Inverno Italiano

Ho avuto un capo che, a un certo punto della sua permanenza in casa editrice – dove lavoravamo entrambi – ha scritto un libro. Il libro non l’aveva materialmente scritto lui (scrivere richiede tempo e lui era l’amministratore delegato di un gruppo articolato e complesso), ma raccontava, credo piuttosto fedelmente, del suo lavoro nella Germania est, al tempo della riunificazione; un complesso incarico ufficiale, conferitogli da qualche istituzione, il cui obiettivo forse era quello di individuare i punti d’incontro tra due culture separate, fino ad allora, da un muro al cui abbattimento Gorbaciov aveva dato il suo contributo indispensabile.

Quel mio capo (era ancora in procinto di dare un nuovo impulso alla propria carriera) si lamentava con me di aver venduto solo ottantanove copie del suo libro (che era stato pubblicato da uno dei marchi del gruppo editoriale da lui amministrato); si lamentava perché riteneva che il libro meritasse ben di più. In effetti, il libro era scritto bene, da un giornalista che aveva raccontato bene gli episodi salienti di quella stagione di lavoro così impegnativo, in un momento così significativo per la storia della Germania e dell’Europa.

“Ma caro mio – gli avevo commentato – se, invece di scrivere un libro intitolato ‘Autunno tedesco’, tu avessi proposto ‘Primavera francese’, avresti avuto un gran successo, indipendentemente dai contenuti; anche se i contenuti, in questo caso, non possono che peggiorare la situazione!”.

In quel periodo c’era una grande attenzione per la Germania che dava l’idea di essere in procinto di compiere un’operazione immane; ricordo che alla Buchmesse a Francoforte circolavano delle t-shirt nere con dicitura “Endlich, ein Deutschland weniger”, testimoniando un’inedita autoironia. Quel mio capo era persona colta, ma un po’ noiosa, come tutti quelli che scoprono un po’ tardi nella vita un lato inedito dell’esistenza, tendendo poi a concentrarvisi troppo; però sarebbe uno con gli strumenti adeguati (e lo sguardo giusto) a tagliare finalmente i costi di stipendi, prebende, privilegi costosissimi e dintorni, del milione (o poco più) di politici, manager pubblici, loro amici e amici degli amici, che sono all’origine di questo inverno italiano, di cui è impossibile vedere la fine.

Potrebbe farlo molto bene, perché oltre a possedere le qualità ideali per affrontare i problemi della complessità dell’azione, non dovrebbe ‘tagliare se stesso’ (è la precondizione indispensabile affinché i tagli siano effettivi). Poi magari potrebbe scrivere un libro, facendosi aiutare da un giornalista giusto, via di fuga dalla banalitàper raccontare l’epopea, e pubblicarlo con un titolo finalmente primaverile. Io gliene sarei così grata da promettergli fin d’ora almeno tremila copie vendute.

 

Girogirotondo

Le ho portato un mazzetto di matite colorate, sapendo che il bell’effetto veniva dal colore esterno delle matite, più che dalla mina colorata; penso che quello che ti colpisce nella prima infanzia, lascia nella tua memoria un segno speciale. I colori di quelle matite hanno tonalità speciali: sanno di frutta, di mattino d’estate quando l’aria è ancora fresca, sanno di albicocche appena colte …

Ho incominciato, sotto i suoi occhi attenti, a disegnare una spirale di color ciclamino, canticchiando girogirotondo; mi sono resa conto che la spirale cresceva quasi perfetta, sul foglio bianco, ed era molto apprezzata dalla piccolina che si è messa a cantare imitando perfettamente l’intonazione e farfugliando le parole; poi si è guardata le mani e mi ha preso la matita, impugnandola come fosse una spatola.

Poi si è messa a disegnare una spirale, a modo suo, alzando di poco il tono della voce, mentre continuava a cantare: guardavo il modo improprio in cui teneva la matita e mi è venuto da dirle guarda!, non così, la matita si tiene così, mostrandole come. In quell’istante mi ha colpito il ricordo di una maestra che mostrava come si tiene una matita a me bambina e, insieme, mi è tornato – come se fosse accaduto un’ora prima – il senso di frustrazione da cui ero stata invasa allora, pensando che non ne sai mai stata capace.fiore come pensieri

Notturno

 

Immagino che succeda a tutti: quando si guida di sera, dopo un incontro, con le parole dette ancora nella testa, con immagini e impressioni negli occhi, la mente è come un animale al pascolo, che vaga qua e là …

Così, l’altra sera – ma erano solo le cinque – dopo aver fatto visita a un amico, nella sua cantina, sono uscita e il sole era tramontato lasciando dietro di sé ancora un bagliore, un riflesso di ciò che era stato il giorno, qualcosa che bastava appena a distinguere il profilo delle colline dal cielo appena un po’ più chiaro. Sarà stata la luce particolare (o il buio, chissà) ma mi è tornato in mente Montalcino com’era, prima del tempo del vino, quando l’avevo conosciuta, un pomeriggio di luglio e poi la sera e la notte seguente.

