Pensiero

Quando vivi in campagna la morte arriva come una staffilata, a ricordarti che non camminerai per sempre tra i filari delle vigne, sul ciglio del bosco, osservando le stagioni che ti raccontano il tempo che passa. E tu sei lì.

Allora ti accorgi che l’impermanenza non è una canzone new age, ma l’incontrovertibile appuntamento con l’ignoto, nonostante le vigne, le foglie che brillano dorate, il giro del sole che disegna astrazioni capaci di sorprendere anche i più consumati dall’uso e dalle visioni.

L’affluenza della gente ti aiuta a stare in piedi, facendo parte di un unicum in cui ognuno è staffetta di un futuro in cui solo le stagioni (pur barcollanti, sostiene qualcuno) permangono. Gli umani si passano il testimone.

Ma un funerale in campagna, in mezzo a una comunità che mette in pausa le rogne – grandi o piccole – del quotidiano, per toccarsi lievemente e sinceramente: un gomito, una spalla, e dirsi che siamo qui per ora e garantiamo il rimpianto, perché uno o una di noi si allontana (e non è mai per sempre, perché il mosaico dei ricordi lo ricompone); ma noi che rimaniamo, nel guardare lo splendore inaudito delle colline in tutti i loro dettagli, ci siamo anche per chi se n’è andato.

Pensavo guidando verso la piazza, la chiesa, la gente, com’è più naturale morire, andare, lasciare, partire, dissolvere, finire. Vicino alla terra che uno conosce sasso per sasso, in questo autunno così luminoso e sfibrante. Così scolpito dalla luce che si fa fatica a pensare di lasciarlo. Eppure è così.

Se Giuseppe mi racconta il futuro

Mi fa piacere pensarlo, caro Giuseppe, che in una sera estiva la tua voce mi abbia annunciato un futuro più rassicurante (e affettuoso), senza soluzione di continuità, rispetto a quello immaginato per noi che ora siamo i vecchi, da quelli che erano vecchi quando io ero come te. E già il solo pensarlo mi fa stare meglio al mondo.

Non che io stia male, caro Giuseppe, io sto bene e ho alle mie spalle un sacco di giorni pieni di belle cose, di persone che mi hanno dato molto (che sono molte di più di quelle che hanno arraffato, o cercato di farlo), una vita di scoperte quotidiane, di grandi cieli e forti temporali. Ma la tua voce – quasi sommessa: voce di bimbo che cresce e ogni giorno deve scegliere – ha interrotto quello che anche il garzone del fornaio ormai chiamerebbe “un trend epocale” (se il fornaio avesse ancora un garzone), e non voglio usare un’altra parola, perché questa è la parola giusta collocata nei tempi giusti.

Ci ho pensato spesso da quando ho risposto alla tua prima domanda, quando hai notato che stavo con la testa china, in auto, al buio, da sola e probabilmente così immobile da colpire l’attenzione premurosa di un bambino attento. “Tutto bene?”: mi hai quasi fatto fare un salto quando la voce e poi i tuoi occhi vigili a indagare – con prudenza e magari temendo il peggio – mi hanno distolto dalla cosiddetta navigazione (si dice così, ma credo che tu lo sappia) su FaceBook a cui ero così intenta da sembrarti forse morta, certo messa male.

Eh sì perché il “trend”, cioè la tendenza, cioè quello che viene quotidianamente testimoniato dai più, è un insieme di comportamenti e di pensieri che da molto tempo a questa parte esclude uno sguardo per gli altri, se non per ragioni ‘politiche’ o comunque spendibili e ben visibili, cioè finalizzate a uno scopo.

Caro Giuseppe, quello con te è stato un incontro pieno di sorprese. Non so se hai una nonna; non ricordo di averti chiesto se hai fratelli. Forse ti ho chiesto della tua famiglia, perché per tutta la nostra chiacchierata non ho smesso di essere incantata dalla tua semplicità e dalla fedeltà al tuo pensiero, così sei tornato  a chiedere “Si sente bene?”, dopo aver constatato che ero sì viva, ma non si sa mai, meglio essere certi.

Ora mi piacerebbe continuare a fare due chiacchiere con te; parlare del fiato corto quando pedali in salita, dell’attenzione che bisogna avere quando si va in bici per strada, e magari anche di futuro. Quel futuro che mi appare in assoluta controtendenza rispetto alle profezie del quotidiano, quando penso al tuo sguardo preoccupato per la mia sera.

