Un Camionista mi ha detto

Sull’uscio di una casa di paese, scambio due chiacchiere con la vecchia proprietaria, elegante e ospitale; fuori, nei vasi curati, crescono fiori come se questa fosse una primavera normale.
Non lo è, climaticamente – la primavera non è mai quello che ci si aspetta che sia – né lo è il nostro paese che non riesce a capacitarsi di essere in pezzi, dopo esser vissuto di illusioni.
Mentre guardo i fiori caparbi che insistono a fare il loro mestiere, nei vasi sulla soglia della vicina, penso a mia madre che in marzo ha sempre coltivatocoltivarefiore come pensieripensieri sfocatialla lettera pensieripensierinogiacinto come la mamma un giacinto.
Questa mattina un camionista particolarmente lucido e chiaro, è intervenuto alla radio, osservando che mentre noi ragioniamo dei problemi monetari d’Europa, non pensiamo mai che presto ci troveremo a dover fronteggiare le sfide monetarie ed economiche dei paesi BRICS, che stanno contrapponendosi al mondo attuale centrato sugli USA. Possediamo davvero solo quello che abbiamo nel cuore e nella mente, e teniamocelo stretto: me lo fa pensare proprio il camionista che ci invita ad alzare lo sguardo dalle risse nostrane e dalle sfide europee, per immaginare un mondo, ancora inimmaginabile, di cui non siamo già più il centro.

Abbiamo una Vigna

lavoro manualeQualcuno aveva cominciato col dire “Abbiamo una banca!?”, con aria un po’ stupita e un po’ giuliva. Non dico che tutto sia cominciato da lì; tuttavia quel ‘fuoco’ covava da tempo, nelle ceneri della sinistra un po’ sinistra. Lo dico bonariamente, ma dovevamo capirlo, da quelle parole inopinatamente svelate, che qualcosa davvero non andava…

Anni prima, dentro e fuori le agenzie di pubblicità della mia Milano, ma anche nei dintorni dei direttori delle testate giornalistiche più chic, avevo sentito cinguettare “Abbiamo una vigna, (naturalmente) in Toscana”. E anche quelle parole, pur dette in un altro contesto – lì si lavorava forte e duramente – si sarebbero dovute leggere come un segnale di qualcosa che non girava troppo bene.

Ora abbiamo un paese con i nervi a pezzi, pieno di gente che non si sa esprimere, che ha perso di vista la correttezza, le capacità professionali, l’apprezzamento del lavoro ben fatto. Un paese – e alcune sue metafore localistiche – in cui si prendono in giro le persone che lavorano, si insultano le donne, non si tengono in nessun conto le urgenze delle famiglie e degli individui; nessuno sa più come comportarsi, a nessun livello e stiamo andando a sbattere come falene impazzite.

Abbiamo un paese in cui molti son vissuti al di sopra delle proprie possibilità e continuano a farlo. Ma bisogna soprattutto specificare che molti son vissuti (e vivono) al di sopra delle proprie capacità di capire, di elaborare pensieri, di svolgere compiti di responsabilità. E questo forse è stato l’inizio di tutto. Ora volano gli stracci, gli insulti, le minacce….

Dopo avere persa la speranza che la ‘vecchia politica’ capisca che non c’è più spazio per le manfrine, ciò che rimane è il lavoro. Bisogna ripartire, umilmente, dalla consapevolezza che “abbiamo una vigna” vuole dire soprattutto che “dobbiamo lavorare da mane a sera” per zapparla, potarla, stralciarla, legarla. E per coglierne i frutti, senza dare per scontato che siano quanti e come li avremmo voluti. Più che una metafora, questa è la cruda realtà delle cose.

 

Addio, Luigi Albertini: au revoir

Addio a te, alle tue poetiche foto, al tuo russo melodioso. Addio ai ricordi della politica ben abitata, ai tuoi racconti di campagna e di latte, al tuo sapere di grande allevatore. Alle tua memoria puntuale. Addio a una Montalcino già d’antan e alle nostre vite precedenti.
Non guarderai l’Europa scolorare patetica. Tocca a noi, ora, capire quando sarà il momento di fuggire nelle nostre Astapowo. Addio, Luigi, con rammarico e un po’ di rimorso.