Con questi pensieri, mi trovavo a guidare vicino a un podere che si chiama Scopeto, dove un artista visionario quarant’anni fa aveva costruito un labirinto – se ricordo bene – pensando a Don Quijote. Da quel ricordo nitido di contorni e sfocato di colori (pastello) mi si sono srotolati i ricordi di anni dimenticati; ricordi in cui si intrecciano le vite dei non pochi che hanno incontrato questi luoghi in un tempo così diverso da questi ultimi vent’anni in cui il nome di Montalcino automaticamente richiama il Brunello e basta, e si dimentica di quello che c’era prima. 

Il luogo era un concentrato di sentori e profumi; ricordo che si arrivava qui e per un giorno si era come rincitrulliti dall’aria, dagli odori delle erbe e della terra, e dai pensieri. Montalcino era come una sorgente di energia; era come scoprire un mondo intero. DSCN8371

Amami Andrea!

Mentre noi, di rito ambrosiano, socchiudevamo gli occhi canticchiando mentalmente “amami Alfredo”, pensando al risottino all’onda e al maestro Gatti che di lì a poco sarebbe salito sul podio, nella Toscana più ligia ai detti e alle tradizioni, sposavano Andrea e Minnie, con corollario di amici e parenti, bimbi e canini – come in tutti i matrimoni veri. Il tempo tiepido è stato il primo regalo che il destino ha riservato agli sposi, il secondo – tutt’altro che secondo – è l’incredibile ricevimentopranzoconaperitivofashionincantina che l’alacre famiglia di Fiorella Vannoni alias Tenuta Croce di Mezzo, capitanata da Fiorella medesima, ha organizzato per i suddetti sposi, lasciando la sottoscritta sbalordita dalla misura, la bontà, i sorrisi, e il contagioso senso di futuro che il rito (per me semisconosciuto) ha profuso e infuso. Con gli occhi di padre Dominique a sorvegliare che le benedizioni raggiungessero il bersaglio. Amen!

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Il Giardino dei Pensieri

Con un gusto per la materia che lo avvicina molto a un artista artigiano, il Tita sta accudendo il giardino che ha creato nella piazza tra comune e consorzio. Un’edizione invernale del suo poetico lavoro, che utilizza a piene mani i materiali che passa il convento. Oggi più che osservare un giardiniere all’opera, posso assistere a una performance, tra un’istallazione materica e qualche nanetto che non riesce a essere kitsch. Tita raduna i materiali, li sistema, ci lavora, brucia, ammonticchia in bell’ordine, impila, sistema, rigenera. E’ un balletto pieno di segnali per chi è predisposto a coglierli, e mi fa sentire sospesa a metà volo, tra Londra (che Tita evoca irresistibilmente) e il Giappone (per via del gusto per la semplicità e gli accostamenti cromatici). E poi il fuoco, anch’esso modellato ad arte, come tutto quello che fa Tita, nel suo Giardino dei PensieriDSCN8168DSCN8174DSCN8172DSCN8183DSCN8187DSCN8170DSCN8177DSCN8183DSCN8193

Globalisation

Ricordo ancora il vecchio odore della stazione Centrale, di Milano, quando accompagnavo o andavo a prendere mio padre che andava a Genova. Sapeva di bitume e di vite viaggianti – con vago sentore i formaldeide in sottofondo – un odore inconfondibile, ricco di ricordi. C’era il bar dove tutto costava inspiegabilmente troppo, i borsaioli in agguato, la farmacia sempre aperta, due edicole e il modello dell’Andrea Doria sotto vetro (come a ricordarmi che papà era imbarcato). Ho ancora le foto dei mitici sbarchi di mio padre – a Genova o a Le Havre, o a Southampton, con un Borsalino in testa e il bavero del cappotto alzato dato che veniva quasi sempre da paesi caldi – e finché campo, pensando a mio padre lo vedrò salire o scendere, da un treno, da una nave, da un aereo: l’uomo con la valigia, lo chiamavano gli amici e mia madre.

Ora invece vado spesso alla stazione di Grosseto, dove per sentire gli odori di cui sopra devi spencolarti sulle rotaie e tirare su forte con il naso: allora ti arriva remoto il sentore, che è l’ombra dell’odore d’antan. Però a Grosseto – lo ricordo bene – ho accompagnato per l’ultima volta a un treno mio padre che era venuto a trovarmi durante la mia vacanza toscana; era molto malato, ma piuttosto irriducibile; mi domandavo se ce l’avrebbe fatta a salire sul treno e, giunto a Milano, se sarebbe stato in grado di arrivare a casa. E’ stato il suo ultimo treno, che io sappia, circa trent’anni fa.

