Geco

“Gli esemplari adulti possono misurare fino a 15 cm di lunghezza, coda compresa. Su tutto il corpo sono presenti dei tubercoli conici prominenti. Ha una bocca simile ad un angolo ottuso, occhi privi di palpebre e pupilla verticale. Ha delle barrette con dei grandi sviluppi laterali e nella parte inferiore della faccia delle lamine aderenti divise una dall’altra. Soltanto la terza barretta rimane unita. Di colorazione è grigio oppure marrone brunastro con punti scuri o luminosi. Questi colori cambiano d’ intensità a seconda della luce. Quando sono attivi di giorno il loro colore è più scuro rispetto a quando sono attivi di notte. Gli esemplari adulti possono misurare fino a 15 cm di lunghezza, coda compresa.”

Sono arrivati in paese, anche se qualcuno mi dice che c’erano sempre stati. Qualcuno – mi dice un paesano – li ammazza: io rabbrividisco per animalismo, ma anche per superstizione. I gechi sono un emblema del mediterraneo, si nutrono di tutti gli insetti molesti, in modo naturale, sono animalini benefici, tuttavia c’è chi li teme, o prova ribrezzo. (Io riservo il mio ribrezzo a chi sopraffà gli inermi, o a chi pensa ad altri esseri come a ‘qualcosa’ di cui si possa disporre a proprio piacimento.).

Dovevano piacere parecchio all’artigiano che ha decorato una parte dell’Istituto Suor Orsola Benincasa, a Napoli, dove miriadi di gechi s’inseguono, formando uno zoccolo che corre verso uno degli ingressi; una cavalcata suggestiva che accompagna il visitatore. Forse sapeva che al geco si attribuiscono poteri apotropaici, forse se ne era accorto, forse l’idea di decorare con gechi che si inseguono, formando un’affascinante decorazione, gli era valsa il lavoro. Chissà … A me piacciono comunque, sanno d’estate e sono legati a ricordi di mare e salsedine; so che sono utilissimi e credo che portino fortuna (se non altro perché ti liberano dai pizzichi di zanzara).

Piacciono pure alla mia nipotina che sgrana gli occhi estasiata e chiede il permesso di toccare il nostro geco privato che ha adocchiato in basso sulla parete bianca. Le raccomando di fare piano, con un solo dito e non schiacciare: esegue e si entusiasma. La consistenza del corpicino, il gioco delle ventose delle zampe, che si allargano sul muro per acquisire una migliore presa, l’incurvarsi decorativo della coda, le fanno sgranare gli occhi e chiede ancora; ci riprova e la esorto a fare pianissimo, a non turbare la siesta di questa bestiola. Resta in ammirazione, è muta dalla meraviglia, poi lo chiama, piano. Per lei ora il geco è il re del paese, la corona è la campagna tutt’intorno che ha scoperto da una via che sbuca verso l’Amiata (“ooh bello!”, mi sussurra sottovoce) e l’inno è suonato dalle campane che battono sonoramente le ore sulla piazza deserta.

Provisional, temporary, fleeting

L’urgenza mi è venuta risvegliandomi, sotto un foglio leggero, fragrante dei noti odori di stampa, che sono cambiati nel tempo.  La sensazione di provvisorietà – simultanea a quella di impellente necessità di permanere (per cosa, per chi, non si sa bene) – è stata così acuta, che per riavermi e capire dov’ero (chi ero, per fortuna, continuavo a saperlo), che ora era, e perché provavo quel senso di smarrimento nello spazio e nel tempo, ho dovuto abbarbicarmi alla lettura di un paio di articoli del noto quotidiano sotto le cui pagine mi ero arresa al sonno.

Tornavano in fila, prima il pallido volto di Dell’Utri fotografato in aereo, nel viaggio di ritorno dal Libano, poi DeRita e il titolo del suo libro che voglio leggere, subito dopo, da un altro quotidiano, il titolo “un bulletto a Palazzo Chigi” con le illazioni plausibili su prossime gesta del governo; quindi le nuove tendenze fusion di una creatrice di moda italo-haitiana, poi ancora il libro di Arbasino (che vorrei leggere, ma per ragioni molto diverse da quelle per cui voglio leggere quello di DeRita); intanto mi sfuggiva il titolo (ma anche l’argomento) di un piccolo (solo questo ricordavo) terzo libro che mi voglio procurare, ma insolvevano mostrine e divise degli alti ufficiali della GdF. Pensieri guizzanti che si intrecciavano, appena prima di sparire per sempre, in una breve nuvola di polvere – poof! – : eppure avrei dovuto acchiappare almeno le frange di un cambiamento (che c’entra!: il cambiamento è continuo!) che riuscivo a vedere, fotografare e – se fossi riuscita ad aprire bocca in tempo – a sintetizzare con poche parole in cui inserire un pensiero di speranza.

