Compleanno in un armadio

Un tubino nero di Prada – una roba seria, non gli stracci che mi par di ritrovare su Vanity e similari. Sì quel vestito era perfetto, anzi lo è ancora, perché è lì appeso e basta tirarlo giù dalla sua gruccia, per constatarlo. Lo indosso in una foto piuttosto bella, scattata da uno di quelli bravi (e buoni: scelgono bene e scartano tutti gli scatti che denunciano le tue debolezze – spirituali e carnali – ). Sarebbe perfetto e mi ero ripromessa di tornare a indossarlo, anche se la spilla perfetta da abbinargli me l’hanno rubata il 31 marzo del ’95.

Invece in quella foto ho una bella collana di corallo (ma la foto è in bianco e nero) sul collo già rugoso, ma molto energetico (chissà se si capisce che cosa voglio dire); semmai sono i due uomini ai miei lati che si immaginano (entrambi) protagonisti e onnipotenti. Due che in ogni caso hanno provato a esserlo – onnipotenti – usando tutti i mezzi e mezzucci utilizzabili alla bisogna; magari anche rinunciando a un pezzetto di ciò che amavano di più. Per esempio un cambio moglie – ovviamente moglie nuova di zecca, in cambio di quella usata e un po’ frusta – ; se la precedente era ricca di suo, quella nuova è molto bella (magari con un passato turbolento: no, non due parole, una sola!). Se la prima aveva intorno a sé una famiglia molto ammanigliata con la politica (gauche caviar), quella nuova può recuperare con solidi agganci internazionali, da vera pierre di successo.

Eh sì, un compleanno è così: apri l’armadio, prendi atto che la tua silhouette non è più quella d’antan, e ti accorgi che gli anni sono scivolati via, come sul taffetà di questa bella giacca, ancora portabile, e i pensieri ti portano lontano… Se faccio il censimento delle giacche sono messa davvero bene; invece col tubino e relativi ricordi agrodolci niente da fare. Ho persino una giacca – nera, di lana ritorta, fodera di raso bianco – di mia madre. La mamma compirebbe cento e otto anni, quest’anno, e la giacca va sugli ottanta. Presa a Parigi negli anni trenta, taglio tornato in auge (viva il revival), da prendere in considerazione per la lunga stagione incerta. Latouche approverebbe: questa è vera decrescita, ohibò, ed è pure felice se stringo l’inquadratura sulla giacca e non mi guardo troppo attorno.

Poi ci sono un bel po’ di cosette, lì appese, di cui non so liberarmi, perché sarebbe come privarmi di un bel po’ dei miei sogni; lo spolverino di Missoni, la giacca lunga e assurdamente colorata presa a Chicago, il cardigan di lamé … sì lo so che il futuro è piccolo, ma se una come me vaga tra gli abiti appesi nell’armadio può anche illudersi che quella gonna di raso color prugna e l’altra blu a pieghe stirate sul davanti un giorno di questi, un bel giorno di luce tiepida, se le rimetterà. Invece no!

Ma se con le gonne mi va male posso trovare altre consolazioni: le sciarpe – tante, moltissime, alcune così eleganti che sarà difficile indossarle senza sembrare una buzzurra che ostenta – , oppure i soprabiti; ma chi lo mette mai un soprabito elegantuccio tra una zolla e l’altra?

Il compleanno è una cosa strana; te lo trovi appeso nell’armadio, scopri che ti sta stretto, ma vorresti indossarlo ugualmente. Un po’ come se uno volesse ritrovare il tempo perduto e raccontarsi di nuovo una storia. Auguri.

E’ primavera: meglio il diserbo o gli F35?

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Ci si era già messo il tempo: appena scoccata la data, è caduta la neve, è scesa la temperatura, una grandinata ha imbiancato le strade. Ma temperatura e intemperie a parte, la gelata è arrivata con le risposte della signora Pinotti a un’altra signora di cui ho dimenticato il nome, sull’utilità degli F35 (a che servono gli F35?, era la domanda), risposte che hanno ulteriormente abbassato la mia fiducia nella compagine femminile di questo governo.

Ma sul genere femminile al governo avevo già – negli ultimi decenni – avuto le mie delusioni. In effetti prima dei discorsi di genere, bisognerebbe pensare al genere di persone … ma è meglio pensare alla primavera. Però anche quest’anno la primavera, oltre al freddo ha portato con sé un bel po’ di diserbante. Con una piccola novità, anzi con una novità per i piccoli!