Sempre alla stazione di Grosseto, giorni fa ho invece accompagnato Francesca, che andava a Nord. Come trent’anni fa, il treno era in ritardo. Fuori dalla stazione alcuni rom osservavano da lontano i movimenti di un gruppetto di tossici che si davano da fare intorno a una fontanella. Sull’uscio due poliziotti stavano impalati a guardare un paio di immigrati slavi un po’ alterati; con Francesca siamo andate al bar della stazione, che ora si chiama Chef express, ma il servizio è lento. C’è una sola banconista, che fa tutto, dalla somministrazione alla cassa. Conosce il valore della cartamoneta, ma non parla la nostra lingua. E’ un’orientale, carina, con occhi vuoti e priva di espressione; abbiamo capito che aveva capito l’ordinazione quando ci ha messo davanti un caffè e un té. Francesca ha chiesto la chiave della toilette, ma ha dovuto rinunciare perché il gesto di risposta era incomprensibile … Poi è arrivato il treno, in media con il ritardo di sempre e ci siamo avviate ai binari. E’ lì che ho avvertito il lontano ricordo dell’odore di stazione, mortificato però dal potente profumo del detersivo con cui un operaio stava riempiendo un macchinario per lavare i marciapiedi: in tuta gialla, con strisce fluorescenti e la scritta “Cleaning Service”.-

La Scoperta del Paesaggio

Lo dicevo io che prima o poi il paesaggio sarebbe diventato il protagonista di questa Italia strana, che invece di avere cura di se stessa e presidiare le sue bellezze, ha cominciato nel secondo dopoguerra a (far) costruire raffinerie; non certo il massimo da affiancare ai lasciti di popoli e generazioni che nel Belpaese hanno stratificato testimonianze artistiche da Unesco, durante i secoli.
Sono bastati pochi decenni e un paio di generazioni di politica del ciarpame per ossidare i segni lasciati nei secoli dal lavoro dei contadini, degli artigiani e dei grandi artisti, ma niente paura; ora la politica si è accorta del paesaggio e vuole tutelarlo.
Spero però che l’esempio dell’ attenzione a questo bene delicato e misconosciuto non sia quello che mi giunge per mail dal comune di San Quirico, il cui sindaco mi sembra persona molto rispettabile.
Perché pare che vi sia un contenzioso con la McDonald, che si è inventata un hamburger la cui protagonista è la Chianina (povera Chianina: finire in un Mac). Che cosa ha combinato la McDonald? Ha ambientato il McItaly fatto con chianina, in un paesaggio bucolico, che riprende (a me non pare manco troppo fedelmente) un paesaggio toscano famoso, quello in cui, sul confine tra Montalcino e SanQuirico, fanno bellissima presenza i cipressi di un roccolo largamente usato dalle Poste Italiane, da alcuni agriturismi marchigiani, e da molti altri ..da un bel po’ di tempo a questa parte.

Reazione (leggo) dell’amministrazione comunale: “se ne guardino bene, dall’usare quel paesaggio famoso”, a meno che la MacDonald, scriva chiaramente che il paesaggio, usato quale sfondo al terrificante paninazzo, è quello di San Quirico d’Orcia. In altre parole si dà il destro alla McDonald di usare le bellezze di un paesaggio unico, purché se ne approfitti fino in fondo, apponendo anche una didascalia che autorizza quell’accoppiata un po’ innaturale.

Sull’uso (e gli abusi) relativi al mitico roccolo di cipressi, la Mc Donald è l’ultima arrivata, mentre le poste italiane hanno fatto campagna, per più di un anno, inondandoci della foto che riproduce i cipressi, fino a farci morire di noia. Anche se – d’accordo – le poste italiane (pur scalchignanti) – sono più decenti, dal punto di vista dell’accoppiamento con un paesaggio così emblematico.

Ma perché mai, mi domando poi, si dovrebbe scrivere, sotto una foto di un panorama, il nome del comune in cui ‘sto panorama è situato? Non mi pare che sia una condizione che tutela il paesaggio, che è di tutti. Mi sembra invece che la tutela del paesaggio sia tutta nelle scelte che determinano dove, quanto, come e se COSTRUIRE, consumando colline a pianure, boschi e coltivi. E nell’insegnare ai cittadini, soprattutto nei giovani, che il paesaggio – fonte di benessere spirituale e attrazione per il visitatore – è patrimonio loro: perciò essi ne sono i primi fruitori e devono esserne i custodi.

La Mc Donald non mi piace, non mi piacciono le sue scelte di marketing, che mi ricordano i saprofiti; l’idea di una bella chianina bianca che finisce da morta in un Mac, mi raccapriccia e mi riempie di tristezza, ma se tutti i sindaci d’Italia decidessero che per fotografare o filmare il paesaggio occorre un’autorizzazione, vorrebbe dire che nessuno più potrà ambientare un servizio di moda, o un reportage, o una commedia o un film, in Italia. Vorrebbe dire soprattutto che ci si è dimenticati che il paesaggio e il territorio sono di tutti, sono un bene comune.