Sulle parole che ogni tanto mi sfuggono (mentre la necessità di usarle con precisione mi incalza) avevo semi-perso una battaglia poche ore prima. Mentre sedevo a tavola con l’altra nonna della mia più recente nipote, parlavo della California e della luce speciale che la illumina, dandole quell’aria biondo miele che nella mia immaginazione bagna un po’ anche tutto ciò che da lì proviene. Ma le stavo già raccontando (c’eravamo appena conosciute) anche il mio timore del terremoto; poi nel tentativo di smussare un po’ la rozzezza che mi pareva di mostrare (a una che abita a San Francisco vai a dire che quando sei stata in California avevi paura del terremoto!) avevo raccontato anche le mie paure dei vulcani, durante una vacanza a Pantelleria, soggiungendo poi che bisognerebbe accettare il fatto che siamo … e lì mi ero inceppata. L’aggettivo inglese non mi veniva, ma nemmeno riuscivo a formulare nella mia testa l’espressione italiana, che mi si era invece perfettamente materializzata in questo risveglio, un ritorno che mi sembrava piuttosto l’anticamera di uno svanir per sempre …

Mentre cercavo l’aggettivo, annaspando più del solito perché mi mancava anche il corrispettivo in italiano, una specie di molla dentata fatta di luce aveva cominciato a ruotare e vibrare tra me e quello che raccoglievo con la forchetta, nel piatto. Ho uno scotoma, in questo momento – e non sapendo dove piazzare correttamente l’accento, in inglese, ho ripetuto la parola variandolo -; l’ho detto ad alta voce immaginando che fosse ben più complicato comunicare questo disturbo così particolare da descrivere, rispetto all’aggettivo che mi mancava per affermare un sentimento che mi pareva significativo per la nostra conversazione … ah, io invece sono colta spesso da una terribile emicrania oculare, mi ha risposto con naturalezza, e ho capito che aveva capito che cosa mi affliggeva in quel momento. E’ stato allora che John, intuendo quello che mi sforzavo di dire, ha detto che may be ‘provisional’? No, e comunque anche se gli somiglia non è un sinonimo, in questo caso; allora ‘temporary’ – ritenta John, mentre a me scappa da ridere malgrado lo scintillio ossessivo dello scotoma – no, non proprio, noi non siamo ‘temporary’, non è questo, ma io continuo a pensare a quale diavolo sia l’aggettivo italiano che definisce così bene il sentimento che mi sembra importante chiarire alla mia consuocera, che ha un’aria mite e distesa (nonostante il jet lag) e nel frattempo mi porge l’insalata.

Ho la sensazione che sia successo un black out, qualcosa che sta mettendo fine alla mia capacità di pensare, non provo le consuete sensazioni che caratterizzano il sabato, mi sembra di boccheggiare, balbetto, mentre lo scotoma svanisce com’è venuto, ma l’aggettivo continua a mancarmi.

Decidiamo che mi telefoneranno più tardi, per combinare un appuntamento, vado a casa e mi metto a leggere semisdraiata, lasciando libera la mente di spegnere il giorno;  mi addormento così profondamente da svegliarmi senza capire dove sono e che ore sono: provo un senso di ‘provvisorietà’ così acuto, da farmi temere per la mia salute. Poi mi viene da sorridere ritrovando l’aggettivo: provvisorio, siamo provvisori!, eccolo lì in tutta la sua semplicità.

Il telefono suona e mi avvisano che qui vicino piove in modo violento; raspano alla porta è la micia di mia figlia che è venuta a cercarmi: sembra impaziente di rientrare, contrariamente alle scorse sere, quando ha scelto di starsene a vagabondare sui tetti del paese. Esco e mi accorgo del cielo, nero come raramente mi è accaduto di vedere. Sento scariche di energia attraversare l’aria e penso a noi e alla nostra vacillante permanenza.