La frazione è quella di Sant’Angelo Scalo, il luogo preciso è quel grazioso pratino costellato da alberi (molti tigli …) con una deliziosa panchetta accanto a una fontanella e un bel glicine che aggiunge al tutto un tocco liberty. Il pratino è una distesa di pratoline così fitte da distrarre chi passa accanto in auto, e ognuno pensa, guardando e ammirando: è primavera!

Oggi, stavo proprio pensando agli F35 e a quanto (e in che modo) graveranno sulle nostre prossime primavere quando l’occhio per consolarsi da quei brutti pensieri mi è caduto sul meraviglioso pratino di cui sopra, e … il pratino non c’è più!

Al suo posto, un po’ di chiazze giallastre nel rimanente verde; le pratoline fiorite ridotte a poche chiazze – qua e là -, lo scivolo dei bimbi deserto e lucido di pioggia … e proprio dietro un F35 in attesa del dottor Stranamore.

Cast stellare nel paesaggio mozzafiato

DSCN9063Nel mondo che cambia, rivoltando tutto ciò che conoscevamo, spesso dandogli significato diverso (gli esempi sarebbero molti, ma non è di questo che vorrei scrivere qui, ora) ci sono comportamenti che non solo permangono, ma pure peggiorano; comunque mi sembra che non siano consapevoli di ciò che sarebbe più importante, ora. 

Per esempio, i nostri sedicenti comunicatori – talvolta persino residui di partiti in dissolvenza o persone che pensano che basti mettere i piedi nelle orme nitide di altri che sono passati da una certa strada per dire ci sono anch’io e sono identico a lui: infatti faccio le stesse cose – credono ancora che basti usare le stesse parole, messe pressapoco nella stessa sequenza, per essere: un giornalista, un pierre, un blogger possibilmente di successo perciò atto a ospitare pubblicità, un copywriter (cos’è?), un regista e così via con l’elenco di tutte le professioni viste in tv o al cinema e mal capite e digerite.

Mai nessuno che si faccia vanto di essere un bravo calzolaio, o una capace sarta (o anche solo riparatrice di abiti), oppure un carpentiere di vaglia. Questi mestieri non sono stati validati dalla tv e nemmeno dal cinema (peraltro meno guardato della prima); spesso puoi trovarne traccia in alcuni libri che però leggono in pochi. Eppure si torna ad averne bisogno.

Quindi anche persone apparentemente rispettabili e poco inclini a trasgredire i sani principi del milanesissimo ofelé fa ‘l to’ mestée (pasticciere fa il tuo mestiere, ovvero fa ciò che hai imparato a fare, con tutto ciò che ne consegue), vengono colte in fallo a scrivere reportage di pseudo giornalismo, magari in vista di raccogliere il tutto in un libro che fino a ieri poteva aspirare a contributi di soldi pubblici, per essere stampato e poi esibito dall’autore al grido di “ho scritto un libro”.

I più pericolosi sono i politici trombati, di cosiddetta buona cultura; e non alludo a quelli di nome e di spicco che di solito trovano un editore che, pensando alle relazioni politiche del de cuius, gli pubblicano graziosamente l’opera più o meno significativa. No, penso a quelli di secondo e terzo (e quarto e quinto, …) piano, che scrivono fingendo di non accorgersi che i soldi pubblici sarebbe ormai decente non chiederli più.

Ma li perdonerei anche, se scrivessero (si possono anche avere rivelazioni e sorprese positive!) qualcosa di nuovo, di fresco, di stimolante, che – per esempio – servisse a rilanciare questa nostra lingua che siamo reticenti a usare, di cui stiamo dimenticando le parole, che stiamo mortificando con anglismi fuori contesto e con espressioni che la deformano. Una lingua tra le più studiate al mondo, che numerosi stranieri si apprestano a venire a insegnare, in questo bel paese dimentico di sé stesso, E speriamo che la imparino bene, cioè che ci sia ancora qualcuno che la conosca e gliene insegni bellezze e significati, perché qui – in questa valle di depressi alla ricerca del posto ideale, cioè televisivamente appetibile – non c’è più un cane (o comunque sono uccelli molto rari) che capisca l’importanza di farlo.

