Il Messaggio dell’Architetto (di conoscenza e d’amore)

L’architetto è molto. E’ molto tante cose: molto alto, molto vecchio, molto elegante, molto creativo, molto avanti col pensiero, molto intelligente – di quell’intelligenza che avevo già incontrato in personalità speciali, come Bruno Munari, ad esempio, un modo di essere e di agire che si accompagna sempre all’ironia e alla semplicità.

E, l’architetto, ama, e muove il suo pensiero sul filo dell’amore, filo con cui cuce progetti, che traduce in opere che raccontano il suo sentimento per il luogo, con l’aiuto di una manualità sorprendente; quasi che oltre ad essere quel progettista visionario che è, fosse anche la reincarnazione di un homo faber, un artigiano sapiente.

L’architetto ama perché conosce (e ri-conosce perché ama), e questo dàDSCN6073i colori dell'architettolezione d'amore e conoscenza frutti particolari. Ecco allora che la conoscenza profonda di Sant’Angelo in Colle – dove regnò Re Liutprando e dove ora sta il trono di Re Brunello -ha prodotto un’operina straordinaria, che prossimamente sarà presentata ai cittadini, e fatta conoscere anche (soprattutto!) agli architetti a cui parlerà del senso dell’architettura in un paesaggio potente e delicato come questo.

Cenerentole senza principe, ma con marito regolamentare

Stavo rileggendo qualcosa che avevo scritto mesi fa e nel testo, parlando di agricoltura, ritrovo la definizione “Cenerentola senza principe“. Il primo pensiero è stato che davvero l’agricoltura è “senza principe”; subito dopo però ho fatto caso all’espressione usata, che dà per scontata l’urgenza di un “principe” per poter essere degnamente Cenerentola.

Per quanto riguarda la fiaba di Perrault è vero, ma se dimentico la necessità avuta a suo tempo di sottolineare che l’agricoltura – così strategica nel nostro paese – manca dell’attenzione e di strategie consapevoli, da parte di chi prende le macro-decisioni, ho fatto subito mentalmente autocritica per la metafora usata; così datata, così superata già durante la mia infanzia. Una metafora che avrebbe lasciato perplessa mia madre – il cui mantra era “Silvana sii indipendente e ricordati di non farti mai mantenere da un uomo” – e che per il mio sesto compleanno mi aveva regalato un libro di fiabe, edito da Marzocco (Firenze), che sembravano scritte apposta per rompere tutti gli schemi dell’educazione al femminile.

Questa attenzione così specifica e se vogliamo sottile (la storia di Cenerentola ha anche alimentato altre suggestioni), mi è venuta leggendo ciò che ha scritto Ida Dominijanni (de il Manifesto), osservando la storia della deportazione di Alma Shalabayeva, che durante la drammatica vicenda è stata costantemente trattata (barbaramente) in quanto moglie, dando per scontato che il suo destino si giocasse di riflesso a quello di un marito; “in altre parole la signora Shalabayeva non appartiene a sé stessa, ma a scelta, al marito o allo stato kazaco“.

Ehi – ho pensato – in fondo quelli che “governano” l’Italia sono molto simili al pirla che l’altra sera ha assalito la nostra amica americana. E sono molto lontani dagli altri paesani – rannuvolati e intristiti dalla storiaccia che ci è capitata tra capo e collo – che aspettano il ritorno dell’amica americana a cui si vogliono presentare le indispensabili scuse!

Il Colore delle Parole

Campari e Calassole parole del campariessere brilli e vederci chiaroleggere per piacere Vivo nella terra del Brunello e quando voglio andare a Milano, bevo un Campari. Il pensiero arriva subito a destinazione, nella mia testa, e non è quello della “Milano da Bere”, che sarà stata effimera ma non era poi così sgradevole (almeno per chi beveva!), ma è quello delle parole – anzi della parola scritta: quella che fa l’uomo differente e meno piatto -; delle parole e dei libri; delle pagine in cui perdersi per poi ritrovarsi diversi, dell’editoria assaltata dal business, dalla finanza, dalla politica (e magari dalla ‘Ndrangheta); parole per dire il proprio dissenso (o la propria volontà), libri per incrementare pensieri e azioni. Editoria per alimentare il bisogno di conoscenza: ingrediente indispensabile per alimentare l’amore.