Crìa cuervos

DSCN9946Si rinnova ogni giorno il piacere di bere l’aria del primo mattino, con una camminata che mi fa ritrovare una me stessa più energetica. Poi c’è la piccola sorpresa quotidiana delle erbe che raccontano la stagione in corso e smentiscono (?) gli allarmi sul cambiamento climatico. Che il mondo vegetale sia più forte della meteo e riesca a tener botta a sbalzi e picchi che finalmente hanno cominciato a spaventarci? Ma no, non credo; forse i mutamenti (e le mutazioni) emergeranno osservando molte stagioni e chissà che sorprese ci potranno riservare.

Pensieri inevitabili nel silenzio del mattino, spiando la vigna inclusa nella camminata; una vigna animata, dove ho incontrato conigli abbandonati che hanno vissuto qui una stagione di inebriante libertà, stroncata dall’istinto della volpe che avevo avuto modo di osservare mentre li spiava dal bosco e che infine se li è divorati; vigna abitata anche da colombi che vi vengono a pascolare, forse a cavare lombrichi? Ma dove anni fa ho anche incontrato una famiglia di caprioli ingordi che ha falcidiato le buttate più tenere.

Ultimamente la vigna, dove arrivo da un percorso un po’ diverso da quello solito, è lo scenario di uno strano incontro con una piccola colonia di cornacchie che mi puntano, appena mi avvicino, e mi volano basse sulla testa, gracchiando in modo insistente, inviandomi un messaggio che stento a capire. Dopo la prima mattina – con una sola cornacchia che si teneva quasi immobile a pochi metri d’altezza, gli uccelli volteggianti sono diventati tre. Io sono tornata, ma con un bastone – mi è un po’ dispiaciuto! – a scanso di equivoci.

Avevo incominciato a pensare a Hitchcock e poi a racconti dell’orrore, in cui gli uccelli aggrediscono gli uomini (figurarsi le donne!, a meno che le cornacchie siano femministe). Munita di bastone (che non ostento, ma so che loro l’hanno visto) mi sento più sicura.

“Crìa cuervos y te sacaràn los Ojos”, mi veniva in mente il proverbio spagnolo, il bel film di Carlos Saura, e alcune riflessioni sulla riconoscenza e l’ingratitudine, così ben sintetizzate dal modo di dire spagnolo (“alleva corvi: ti caveranno gli occhi”). Tutto accade di prima mattina, in questo giugno così terso.

I Libri, dove succede di tutto

Ne farei volentieri una canzone – invece di “the man I love” “the books I love” – perché si tratta dell’amore più duraturo, benefico, quasi materno nel senso che è un amore che ti nutre, ma che può anche consolarti dalle spine della vita; qualcosa che ti resta dentro e che nessuno ti potrà mai togliere, nemmeno tutti i Goliath in cui s’inciampa cammin facendo.

Non ho smesso di amare la lettura nemmeno andando a lavorare in casa editrice e finendo quindi per conoscere molti autori (e chi ha lavorato con loro sa quanto siano insopportabili). Anzi, con alcuni si è stabilito pure un rapporto (quasi) d’amicizia, da parte mia per un senso di gratitudine – vedi sopra i benefici di una buona lettura -, da parte loro per pura venalità – il mio lavoro e quello di chi lavorava con me significava più copie vendute, più recensioni, più pubblicità -.

In campagna, non si può vivere senza un buon libro sottomano; cioè si può sopravvivere, soprattutto lavorando, ma si perde quel misterioso cortocircuito che avviene tra la vicinanza agli aspetti ‘primitivi’ (la terra e gli alberi) e la parola scritta che porta a galla le emozioni e allo stesso tempo ti aiuta a capirle. Chi non ha provato perde un pezzo di vita, anche se beve vini sublimi e mangia a quattro palmenti (per tacer dei rimanenti spassi).