Perciò può capitare che in queste belle colline, una cittadina antica con una piazza a misura d’uomo, in cui la luce gioca con alberi e pietre, dove ogni angolo che giri ti racconta cura e bellezza venga definita “paesaggio mozzafiato“, sempre e invariabilmente (e tutti siamo perciò senza fiato). In tale luogo, che per l’occasione diventa una location, giunge una troupe con registi famosi e altrettanto noti attori e interpreti che per la circostanza divengono un “cast stellare“. Con tanti saluti alla ricchezza linguistica, alla Toscana patria dell’italiano, al buon senso e al buon gusto. Chissà, tra un po’ anche l’italiano sarà delocalizzato?

Moretto

Senza allusioni. A un certo punto della mia vita mi sono ritrovata – spero con qualche merito, ma certo con buona fortuna – alla testa di una direzione importante, in un’impresa editoriale che viveva anni di grande sviluppo e di iniziative epocali.

A un certo punto, durante una fase aziendale delicata ebbi una promozione che implicava anche una riorganizzazione profonda della struttura che riferiva a me, con alcune promozioni di quadri e dirigenti – uomini e donne – che avrebbero avuto maggiori responsabilità e ruoli di spicco, non solo all’interno della stessa direzione, ma anche in azienda, proprio grazie alla tipologia della nostra attività che prevedeva alcune autonomie sinergiche e ben organizzate.

C’erano tre uomini che potevano ambire a uno dei ruoli più interessanti; erano tre quadri con qualità precise per i ruoli che ricoprivano, e con caratteristiche generali diverse tra loro. Un aspetto che mi interessava era anche quello dell’affidabilità e della loro trasparenza nei comportamenti, perché si aveva a che fare con un contesto pieno di insidie, anche politiche. Uno dei tre uomini – che chiamerò Pacchia – era molto brillante, aveva indiscusse capacità di ‘visione’, un’ottima cultura ma un curriculum mediocre, che lasciava un po’ perplessi riconoscendogli intelligenza e vivacità intellettuale; era una persona con un passato discontinuo che però mi piaceva nonostante si prendesse qualche volta delle autonomie non sempre opportune.

C’era tensione perché si sapeva che la decisione era imminente: io ero ancora incerta, perché costretta a scegliere dall’interno dell’organico esistente e sapevo che la promozione di uno dei tre sarebbe diventata anche un po’ un giudizio negativo nei confronti degli altri due uomini e non potevo poi permettermi ripercussioni negative sulla qualità del lavoro. Erano anni (gli anni ’80) in cui il sindacato era forte in azienda e tutte le decisioni manageriali venivano messe in discussione, passate al vaglio in modo strumentale e divenivano talvolta occasione di ostruzionismi o malintesi.

Un pomeriggio, nell’imminenza della scelta definitiva per quella promozione, mi chiese un appuntamento il Pacchia, che sapeva di avere un certo ascendente su di me e che non mancava di farmi notare – in modo un po’ ingenuo – la sua cultura ricca e variegata che sovrastava sulle altre. Aveva un atteggiamento non dico intimidatorio, ma era come se immaginasse sé stesso perennemente in groppa a un cavallo bianco.

Il Pacchia venne nel mio ufficio e sedette dall’altra parte della scrivania: con un largo sorriso e gli occhi fissi nei miei, allungò una busta bianca verso di me, che gli stavo di fronte abbarbicata alla scrivania, forse apparendo (più di quanto non fossi nella realtà) sulla difensiva. La busta bianca stava tra di noi e spiccava sul legno della pregiata scrivania Knoll – me la ricordo bene – trattenuta solo dall’indice del Pacchia che facendo mossa di spingerla ulteriormente verso di me disse all’incirca queste parole “se il posto di direttore creativo non è mio, qui ci sono le mie dimissioni”.

Ovviamente non ricordo precisissimamente le parole, ma ho bene in mente la brevità della frase e il tono educato e sobrio ma fermissimo, e poi lo sguardo. Ma ho soprattutto in mente la busta bianca e il pensiero che in quel momento mi attraversava la mente (“e se poi lì dentro c’è un foglio vuoto?”), mentre capivo che il mio essere donna – soprattutto in quei tempi – mi faceva debole agli occhi del Pacchia che giocava sulla sua superiorità, anche di genere.