 

Speciale: Promozione Turistica

Vivere in un piccolo paese – visitato quotidianamente da decine di turisti in cerca di emozioni, di cose ‘vere’, di scoperte inedite, può sembrare – persino essere – un privilegio. Dipende da te, da come ti fai capire, ma anche da come gli altri ti capiscono: Dipende molto anche dagli altri: soprattutto se sono profondamente diversi da te, per appartenenza, scolarizzazione, abitudini, cultura, frequentazioni.

I miei (personalisssimi) incidenti di percorso, nel luogo ameno in cui provvisoriamente abito, non sono stati numerosi, ma abbastanza pesanti da suscitare – in una con il mio carattere – un senso di schifo e di ripulsa – anche se non ho avuto il pesante “privilegio” di subire assalti: solo avance pesanti, a mio modo di sentire imperdonabili, non fosse che il livello (morale e sociale) dei protagonisti delle “virili” performance era di poco superiore alla nullità. Ora l’età mi preserva da tali attenzioni, anche se me ne riserva altre, da parte di chi magari pensa che una donna vecchia coincida con un essere inerme e inoffensivo; e che costui continui a crederlo.

Essere donna, oggi, nell’Italia irrancidita dalle larghissime intese e dalle equivoche alleanze, è difficile. Perciò può essere ancora più difficile esserlo in campagna – luogo di solitudine, di bellezza e di pace, ma (ogni giorno si impara) anche di guardoni e di molestatori.

Non fa certo piacere scrivere queste parole che irriteranno coloro che hanno (e sentono di avere!) responsabilità istituzionali, ma vorrei sottolineare che non fa nemmeno comodo alla scrivente, dedicarsi a questa “promozione speciale”.

A me è successo – qui, dove vivo ora – di subire attenzioni speciali e sono stata zitta perché non mi pareva che valesse la pena di spiegare o di far capire – con mezzi legali o coercitivi – che una donna – ancorché sola – è una persona esattamente come ogni altro essere umano, con pari dignità. Per poi accorgermi che le controparti (se posso chiamarle così) la dignità manco sapevano che cosa fosse.

Ora invece mi colpisce la stupidità – anzi, direi l’assenza completa dal mondo reale – di un (chiamiamolo per così dire) un uomo che ha aggredito e molestato – con eloquente (se mai ve ne fosse bisogno) strizzata di tette – una donna, piuttosto bella, di mezza età, dall’aria un po’ esotica e certamente attraente. Chissà che che cosa pensava di combinarci; magari portarsela a letto? Non credo, ma non riesco neppure lontanamente a capire che cosa gli possa essere saltato in mente…

Quello che vorrei sottolineare – immagino che chi legge possa capire il mio schifato disgusto, ma vorrei andare sul pratico, che così magari qualcuno capisce meglio che queste cose non sono prive di conseguenze – quello che dunque vorrei sottolineare è la seguente cosa: la persona che ha subito questi inauditi palpeggiamenti è figlia di un grande editor musicale, conosce e parla con tutto il mondo dello star system, ha amicizie in tre continenti e ha scelto di venire a stare qui perché cercava un luogo bello, poetico, e tranquillo. Nella ricerca non erano e non sono incluse le strizzate di tette, né le avance; la persona di cui parlo è in grado di scegliersi amicizie e compagnie, da sola, senza che intervenga qualche velleitario nostrano che forse pensava costui al palpeggio come a una promozione turistica extra?!  

Poveri ma Brutti

Per il mio diciottesimo compleanno mio padre mi spedì da New York, Observations,  il libro del fotografo Avedon con i testi di Truman Capote, appena pubblicato da Simon&Schuster; se ci ripenso, non posso che provare un’onda affettuosa verso quel mio genitore sempre lontano per lavoro e anche così lontano da quel mondo (design, moda, grafica, fotografia), ma così capace di essere vicino ai miei desideri e attento ai miei interessi di ragazza, da riuscire a scegliere per me il libro che divenne la cifra di quegli anni – raffinatezza e toni alti, con una grafica asciutta e impeccabile – dopo il lungo dopoguerra buio.