Sbaglia di grosso chi magari pensa che siano pensieri di una vecchia snob; col mio snobismo la goduria della lettura c’entra ben poco. Ho cominciato presto ad amare le parole scritte sulle pagine di “12 fiabe di 12 maghi”, un libro che mi è stato regalato da mia madre a sei anni e che rileggo tutt’ora sempre con piacere e ogni volta trovando aspetti e senso inediti. In un libro può succedere quasi di specchiarsi e di trovare la spiegazione a scelte, tic e modi di sentire che proviamo ma di cui non capiamo il perché. Capita di riconoscere situazioni, scoprire analogie e di riconoscersi, senza sconti, ma anche con notevoli vantaggi nei confronti della vita senza libri. Una vita piatta, alla ricerca di pienezza.

Penso che l’Italia sia abitata da un popolo un po’ bue (ma con sentimenti assolutamente amichevoli nei confronti dei buoi), perché troppi non provano a leggere o non provano nel leggere quel piacere rotondo che ti riempie la vita. Anche bere un buon bicchiere di vino da lettori di libri è ben diverso che bere lo stesso bicchiere da ignari della parola scritta.

Penso che non si possa fare un vino straordinario senza leggere libri meravigliosi; ti allenano a capire le emozioni della vita e i misteriosi piaceri della campagna!

Brunello è meglio

E’ come al cinema, quando vedi una dissolvenza lenta di un’inquadratura con un’altra immagine che affiora al suo posto (dissolvenza incrociata). Così, e neppure molto lentamente, sta cambiando il vissuto della campagna, della vita e del lavoro in campagna e sulla terra; un cambiamento che non è affatto un ritorno alle origini, come parrebbe a una lettura superficiale di quello che – libri, film, saggistica, premi e canzoni – la cultura e l’informazione ci stanno proponendo.

Una mattina di chissà quanti anni fa, vicino a piazza del Campo, mi incontro con Emilio Giannelli che aveva pubblicato un libro delle sue già famose vignette da Mondadori; son trascorsi così tanti anni che fatico a ricordare se l’incontro era pianificato (credo di sì) oppure casuale. Sta di fatto che Giannelli era un autore della Casa Editrice e il mio lavoro prevedeva anche la cura della comunicazione in occasione dell’uscita dei libri … Perciò mi ero ritrovata il libro di Giannelli, alla fine del giro delle dediche, con il disegno di una matita che invece era una bottiglia di Brunello e la scritta “Brunello è meglio!” quale dedica personalizzata. Ma io del Brunello sapevo – a quel tempo – poco o niente; ero solo la felice proprietaria di un bel casale nel comune di Montalcino, anzi era il casale che si stava impadronendo della mia vita e mi tiranneggiava non poco.

In altre parole, nonostante da sempre io amassi la campagna, come luogo dello spirito, da vivere e soprattutto immaginare, non pensavo affatto di andarci a stare; mi piaceva andare, stupirmi, riempirmi gli occhi e la testa (di virgiliane riflessioni) e tornare alle snervanti incombenze (ma così appassionanti) e alle responsabilità che l’Editore mi aveva affidato. Tuttavia, misteriosamente, la pausa che mi concedevo così raramente nutriva la mia vita, la allargava e l’approfondiva, facendomi intravedere significati che anni prima mi erano sfuggiti. Per esempio, ho riletto sul filo di quei vissuti la storia della mia nonna materna – nata in una famiglia borghese e finita proprietaria di un piccolo appezzamento di terra, dove, dopo essere rimasta vedova, aveva cresciuto uno stuolo di figli, allevato animali, coltivato frutti e ortaggi, resistito all’occupazione tedesca – nel sud della Francia -. Sì, insomma dalla terra veniamo tutti quanti e se riusciamo a distaccarci dal riflesso automatico che nella mente della maggior parte di noi la lega all’idea di lavoro troppo faticoso e (fino a pochi anni fa) socialmente emarginante, essa ci può far sentire emozioni oltremodo liberatorie, soprattutto in questi tempi di prevalenza della finanza in un mondo visibilmente più angusto.

Fu sul filo di questo intimo sentire che quando, alcuni anni dopo, mi trovai nell’occasione di acquistare un pezzo di terra in questa campagna, con una buona dose di incoscienza e senza alcuna esitazione, mi ci buttai a corpo morto. Su quella terra ci pascolavano alcune greggi di pecore che ‘rotolavano’ giù per la collina accompagnate dal lavoro frenetico di tre o quattro pastori maremmani e mi sembrava che nulla sarebbe mai cambiato, dal punto di vista scenico.