Quindi allungai la mano e la misi sulla busta bianca, tirandola verso di me e sottraendola da sotto il dito del Pacchia, e dissi: “Accettate”. Una semplice paroletta, poi mi alzai e gli strinsi la mano, ringraziandolo per il lavoro svolto fino ad allora. Dopo non successe proprio niente di drammatico; passato qualche mese mi accorsi che a fronte del risparmio di uno stipendio da quadro, il lavoro andava avanti bene e con piena soddisfazione di tutti. 

Le notizie estive davano il Pacchia al mare, a vendere, in un baracchino molto chic di un luogo alla moda, insieme alla compagna del momento, delizie di stagione a caro prezzo. Senza illusioni. 

Iris e gigli bordano la Costaccia

E viburno e intrecci d’uva prelibata, e grandi alberi da frutto e ortaggi; e grandi querce e filari di viti ben potate. E kaki che d’inverno sfamano uccelli intirizziti e cespugli di rose ben zappate. E pesche bianche profumate. Per anni i viaggiatori hanno frenato per guardare meglio sporgendosi dai finestrini. Non so quanti hanno potuto memorizzare tutti gli elementi che creavano armonia, ordine, senso di un lavoro che non ha mai fineDSCN2647, fino al termine dei propri giorni. Così ricordo i tre Fagnani della Costaccia, primo incontro ospitale in questa terra ricca e difficile: un fascio di canne appoggiate a un olivo o a una quercia, con un’impronta inconfondibile. Per me ricordi di una gente che ha dormito in terra cedendomi il letto per non lasciarmi sola in prossimità del parto. Le foglie secche degli iris incendiate con sapienza, per lasciare posto a quelle nuove che verranno. Ora mi capita di incontrare Lola con andatura vietnamita – che torna dall’orto della fonte – di notte in sogno, ma qualche volta di giorno dietro la curva, improvvisamente. Il lungo addio dei tre Fagnani della Costaccia è finito stanotte con il volo di Sergio alla sua vigna. Gigli e iris pazienteranno borbottando la loro preghiera….

I Fagnani operosi che per tutta la loro vita hanno smentito la loro etimologia.

http://www.vinoalvino.org/blog/2014/03/il-vino-le-rose-e-tutto-il-resto.html

Fatto da me

Ho letto da qualche parte che l’ottimo Farinetti è intervenuto sul tema del made in Italy sollecitando il governo e gli immediati dintorni a “creare un marchio” per l’italianità, con una grafica (comitato, giuria, concorso) anche in vista dell’Expo 2015. Ho subito pensato che l’idea fosse banale e bellissima allo stesso tempo. Perbacco, certo, ho pensato subito anch’io che ci voleva qualcosa a sottolineare l’inestimabile patrimonio dell’italianità – artigianato, food, vini, arte e paesaggio – e sono andata a fare un giro, rimuginando sulla cosa. Oggi era successa un’altra cosa, un po’ imbarazzante e a suo modo rivelatrice. Una casa produttrice di armi da guerra ha messo “tra le mani” del David di Michelangelo un fucile mitragliatore e ne ha fatto una pagina pubblicitaria. Tra l’altro molti giornali – tra cui Il Giornale – riportano la notizia in modo curioso “il David di Donatello di Michelangelo” svelando così un po’ della cultura artistica del nostro giornalismo corrivo. Cammina cammina ripensavo a queste notizie apparentemente eterogenee, invece no. Perché la seconda notizia riguarda la stima, la considerazione e il rispetto che il mondo ha per noi e per il nostro paese. Poiché ci considerano molto, acchiappano un Michelangelo e lo usano per fare pubblicità – non a un Bourbon (e sarebbe già discutibile) – ma alle armi da guerra. Niente male! E allora pensavo: non sarà di certo un marchio – che una volta avrebbero pensato di affidare a un genio del design e della grafica, tipo Massimo Vignelli o Enzo Mari  e che ora affiderebbero a un qualsiasi Lapo o, meglio ancora, a qualche figurante di partito senza arte né parte -, dunque non sarà di certo un marchio, soprattutto se “pensato” nelle adiacenze dei nostri governanti a conferirci carisma e credibilità. Perché ancora una volta ci si affideremmo a una paroletta sperando che faccia il miracolo. Ma in realtà il miracolo dovremmo farlo tutti noi – uno per uno – tutti i santi giorni, scrivendo la paroletta giusta. Così mi è successo, venerdì scorso, in un negozio di calzature di scegliere un bellissimo paio di scarpe per acquistarle – un prodotto del design italiano, firmato da un marchio famoso e molto chic-. Poi ho alzato la linguetta e sotto c’era scritto made in Vietnam. Io, giuro, non ho niente contro i vietnamiti (nemmeno quando venivano defoliati ce l’avevo con loro), ma quella scritta mi ha fatto imbestialire e ho fatto una cosa strana: strana per una come me che è perfettamente consapevole che l’abbigliamento made in Italy viene fatto in Bangladesh e ora anche molto in Bulgaria, molte scarpe in Vietnam, e così via. Ho detto alla commessa no guardi, sono davvero contrariata perché chiamano made in Italy una scarpa che è made in Vietnam … che senso ha? La parola non basta. Come le lenticchie di Castelluccio che sono made in Canada, ma packed in Castelluccio. Insomma perché accade questo? Perché Italy e Castelluccio, o Colonnata, o Extra Vergine Italiano, o Toscana, hanno un valore preciso. Nel caso del made – fatto – in Italy in genere, si tratta di vendere il lavoro di “mani che obbediscono a un pensiero“, insomma si vende qualcosa di molto speciale, che ha reso ‘sto povero paese molto famoso in tutto il mondo; così famoso che tutti vengono a cercare il made in Italy. Salvo poi scoprire che ‘de palabras se trata’. Nient’altro che parole dette da imbonitori spregiudicati e anche poco furbi, perché osano pensare che gli altri, tutti scemi, non se ne accorgeranno …

