosco da svariati decenni quella cannellina che mi stava indicando -, il mio vecchio anello (“che bel design”). Contraccambio ammirando la sua camicia, e anche quell’altra che porta sotto la prima; “non ha idea di quanto sono vecchie, e non ha idea di quanti anni ho io”, mi dice.

Ho appena letto un’intervista a Aznavour, che sta partendo in tournée, tra Italia e Stati Uniti e penso che la signora seduta sotto l’albero potrebbe avere più o meno la sua stessa età. Scoprirò rapidamente che è proprio così, e anche che è cresciuta in Argentina, dove era andata a nove mesi, in braccio al papà, che dunque parla spagnolo (con quell’accento un po’ strascicato), che erano cinque sorelle ma è rimasta sola, che non ha mai preso marito (ma fidanzati certo che sì!), che oggi è venuta al mare portata dal nipote che, in questo momento sta facendo il bagno con sua moglie.

E’ molto contenta di questa nostra chiacchierata fuori programma. Io più di lei, è come se fosse scaturita dall’albero sotto cui sta per darmi un messaggio, uscita da uno dei “Dodici Racconti Raminghi”. Ha un umore meraviglioso e le chiedo se posso pubblicare la sua foto, lei dice di sì: “prendo, mi dice salutandomi, quello che la vita mi dà”. Penso a Aznavour che parte in tournée; meglio non sentirsi stanchi.

“Love is a Many Splendored Thing”: buon compleanno, Gianmaria

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Mi sono svegliata con questa canzone della mia adolescenza, che suonavamo alle feste (parquet lucidi, penombra, profumo di cera, porcellane e uova di struzzo). A quel tempo ho scoperto la flanella grigio fumo, il fascino dell’Oriente, e William Holden. La canzone è bellissima e – in quegli anni – la cantavo accompagnandomi al pianoforte. La canzone è bellissima perché è piena di promesse e di nostalgia. Buon compleanno, Gianmaria.

Indovina chi non viene a cena

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Se mi chiedessero che cosa vorrei riavere indietro dalle mie vite precedenti, non esiterei a rispondere: lo struggimento! Sentire gioia, dolori, nostalgia di qualcuno senza filtri. Senza razionalizzare, senza ‘farsene una ragione’, senza mediare – fare un passo indietro, essere ragionevoli, badare agli equilibri, andare incontro, tacere per rispettare l’altro e le sue idee; avere un occhio di riguardo; ricercare il politicamente corretto -.

Provvede il giorno, che finisce, a darmi un buffetto al cuore: il piatto è di Michiel – qui ogni piatto è un passaggio, un’estate, un campo di ragazzi, un concerto per gli amici – ma il tavolo arriva dal paese: una famiglia aveva scelto qualcosa di moderno, che parlasse di futuro e non di vecchiumi di paese. Allora non capivo, perché l’emozione era proprio ritrovarsi nelle vecchie cose che venivano dalle vecchie case – buttate via da chi voleva immaginarsi in un futuro diverso, come chi butta le stoviglie dalla finestra a capodanno -. Allora non capivo come si potessero buttare sedioline dell’Amiata, madie, credenze fatte di vecchie assi e poi dipinte; le panche – gioia di antiquari e rigattieri – e i mobili delle vecchie sacrestie, estasi dei milanesi.

La luce luccica sui pomodorini dell’orto integrato (annaffiati poco e zero trattamenti: si lavora sulla prevenzione, mi par di capire), ridisegna il bordo decorato del vaso, il cane abbaia sulle scale: ha un suo modo speciale di annunciare uno sconosciuto o qualcuno  già di casa. Apro la porta e Michiel è in cima alle scale insieme ai campi LPC, alle sere in piazza, alle camminate estenuanti attraverso le strade bianche che vanno e vengono tra bosco e poderi.

Ho visto passare otto lustri senza riconoscerli, non sono come il cane e non devo annunciare niente; i passi indietro, politicamente corretti e impeccabili sono quasi invisibili. Emozionarsi una rarità, struggersi non esiste: meglio pettinarsi con cura scompigliando i capelli e camminare in riva al bosco aspettando l’inverno.

Margarita e Margaritas

DSCN8271Il battello scivola tra onde nere e grasse, il fiume compie una mezzaluna; Algiers è lontano sulla riva di fronte, lo vedo dietro al triangolo giallo del mio frozen Margarita. Il battere sordo delle grandi pale che sporgono dalle fiancate mi ricorda che quello era un deposito di schiavi. Quando il nero del fiume diventa una striscia di colore contro il verde afoso de La Chalmette (so che la battaglia ha lasciato una scia di morti), il ghiaccio è mezzo sciolto e il Margarita si trasforma in un ricordo: il Giamaica e le canzoni degli anni giovani a Brera. I colori sono straordinari ma i numeri dicono che il fiume è profondo cinquantasei metri e il rombo è spaventoso. E’ un fiume d’inchiostro: colore, sostanza, storie, blues. Una voragine, un inghiottitoio di racconti, la cerniera tra tre poetiche, tre continenti. Un viaggio nei libri che raccontano storie meticce. Penso a un libro speciale – un libro che racconta di esilio – che racconta come sopravvivere alla nostalgia di sé per amore di qualcuno, raccontando. Poi ci sarà la cena, in un giardino nel quartiere francese; come sempre l’ospite è un personaggio che ha scritto la sua storia affascinante, ha labbra scarlatte e il rossetto porta il suo nome. Abbiamo bevuto Montrachet e ammirato gli intagli e le esili colonne, ma non abbiamo pubblicato quel libro.

Stai bene attenta, mi diceva il giovane giornalista con lunghi boccoli e l’aria di provincia saputa, a chi racconti la tua storia e non dire niente a chi può solo fraintendere …

margaritas ante porcos (lat. «perle dinanzi ai porci»). – Frase tratta da una esortazione di Gesù, nel Vangelo di Matteo (7, 6: nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos «non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci»). L’espressione si ripete talvolta come invito a non fare per gli altri cosa che essi non siano in grado di apprezzare nel giusto valore.