Ma non voglio tanto raccontare una storia di famiglia (verranno, pochi anni dopo, le mie figlie a costruire lì sopra un pezzo della loro vita), quanto constatare che nei vent’anni che sono trascorsi da quel tempo e da quei vissuti è avvenuto il cambio di fotografia a cui faccio cenno all’inizio del post. Mentre io guardavo la terra con occhio bucolico e la mente piena delle ricerche psicografiche che fotografavano i cambiamenti socioculturali, i vini docg iniziavano una nuova tappa del loro viaggio sui mercati del mondo e nella mente dei loro futuri pubblici di riferimento. Uno in particolare – come aveva scritto Giannelli: “Brunello è meglio!” – sarebbe diventato la bandiera enologica del made in Italy …

Non voglio nemmeno parlare di quel mercato e di quei vini, ma della spinta che essi, con il loro successo, hanno dato a un nuovo sguardo sulla terra (magari inizialmente solo sulla vigna) e sulla vita in campagna. Perché all’inizio ci fu il vino, forse non da solo perché per quelli di città anche gli olivi contavano (si stava scoprendo l’olio extravergine!).

Ma se avete avuto la pazienza di leggere queste righe, ora vorrei concludere facendo un’ultima osservazione. Fare vino, soprattutto un vino famoso – legato più che a un concetto di eleganza all’idea di essere un bene di lusso (purtroppo!)  – ha attratto verso la campagna, e bene o male verso un certo “stile country” nostrano, moltissima gente e soprattutto un bel po’ di soldi. Chi è milanese come chi scrive sa bene quanto “la vigna in Toscana” (ma anche in Piemonte) sia simbolo di stato nel mitico quadrilatero del design e della moda … Ma chi gira nel mondo del vino si sarà anche accorto del profondo mutamento che da alcuni anni ne sta ri-segmentando le preferenze e i consumi; un po’ sbrigativamente si può dire che se una volta (vent’anni fa) parlare di vino bio faceva storcere il naso (e di vini naturali non si parlava per niente), ora si guarda sempre di più al vino come a un (passatemi l’espressione) dono di un terroir, a qualcosa che deve essere figlio di quella vigna e di chi l’ha creata.

Attenzione; non sto parlando di vino in senso enologico, sto facendo delle associazioni con dei vissuti che non ho spazio, in questo contesto, di ampliare e approfondire; ma quello che vorrei sottolineare è il nuovo concetto di campagna, di vita in campagna, di lavoro sulla terra – ora non più obbligatoriamente la vigna – che si sta facendo strada nelle fasce e nei cluster più ‘meditativi’ e critici della nostra società (ma che non è ancora così acquisito dal mondo del vino).

Me ne sono trovata una fotografia puntuale proprio oggi sul Corsera, con il pretesto di una recensione al film (che non ho ancora visto) di Alice Rohrwacher, con il racconto di alcune esperienze di vita quotidiana e lavoro in campagna con “la fatica della terra che convive con la chiavetta Usb per collegarsi al web”. E non è più la testimonianza un po’ modaiola di un nuovo “stile di vita”, bensì il reportage di scelte più sentite nel profondo, meno estetizzanti e più faticose nella pratica, per andare verso qualcosa che si sente come più vero, qualcosa che lascia più spazio ai lati affettivi che le generazioni appena precedenti hanno scansato, in favore di un benessere che ha un po’ irrigidito la loro anima  …

Anche se dietro l’angolo c’è come sempre l’affarismo aggressivo e senza regole – si parla ancora poco di land grabbing, ma è un fenomeno che ha già sconvolto popolazioni dell’Africa – oggi molti giovani e anche molte persone di mezza età che non hanno liquidato il pezzetto di terra dei nonni, lo stanno ritrovando e rivalutando come un luogo di vita e una nuova dimensione da cui provare a vivere con meno. Non so se sia una “decrescita”, o se invece non si tratti di un vero e proprio sguardo nuovo, ma è il vino l’artefice di questa apertura, il nuovo e diverso mercato del vino che con il vecchio (ma recente) modo di viverlo ha ben poco da spartire. “Si beve con la mente” ha constatato e scritto Angelo Gaja. Di certo si beve molto meno ed è un’opportunità per guardare al vino in modo nuovo, e per guardare alla campagna come un luogo per pensare (e immaginare che cosa significherà – per le nostre vite – questo nuovo sguardo sulla terra).