Una notizia buona (e una così così)

La notizia buona è che “non è diserbo” quello che a me era parso tale … scusate, voi quattro gatti (o cinque) che mi leggete vi sarete magari persi (“ma questa di che sta parlando?”). Ma una notizia buona va data subito, prima che si raffreddi, anche se è giunta mezzanotte. Sì perché la notizia buona è arrivata per telefono poco fa e siamo talmente assaliti da quelle pessime, dalla depressione, dall’idea che tutto in questo momento vada per il peggio (in effetti, però, non pare ci sia tanto da stare allegri …), che quando ti assicurano che una cosa che ti sembrava orrenda non è così, non solo, ma fa anche inorridire molti altri, non puoi che esserne lieta e affrettarti a farlo sapere ai quattro gatti (o cinque) che leggono i tuoi post senili.

Dunque ripeto, tanto per essere chiara e farlo sapere a tutti: sull’amato pratino dello Scalo, popolato di pratoline, pratino molto grazioso di cui ho scritto alcuni giorni fa, in un giorno di pioggia, nessuno ha sversato del diserbo (né chi lo accudisce, né altri di nascosto) e le chiazze che ci hanno allarmato (non ero la sola) dipendono da un fisiologico ricambio dell’erba: la vecchia muore – mi hanno spiegato, mi illudo senza allusioni – e talvolta lascia dei resti giallastri. La seconda parte della notizia buona è che chi me l’ha comunicato mi ha fatto sapere di odiare il diserbo e disprezzare tale pratica … e mi ha convinta.

Poi – ehm ehm – ci sarebbe quella che ho annunciato come la notizia così così, perché non saprei come catalogarla altrimenti, cercando di non farmi altri nemici (che non sempre si limitano a portarti onore), ed è la seguente: nessuno, davvero nessuno, ha smentito la presenza dell’F35 – nel meraviglioso pratino delle pratoline in cui ho temuto che avessero sversato la robaccia -, che ho chiaramente citato nello stesso post.DSCN9181. Il che vuol dire delle due cose l’una: o l’F35 non è stato rimosso, o a nessuno interessa che stia lì!

Coccodrillo per Slobo

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L’hanno trovato a Capodanno, rannicchiato su se stesso, in un angolo allo Scalo; quando l’ho saputo non mi sono sorpresa più di tanto; ci sono persone che si sottraggono al tuo sguardo – spariscono, oppure sei tu che non le vedi più – ed è la premessa a un’assenza definitiva. Solo che Slobo non è proprio una persona (ma anche questo non è un vero coccodrillo). Perciò non vi racconterò quanto fosse bello e buono, questo cane un po’ rompino: niente lacrime per Slobo che ha vissuto una vita piena e complessa. Però posso dirvi che è riuscito a chiudere nel suo sguardo un mondo intero; sia chiaro, un  mondo piccolo, ma ben variegato, pieno di difetti e ricco di nevrosi, e molto cosmopolita. La sua lunga vecchiaia è stata un po’ la parafrasi di un invecchiare umano … parafrasi e non  metafora (come poteva essere). La vecchiaia lui ce l’ha resa colloquiale, l’ha sciorinata anche negli aspetti più laidi (l’ho visto strusciare il culo in terra o contro un tronco: si vede che il prurito era piuttosto insopportabile); non si è lasciato prendere da dubbi sull’estetica dell’invecchiamento; era diventato sordo, ci vedeva poco, la salute vacillava un po’, ma era rimasto vispo e scodinzolante. Fedele – come è obbligatorio che sia un cane – al suo padrone, ma cordiale con tutti, come non è detto che un cane sia, nemmeno un cane da osteria. Anzi un cane di paese di solito è un po’ scorbutico …

Ho subito pensato, quando Maria mi ha detto (mi ha fermato per dirmelo) che Slobo “non c’è più”, che con tutta la cagnara che faceva dietro alle auto, ai trattori, ai furgoni dei corrieri, agli autotreni – inseguiti tutti e sempre forsennatamente -, è riuscito a non farsi travolgere mai dalle ruote di un mezzo – . Ed è riuscito a non farsi menare da nessuno di quelli che, allo Scalo, lo detestavano, brontolando solo a mezza bocca.