Se si sfoglia Observations, si incontrano i ritratti dei personaggi che formavano il paesaggio internazionale di allora – si va da una Karen Blixen vecchissima a BB trasfigurata da una nuvola di capelli – e si incontra anche un bellissimo ritratto di Marella Agnelli, che a me – allora – ricordò un busto del Laurana, tanto emanava eleganza e compattezza. Pensando alla data in cui fu scattata la foto non si può non pensare che l’eleganza sublime che emana da quel ritratto contrasta fortissimamente con l’Italia di quel tempo.

Infatti Avedon, nello stesso libro, dedica alcune pagine anche a scatti italiani, che ritraggono passanti e bambini contemporanei alla galleria di ritratti di personaggi importanti che sono il tema principale: è come se il fotografo avesse voluto fare un parallelo tra due mondi: quello dell’intellighenzia, dei personaggi internazionali, di alcuni uomini politici, e un paesaggio umano che probabilmente l’aveva colpito e emozionato, nelle vie delle città italiane.

La grande povertà del nostro paese in quegli anni ci arriva senza veli, in tutta la sua acutezza, come un grido dei bambini che ricordo in una delle immagini. Ma assieme a essa, vorrei quasi dire “dentro”, si sente la bellezza, il senso della bellezza italiana – quasi un audio, una musica – che dà ai miseri vestiti indossati da quelli che compaiono nelle foto di quelle pagine italiane già uno stile, come se fossero quelli dei personaggi di un film. Non di un film, si tratta, ma si sente che dentro c’è una storia, una poetica un mondo intero.

Queste sensazioni, anche queste, mi hanno accompagnato per anni; sono certa che il profilo immaginario del pianeta Italia sia stato nutrito, dal dopoguerra fino a vent’anni fa, forse trenta, con il racconto di come eravamo, mentre insolveva – nello stesso immaginario – il report di come stavamo diventando: la quinta potenza, la sesta forse – non so -, mondiale, con una crescita e una diffusione del benessere (sempre un po’ a macchia di leopardo) tale da farci dimenticare le acute asimmetrie di tale crescita, i buchi, le ingiustizie, le smagliature, le irregolarità, le illegalità, e poi i furti e le ruberie, le appropriazioni, i contrabbandi, le furbate, le evasioni, che hanno dilapidato la fortuna del (ex) Belpaese, esportandola nei fortini internazionali dei (relativamente) pochi ladroni – spesso con cognomi di spicco – a svantaggio dei molti fessi che si sono lasciati rubare lavoro e dignità da una banda internazionalizzata.

Ma ci resta l’ancora Belpaese, di cui si stanno sgretolando parti, tra terremoti, diluvi e frane, da un lato, svendite e cessioni, dall’altro. Quello che bisogna impedire, a qualsiasi costo è l’ulteriore avvilimento di paesaggi, beni storici e culturali, prodotti agricoli tipici, idee e cultura. La maggior parte dei cittadini l’ha capito: noi che viviamo in campagna – in una campagna molto bella e rinomata – lo sappiamo e lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Non basta saperlo, però: bisogna parlarne; bisogna farlo sapere e capire a chi amministra e governa. Non vogliamo essere poveri e diventare anche brutti!

Il Futuro nell’Orto

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DSCN6019 E’ il luogo in cui facevo merenda, da bambina, con una chioccia che veniva a farmi visita, circondata dalla sua nidiata pigolante – pane burro e miele di lavanda -, una merenda ricca, un po’ datata, da figlia unica e nipote privilegiata da una sventolata di zii.

Questo è il mio ricordo infantile dell’orto, e quando mi ritrovo nel verde coltivato – alle vigne ormai ho fatto l’abitudine – il ricordo si confonde con un sentimento decisamente più attuale: la sensazione precisa che nel verde degli orti ci sia una gran vitalità; la sensazione che nel verde dell’orto ci sia la risposta a tutto ciò che conta.