Pesce d’aprile a marzo

L’ho visto al Leccio, qui a Sant’Angelo, una manciata di sere fa, con una bella camicia di flanella, sui toni verdi turchesi – come una vigna a primavera (ma quest’anno le vigne sono parecchio indietro: Luciano Ciolfi oggi mi diceva “non hanno nemmeno cominciato a piangere”) – e mi è sembrato più in forma del solito, e l’abbraccio più caloroso, sotto gli occhi dei due amici e lo sguardo attento di sua moglie; sul tavolo la sua bottiglia che con quel guizzo sull’etichetta la cogli anche solo con la coda dell’occhio. Penso guarda un po’ cosa vuol dire essere un classico e dico – mentre getto uno sguardo circolare sulla tavola – “ah, bevete Soldera..”, sentendomi un po’ idiota mentre compito le parole. Però che peccato avere fretta, è una di quelle volte, più unica che rara,  in cui l’esser pitocca mi piacerebbe proprio. Be’, Gianfranco, che fai è marzo, per Bacco!in riserva

Lontano da Cipro

Tra un terremoto, una burrasca di vento, un’idea di primavera a cui non pensa più nessuno, faccio una passeggiata con l’abitante più colto del villaggio che mi racconta. Intorno a noi, mentre camminiamo, trascorrono le immagini di ciò che pochi sono (stati) abituati a osservare.

Vi ricordate cos’era la vacanza, nel nostro immaginario, qualche anno fa? Quali erano i ricordi che portavamo a casa? Ho fatto parte del manipolo che ha ri-scoperto la campagna, intesa come luogo di villeggiatura. Un luogo faticoso, ma almeno poco affollato; e poi, per lunghi anni – intere stagioni – ho potuto registrare i gesti, le erbe, gli alberi, le case, gli usi e l’orizzonte di luoghi che sono in grado di ammaliare.

Mentre il compagno di questa passeggiata mi racconta della moglie di un proprietario che ha la passione per Grillo “ma non per quello di suo marito, ché tanto lui glielo fa vedere ben poco…”, penso che bisognerebbe mettere un recinto intorno a questa parte d’Europa (io, già europeista sfegatata) e far pagare un biglietto d’ingresso. “vuoi vedere il Partenone? O il Colosseo? O la Porta dei Leoni? O il Prado? O Santa Maria Novella? O Cnosso? O l’Alahmbra? O Portofino?, O…?”. Paghi un biglietto d’ingresso, un visto. Ma anche per trascorrere giorni tra i profumi delle erbe di questa macchia mediterranea che poi ritrovi nel vino (e nell’olio, nel miele e nelle verdure che mangi a cena…).

Mentre mi si appiccicano in testa frotte di pensieri inquieti, mi domando perché questi paesi, questo Mediterraneo pieno di odori, cibo, sole e suoni, subiscano i dikat di un nord invidioso e affamato. “Mettessimo un recinto e facessimo pagare un biglietto d’ingresso”: sarà poi un pensiero così indecente?incontri 1fonte lontanofonticucina casalingaincontri 3marrucascendere salireorti previdentiramerinomicromondomanco fosse estate

Siamo poveri. Cioè siamo ricchi.