E’ riuscito ad andarsene nel modo ideale: in un progressivo venir meno dei desideri (forse anche meno fidanzate), senza che irrompessero fastidiosamente i bisogni dell’età, e senza diventare ‘qualcosa’ che pesa, ingombra e suscita sensi di colpa. E persino a morire senza obbligare qualcuno ad assistere alla dipartita, magari soffrendo; e a evitare le fatiche di un nuovo anno da passare spiegando a noi umani la fatica di invecchiare.

A Scuola da due Panzanelle

Mentre il solco tra l’immaginario del turista  e ciò che ci si attende da lui rischia di diventare ogni giorno più profondo, può succedere – anche di questi tempi – di incappare in piccoli miracoli, che ti riportano al tuo, di immaginario, e ai giorni giovani dei primi viaggi in Toscana, così fertili di sorprendenti meraviglie.

Prima meraviglia fra tutte, a quei tempi, la semplicità. Qualcosa che oggi mi pare un po’ dimenticato, che era invece l’ingrediente principale dei viaggi primigeni, emergendo persino dalle fotografie che riportavano a casa (magari Milano), l’idea che lì in Toscana la vita fosse  più serena e più ‘vera’, più gentile e più esteticamente accettabile; altrimenti perché farsi tutte quelle centinaia di chilometri in auto?

Io credo che, se chi amministra, chi produce, chi vende, chi ospita viaggiatori e turisti (insomma chi tratta il marchio “Toscana”) e anche chi fa i famosi vini, non si libera dal folklore (pieno di panzane) per recuperare lo stile d’antan – che altro non era se non il frutto di una vita più semplice ma assai armoniosa e un uso virtuoso e colto delle risorse disponibili –, l’economia fiorita sull’idea della Toscana Felix, si scontrerà con la disillusione che ogni tanto ho sentito nei commenti degli ospiti di questa terra; e non ci sarà campagna pubblicitaria che tenga, né promozioni più o meno articolate a far barriera. La disillusione chiede pedaggi assai alti e complicati da scontare.

Ma tornando alle sorprendenti meraviglie di cui sopra e alla speranza che esse mi suscitano (ma gli altri sono ciechi?), eccole qua. In sé non avrebbero niente di eclatante; si tratta di panzanelle, per la precisione due: una mangiata allo Scalo, all’Osteria di Pino e Daniela, l’altra al Colle, al Leccio di Gianfranco (e l’autore è il figlio Luca).

Per i non esperti dei luoghi, Scalo e Colle sono le due declinazioni di Sant’Angelo – frazione di Montalcino –, praticamente un ossimoro, come usa dire, ma in questo caso lo è davvero, perché è difficile trovare due luoghi più diversi – l’uno dall’altro – di questi.

Non vi darò la ricetta delle due panzanelle, anch’esse molto differenti, ma ne cito solo l’ingrediente principale: “il dono di raccontare”. Invece voglio parlare dei due locali e dei loro clienti e di come può accadere che da due visioni diametralmente opposte, si possa arrivare alla stessa clientela – non identica, si badi – qualche volta (ma non sempre) con diversa capacità di spesa, ma sempre con la stessa identica idea nella testa: regalarsi un’esperienza.

Mi è accaduto di pranzare ieri allo Scalo, con una frugale panzanella, tra l’editor di Chomsky, autisti di corrieri, impiegati, due giovani produttori di Brunello, alcuni operai della provincia, due importatori anglosassoni. C’era anche  un gruppo di cinesi di Hong Kong – giunti in processione, sotto un sole implacabile, protetti da variopinti ombrelli parasole – che hanno assaggiato ogni pietanza (tutte diverse una dall’altra) commentandole vivacemente.

Poi ho cenato ieri sera al Colle, tra i titolari di due grandi produttori di Brunello, l’ordinario di storia del cinema (UNIGE) e la moglie originaria di Montalcino, una tavolata di americani che annuivano con entusiasmo ad ogni portata, un’altra comitiva di anglosassoni, con cinque bambini, elegantissimi e molto sciolti, e mi è tornata voglia di panzanella. E l’ho ordinata: ancora più frugale e diversissima.

Bisognerebbe che molti andassero a scuola da queste due panzanelle, per un indispensabile ripasso di turismo.