Le obiezioni sono più che scontate, soprattutto leggendo e ascoltando le (non)notizie che assediano questa estate deforme. Entri nell’orto e guardi: puoi vedere quante declinazioni e coniugazioni di verde; puoi guardare e vedere le forme di infiniti frutti, obbedienti a un lavoro modernissimo. Non c’è niente lasciato al caso, nell’orto; tutte le azioni sono concatenate tra di loro e si susseguono nel seguire la stagione. L’orto è senza fine, è dialogo continuo; tu fai e la terra risponde. E’ il regno del verde, dei ricordi delle infanzie fortunate. E’ il luogo centrale di un futuro commestibile.

Ologrammi e simulacri

DSCN6001DSCN6010DSCN5998DSCN5997DSCN6006DSCN6008Lascio per qualche ora il verde della mia campagna preferita, le vigne, i boschi fronzuti e le olivete, per andare a godermi qualche ora di beata solitudo, al mare.

Sono le otto e trenta e ho camminato per un paio di chilometri, gradevolmente, sul bagnasciuga; ho lasciato un gruppuscolo di circa trenta persone alle mie spalle e di fronte a me – in opportuna lontananza – intravedo un paio di figure umane in acqua.

Penso di aver lasciato un’opportuna (e rispettosa) distanza tra me e gli altri vocati a un po’ di solitudine; il sole è caldo, il mare passabilmente limpido. Stendo il mio modesto telo, appendo la mia borsa, tiro fuori un moleskine e la fedele (si fa per dire: ne posseggo almeno una decina) “pilot” punta fine.

Faccio un bagno e mentre mi asciugo al sole, pensando agli incapaci insipienti uomini (e donne!) della politica, mi metto a disegnare; è un’attività che mi ristora profondamente e mi dà molte soddisfazioni (c’è pure chi mi dice che sono brava, perciò: doppia soddisfazione!).

Un’ombra entra nel mio campo visivo, mentre sto fermando sulla carta le irregolarità scabre e graficamente interessanti di un palo naufragato sulla battigia e infilzato a mo’ di totem nella rena calda e luminosa. E’ una donna – al di là di ogni correttezza lessicale pseudo-femminista, a posteriori mi sento di definirla una stupida -. Esordisce chiedendo “scusi, lei è qui?” (forse pensa che io sia un ologramma); “no” profferisco “sono un simulacro”. Borbotta qualcosa e rinuncia ad accamparsi a mezzo metro dalla mia testa (forse pensa che potrei puzzare?).

La donna e l’uomo – lui mi pare un po’ passivo – si accampano a soli due metri e mezzo dal mio piccolo regno solitario. Lasciando più di cento metri a destra e altrettanti a sinistra, totalmente deserti. Li fotografo, perché non credo ai miei occhi: lei brontola qualcosa, ma non mi assalgono, come temevo.

Me ne vado, pensando che davvero non siamo tutti fatti allo stesso modo.

 

Proviamo a guardare più in là

“Se si affronta un problema con il metodo razionale del pensiero si ottengono dei risultati logicamente corretti ma che, proprio per questo, sono già implicitamente compresi nell’esposizione del problema stesso. Quando si richiede invece una soluzione veramente diversa e innovativa si deve stravolgere il problema, partire dal punto più lontano possibile, ribaltare i dati, mescolare le ipotesi, negare certe sicurezze e addirittura affidarsi ad associazioni di idee del tutto casuali.”

La citazione viene da un libro di DeBono – autore (e docente) che ho conosciuto e frequentato, negli anni d’oro del lavoro illuminato dallo sguardo (davvero liberal) di un presidente straordinario – Mario Formenton – uno con l’occhio lungo, generoso e ‘cinico’ allo stesso tempo. Uno che mi permetto di definire cinico, proprio perché aveva capito un sacco di cose; tra queste, che la formazione – anche quella apparentemente meno immediata nel produrre frutti – era (è, sarebbe) un investimento. Perché dipendenti e collaboratori che capiscono – nei fatti concreti – che credi in loro, sono più legati emotivamente all’attività che svolgono, sono più interessati a risultati ottimali, perché in essi vedono anche un risultato della propria creatività e della propria personalità.