Ho letto su Il Fatto Quotidiano, qualche giorno fa, un’intervista a Salvatore Settis. Avevo già visto, giorni prima su la Repubblica, un appello firmato dallo stesso Settis, con la Barbara Spinelli, Bodei, e altri due o tre personaggi. In entrambe le letture ho trovato un fremito di speranza, anzi qualcosa di più. La volontà di cambiare, e di farlo anche a costo di non essere protagonisti del fenomeno, il che mi pare una grande novità, già di per sé. Dopo anni in cui esprimere ciò che si pensava era diventato un problema; dopo anni di marmellata appiccicosa che come ti muovevi con la testa, se te ne usciva un’idea un po’ fuori posto ti recintavano subito i pensieri, finalmente si possono leggere, a chiare lettere, preoccupazioni e risposte, idee e proposte intimamente sentite (credo) da molti e poco espresse finora. Idee e progetti che potrebbero fare di questo paese impoverito un luogo di ricchezza. Possediamo un patrimonio che abbiamo soprattutto usato per fare soldi, tradendo allegramente ogni impegno a conservarlo e a renderlo attuale con gusto e sensibilità (ricordo sempre un grande ‘manager’ del vino dichiarare con orgoglio: “io della cultura me ne frego, mi interessano i soldi”). Abbiamo lasciato campo alle speculazioni di ogni tipo, con il pretesto dei “posti di lavoro”, ora, forse, si può cominciare a forzare un po’ le cose in un’altra direzione; se intellettuali e accademici cominciano ad esternare la loro preoccupazione e indicare un altro “sviluppo”, quello della bellezza e dell’armonia.

Scrivo, consapevolmente, una tirata che sarà considerata ripetitiva e rompina, perché in Italia niente (non la scuola di certo) finora ha indotto i giovani (da quando posso ricordare) a guardare e “vedere” il paese in cui sono nati, ed è un paese – uso le parole dell’intervista a Settis – il cui territorio è sfinito, seviziato, devastato. Un paese in cui nessuno ha dato, né dà, valore a un paesaggio, a una veduta, ai colori di un bosco e come essi possono contrastare felicemente con quelli delle vecchie case di un villaggio venuto su nei secoli, seguendo le necessità degli abitanti… Nessuno tiene presente che per contemplare i nostri paesaggi, capirne la storia, viverci qualche giorno, c’è gente che viaggia, venendo da lontano.

Nell’intervista a Settis si delinea un programma: riconvertire l’industria dell’edilizia (che sta soffocando il paese), bloccare le grandi (inutili e costose) opere e restaurare -con un’azione decisa e impegnativa – il territorio, ripararlo dagli sconci, coinvolgendo nell’azione l’agricoltura, da sempre la grande madre del paesaggio italiano più amato..

E Settis, a questo proposito, dice di essere ottimista: dice di intravedere un risorgimento della sensibilità e della passione della gente per il paese. Un sogno realizzabile; la riabilitazione di un patrimonio che ci fa ricchi, con segni, colori, profumi che ci parlano, che parlano alla nostra mente e agli occhi di quelli che ci vengono a visitare, che vogliono provare l’emozione di ‘assaggiare l’Italia‘.

Siamo notevolmente impoveriti, ma possediamo una risorsa irripetibile, non replicabile, non esportabile: possiamo solo svenderla, ancora una volta correndo dietro ai soldi; ma dobbiamo capire che questa è la nostra ultima occasione per dire no alla grande area grigia della speculazione, con un programma vero per dare luce alla nostra ricchezza, per darci un futuro economico ricco e pulitoDSCN0512.

Via di Fuga

via di fuga dalla banalitàLa prima volta che ho percorso questa strada – era estate inoltrata, quasi autunno – ho avuto la sensazione che un mantello tiepido mi stesse avviluppando le spalle; era un manto fatto di storie, ricordi, passi di uomini e donne: tutto un mondo che aveva lasciato qualcosa di sé, transitando tra quelle cortine di alberi, accanto a una fonte che – appresi anni dopo – aveva abbeverato eserciti che lì accanto si erano più volte accampati, addirittura in ere diverse.

Per infinite volte, camminare su quella strada ha voluto dire essere in vacanza dal lavoro; in seguito è anche stato il cammino per tornare a casa. Ora passo spesso, di lì, e ogni volta la sensazione è quella di uscire dal quotidiano per accedere a un’altra dimensione: una via di fuga dalla banalità.

Mentre ci inoltriamo in un’epoca piena di incognite e di agguati, passare di lì sta acquisendo anche un altro connotato; questo angolo di campagna ancora piuttosto selvatico – spessissimo attraversato da animali anche grossotti (cinghiali, daini, caprioli; l’altro ieri un bel tasso mandiboluto) – sta assumendo sempre più la veste protettiva che mi colpì la prima volta. E se passo in auto, mi fermo un momento, apro il finestrino e ascolto.