Il tutto si è riallacciato alla proposta di Farinetti, di creare una parola che dicesse … made in Italy (!). La parola c’è già. Non è un’altra parola che dobbiamo inventare, ma un comportamento: dobbiamo dichiarare una guerra feroce alla corruzione e alle menzogne, contro le finzioni e i falsi che non esitiamo a spacciare per autentici. Vere condanne, altro che creare una nuova parola. Che verrà perciò creata e applicata e disattesa, dal made in Italy della politica nostrana, così fedele alla tradizione.

Problemi Centrali

disegnando val d'Orcia

La storia si ripete, sempre allo stesso modo. Stai un bel posto; un luogo rimasto com’era perché eravamo troppo poveri per pensare a qualcosa che non fosse la pura sopravvivenza. Quelli intorno – vicini e lontani – più ricchi di noi venivano a vedere il paesaggio che allora non si chiamava nemmeno così, perché era un concetto sconosciuto; in realtà ci venivano perché gli sembrava di scorgere, nella nostra vita semplice, povera e così diversa dalla loro, un’idea di vita diversa, che nemmeno loro capivano bene che cosa volesse dire; però venire qui li faceva stare bene, attutiva quel senso del lunedì in cui riprendevano a lavorare e gli sembrava di essere in guerra (e guerra era, ma loro non se ne accorgevano fino in fondo: era più che altro una sensazione). In realtà, quello che gli dava un senso di benessere e di speranza, era il paesaggio, la natura, la terra – la nostra madre, di cui ci si dimentica, per una ragione o per l’altra: avidità o ignoranza, o entrambe -, era quel senso di stare in un grembo ancestrale che ti protegge dall’ignoto, dal sangue delle battaglie che si combattono nel mondo, dal rischio di disperdere il proprio sé nel cosmo buio e orrorifico. Anche tu, che ci stai, in questo posto, ti senti bene nel tuo (lasciamelo chiamare così) paesaggio. Ci stavi così naturalmente bene, che non te ne sei mai accorto. Nel tempo, i rari visitatori, di passaggio, di contemplazione, di commercio come i venditori itineranti, si sono infoltiti. All’inizio non trovavano nemmeno da dormire, era quasi un’avventura, ma un’avventura i cui rischi erano limitati alla possibilità di assaggiare le cose semplici che si cucinavano in casa o di dormire in una camera senza bagno: di respirare un’aria così diversa che sembrava di stare in un altro tempo. Le voci corrono, si sa, di bocca in bocca e con gli anni è venuta sempre più gente e da sempre più lontano. Gente con molti soldi, altri con molte idee, altri solo con la voglia di provare una vita più semplice e più ricca di emozioni, anche se meno ricca di soldi. Anche a te sono cambiate un po’ le cose in testa: se tutta ‘sta gente viene qui ci sarà pure una ragione, hai cominciato a pensare. E hai anche cominciato a guardare con altri occhi questo tuo nido natìo, che hai sempre visto e a cui eri così abituato … La storia però non la fa uno solo, si fa insieme e la guidano magari altri che si basano sui numeri crescenti di persone che si spostano o che spostano interessi e denari, e fanno i loro conti. Quello che avevi cominciato a riconoscere come paesaggio – e avevi appena iniziato ad affezionartici – muta profondamente. Tu che sei andato a scuola potresti osservare a questo punto che i paesaggi sono sempre cambiati – lo sapeva bene Renato Biasutti, che li ha classificati, quasi un secolo fa -; il cambiamento è nella natura delle cose. Tutto cambia e noi che al cambiamento ci siamo dentro, anche noi cambiamo. Sì è vero, però dipende come, quanto, e perché (e a che