Questo è il lavoro. L’ho imparato prima da mio padre (che mi esortava a ‘metterci l’anima’, a qualsiasi attività mi dedicassi), un vero perfezionista. L’ho imparato poi in una serie di incontri – i primi fortunati, poi, sul filo delle esperienze, cercati tra i consulenti e i formatori giusti -.

Oggi quello che mi stupisce di più, nel posto in cui vivo, è proprio la mancanza di ricerca del meglio. Il posto è strepitoso, na da “posto” bisognerebbe farlo diventare “luogo”, tuttavia credo che quelli che ne condividono la differenza, davanti a una proposta del genere, penserebbero a qualcosa come “più elegante”, oppure “più moderno e attuale”, oppure “bisogna cercare di sfruttare meglio le nostre qualità”. Ancora moltissimi, nonostante il momento, penserebbero a un modo per incrementare il fatturato!

Invece c’è un’altra strada, ci sono altre vie, che cominciano dall’esistente – in natura o nelle nostre teste – e poi ci conducono a guardare più in là, cercando, attraverso associazioni mentali libere (e poi orientate), prospettive diverse. Attenzione: prospettive, sviluppi, non arzigogoli o superfetazioni all’esistente.

Ci sono maestri di pensiero che lavorano, e hanno lavorato, su queste capacità (che ognuno di noi – quasi tutti – possiede); essi sono capaci di allenare la nostra mente verso visioni “laterali” rispetto a quelle già scontate, che fanno parte dell’esperienza quotidiana. Funziona per le attività lavorative, ma aiuta ad affrontare la nostra esistenza imparando a trovare strumenti alternativi – ma anche più adeguati – a quelli consueti. Sarebbe importante usare questo modo di pensare, nei momenti di cambiamento (come quello in cui siamo immersi fino al collo); ma è molto difficile farlo da soli. Perché è come se noi abitassimo in una casa dotata di molte porte, ma fossimo così abituati ad usarne sempre – poniamo – un paio, tanto da non vedere quasi più le altre; quelle che ci consentirebbero l’ingresso diretto a qualche spazio che conosciamo poco o niente, anche se esso fa già parte del nostro appartamento.

E’ un attitudine, quella che sto citando, agli antipodi di un modo d’agire che si incontra troppo spesso, e che impedisce di manifestare la propria creatività.

Questo sarebbe il momento; questo sarebbe anche il posto giusto, per pensare al futuro; perché dove sono evidenti le risorse, i valori e le qualità intrinsecheil mare come lo vorremmoè anche più facile pensare a nuove vie. Nel momento in cui pochi non hanno ancora capito che cambiare il modello di sviluppo è oramai una questione di sopravvivenza (economica e umana), bisogna attrezzarsi per “un nuovo modo” e un “nuovo sguardo”. e il primo attrezzo di cui munirsi è proprio un (bel) po’ di pensiero laterale; qualcosa che è in noi, ma che pochi di noi riescono a utilizzare.

Il Fico magico del Ricci

DSCN5684DSCN5913DSCN5916DSCN5129è maggio, evidentemente

A che serve la vigna? Potrebbe essere una domanda retorica, con risposta servita al ristorante, magari a lume di candela, con tanto di fritto misto di verdure e pollo e il bicchiere in cui traluce il buon vino, e gli amici e il tramonto e tutto il resto. Giusto. Ma a me la vigna – questa del Ricci – racconta una storia ben più ricca di un “semplice” bicchiere di vino. Io la vigna la colgo alle spalle dii mattina, indifferente al clima e alla stagione, quando si sveglia. E insieme a lei ecco i profumi e i piccoli abitatori dell’erba e del bosco adiacente. E’ un’imboscata amica. Colta così, camminandole accanto e dentro, come a un essere che è un tutt’uno: un organismo unico; migliaia di pampini e di foglie e di nascenti grappoli e di tronchi, che sospirano all’unisono, stiracchiandosi, grondando e luccicando, scaldandosi al sole, sventolandosi nella tramontanella; mi dicono, manifestano umori, raccontano piacevoli (o qualche volta, drammatiche) storie del tempo: quello che scende dal cielo e quello che trascorre, di stagione in stagione.

C’è l’erba, tutt’altro che prona, guizzante sotto i miei passi, gli insetti al lavoro come operai alla catena di montaggio, ci sono le siepi di more, fiorite e intrecciate alle rose selvatiche. Ogni passo un profumo diverso che si intensifica, con l’inoltrarsi nell’estate. C’è il grande fico, abitato dalle poiane, che agita piano le foglie che somigliano a stracci sventolanti a spartiti girati velocemente. Il fico mi guarda passare, mentre le due poiane che lo abitano si alzano in volo per posarsi un po’ più in là, si china un po’ e scuote la chioma; posso immaginare le sue storie, racconti di campagna, appuntamenti, lavoro, l’eco della strada al di là della vigna su cui torreggia, richiami, suoni, echi di voci. Di ritorno in paese, profumo di caffè e di qualche pentola messa presto sul fuoco.

maggio 2012non solo ma anche!DSCN5918

Domenica alle Termopili

molon labeMi viene da dirlo così, all’amica che stasera al telefono mi ha chiesto se i capelli me li sono fatti tagliare molto corti, rispondo che “no, ma sembravo un leone e non mi piacevo, semmai vorrei essere Leonida,  e affrontare i persiani”; mi è uscita questa frase che in altri tempi sarebbe rimasta una battuta e invece – dall’altra parte del telefono – la voce della mia amica diventa seria, mentre commenta che davvero non si può pensare che uccidendo la madre dell’Europa, con tutto il suo portato di storia e di miti, in cui affondano le radici della nostra psiche e della nostra conoscenza, non vi saranno conseguenze.

E’ l’epilogo di una giornata iniziata quasi all’alba, al mare – dove le aguglie schizzavano fuori dall’acqua, lasciando lievi tracce in piccole onde che facevano l’acqua più scura, con arabeschi lievi, eleganti -. Sulla lunga spiaggia, rinfrescata da un vento che veniva da sud ed era fresco, quasi freddo, c’era poca gente (forse un terzo dei bagnanti dell’anno scorso) e ancora meno spensieratezza vacanziera.

Sono con un’amica (un’altra) che è stata, come me, una habitué di questa spiaggia per decine d’anni; il nostro punto di vista è consapevole, ma non abbiamo molta voglia di piangere su questo nostro paese dove pare che politica e intrallazzi siano diventati sinonimi. Le racconto che sto scrivendo “un pensiero” per un imprenditore che mi sembra interessato a certe idee che gli ho accennato. Le racconto di un amico americano che ha avuto esperienze analoghe alla nostra, ma in un contesto elettorale del suo paese; ci vengono in mente episodi della nostra vita di lavoro, chiacchieriamo di libri e ridiamo, persino.

Sembra di parlare di un altro mondo; io le racconto che ho appena terminato l’ultimo libro di Markaris, ambientato come sempre, ad Atene, in una Grecia sfinita dalle privazioni. E’ pensando a Markaris e alle sue analisi sempre lucide messe in bocca ad alcuni personaggi nei dialoghi  acutamente disegnati, che mi tornano in testa la Grecia e l’eroico Leonida, la sua risposta irridente a Serse che gli chiede di arrendersi e deporre le armi – “Molòn Lavé” (venite a prenderle), risponderà il greco -.

Quella risposta mi piace molto: è il contrario della rassegnazione al peggio, allo scivolo narcotizzante, alle recriminazioni sulla politica e i suoi uomini incapaci. E’ uno spirito che mi sembra anche di avvertire qua e là, nella corrispondenza con gli amici, e che va facendo breccia nell’opacità del pessimismo generale. Forse bisogna essere vecchi, per ricordarsi del dovere della dignità? E fa niente se la battaglia delle Termopili è costata la vita a Leonida. Perché è dal 480 a.C. che lui ci insegna, con una battuta, a non piangerci addosso.