prezzo). C’è sempre un prezzo da pagare e questo tu lo sai, anche se ovviamente non ci pensi continuamente. Quello che ti preme è essere un po’ più come quelli che tu guardavi con rispetto e un po’ di timore e non essere sempre guardato da loro come una via di mezzo tra uno fortunato (perché sta qui, e un poveraccio). Poveraccio non perché non hai soldi abbastanza (ce n’hai anche per toglierti qualche sfizio che un tempo manco ti immaginavi), ma perché ti sembra che quelli che arrivano da fuori la sappiano sempre più lunga di te. Infatti è proprio così. Il figlio del tuo vicino è entrato in politica, per quello, e lui con quelli ci sa fare. Contratti, impegni, finanziamenti, crescita, sviluppo, affari; e poi crescita sostenibile, prodotti a chilometro zero, etica dello sviluppo, globale, locale, glocale. Le parole sono tante e affascinanti. Prendi territorio, per esempio …  se si contassero (e lo fanno) le volte che viene scritta e pronunciata questa parola, ti stupiresti della sua frequenza nei discorsi della politica. E’ solo perché hanno scoperto che si può vendere e ci si possono fare affari. E non c’è niente di male a fare affari, finché non si arriva ai “derivati”, quella parola che abbiamo incominciato a conoscere quando abbiamo cominciato a capire che la festa era finita. E’ anche la parola che ci  può aiutare a capire perché paghiamo tutto così più caro di quanto, in realtà, potrebbe (dovrebbe) costare, a cominciare dal petrolio. Per farla breve un po’ sommariamente, è la finanza, anzi sono i costi che ci vengono imposti dalla finanza. Be’ la finanza si scanni pure, ma tu te ne stai nel tuo nido protettivo, guardi dalla finestra e vedi quel bel paesaggio (sì un po’ cambiato da quando eri piccolo, ma sempre molto rassicurante, nella sua familiarità armoniosa, con le colline e ancora molti boschi e la strada che segue il terreno con grazia) e poi esci e ci vai a camminare dentro, coltivi il tuo uliveto e la tua vigna, hai una bella proprietà e ti basta andare un paio di volte all’anno in mezzo al mondo e quando torni hai ancora più voglia di restare qui dove stai … anzi, andare in giro ti conferma che il tuo luogo è molto bello e hai cominciato a capire perché arrivano da tutto il mondo a vederlo, e a mangiare e ad assaggiare tutto quello che tu e gli altri avete cominciato a vendere e a sviluppare: perché per te lo sviluppo è questo, è fatto sulla tua misura. In fondo “a misura d’uomo” è un concetto nato e cresciuto dalle tue parti. La Cappella de’ Pazzi è a Firenze, mica a Mosca o a Singapore, e nemmeno a Filadelfia. E il Rinascimento cos’altro ha voluto dire se non “sviluppo”? Uno sviluppo sostenibile, perché ha voluto dire abbandonare concetti vecchi e anche un po’ cupi, per ripartire con una serie di nuovi criteri. Caro mio, se mi hai seguito fin qui devo darti una notizia: stiamo ripartendo di nuovo, perché la festa è finita davvero. Ora però non si capisce bene dove si va a parare, né se ci sarà ancora qualcosa per te, per me – per noi – alla fine di questo capitolo. Non voglio essere pessimista, però bisogna che tu sappia che se vuoi che ti rimanga qualcosa del tuo nido rassicurante, se vuoi ancora sorridere – tra qualche anno – guardando fuori dalla finestra, bisogna che ti prepari a essere molto attento a quello che ti succede intorno, devi sapere che niente più sarà gratis, non potrai dare più niente per scontato e non sarà facile far capire a quelli che pensano di diventare molto ricchi, che non possono espropriarti dei tuoi sogni.