Fa caldo, governo ladro

punti di vistacome un trofeo preistoricoCaro diario – mi verrebbe da scrivere – di mattina presto, andare a sbirciare le vigne (in questa stagione) è come incontrare tanti ‘cuccioli’. Sì, mi paiono più animali, tanta è la concentrazione che mi sembra di riconoscere nelle ‘buttate’ che cominciano ad ‘alzare la cresta’! Per una che ha amato molto (e che ama) l’aspetto minerale della città, questo è un cinema. Nel senso che mi immagino le voci, gli stiramenti, gli sbadigli, forse anche i coretti di questi esseri che si esprimono e si lasciano indagare. La vita della vite è intensamente vissuta….così mi pare, così mi viene da immaginarla. Non mi stupirei se si passassero la voce queste piante così espressive – paiono tutte uguali, allineate come plotoni – ognuna  ha le sue rughe le sue scabrosità misteriose, così silenziose d’inverno.

Ora sarebbe primavera, ma invece sembra di stare su un’altalena meteorologica, e se fino a ieri tra uno squarcio di sole e una spruzzata d’acqua mi sembrava di vivere un avviamento abbastanza graduale verso la stagione più calda, oggi sono quasi stramazzata nell’afa di mezzodì, l’aria appiccicosa e una velatura greve sulle colline. Dopo mesi di pioggia esasperante, è come se l’acqua tornasse tutta quanta, tutta insieme, in forma di vapore caldo.

Mi viene in mente la vecchia esclamazione “piove, governo ladro!”,  che ricordo da quando ho sentito parlare italiano per la prima volta; un modo di dire che ha perso completamente il suo significato blandamente polemico, un modo di dire uscito dall’uso comune. Altri pensieri, che non trovano le parole adatte, che somigliano all’afa odierna – soffocanti e grevi, ineludibili – appesantiscono questa stagione di difficili speranze.

Per non essere da meno

Circa otto anni fa viaggiai sul Treno Natura con Domenico Nucera che, per conto di Rai3, girava una puntata di Italia Amore mio, nei luoghi della terra senese. Durante la nostra chiacchierata in treno, attraversando una campagna fiorita di ginestre profumate e guardando luoghi visibili solo da quel particolarissimo treno, nacquero le “Cronache dalla Campagna“. Una prima serie, senza foto (non sapevo maneggiare una macchina digitale), che io scrivevo e Mimmo Nucera postava con qualche saltuario intervento, ma con un contatto frequente tra noi, che stimolava le osservazioni e la voglia di raccontare una campagna preziosa, compresa più dai ferrovieri volontari che anima(va)no il Treno Natura che dalle Amministrazioni locali, che hanno praticamente cancellato l’idea di treno, come mezzo di trasporto e di collegamento, tra Siena- Grosseto e i numerosi comuni di questa fetta di Toscana Sud.
Con l’avvento della decrescita coatta (e ancora poco felice), mentre la classe media (ex)benestante sta imparando – nell’ordine – a: non sciupare più niente, acquistare il minimo, mangiare meno, lesinare il carburante, tirare lo sciacquone una volta al dì, rivoltare giacche e cappotti, il treno potrebbe tornare a essere una fonte di risparmio energetico ed economico per la collettività; e il percorso del Treno Natura (che va comunque manutenuto) tornare a essere un percorso funzionale alla vita quotidiana.
Potremmo tutti ri-prendere il treno, per non essere da meno e per non spendere di più.non ci resta che vivere

Miseria, povertà e congiuntivi

Lo pensavo stamattina – 25 aprile, un anniversario di cui si sta facendo perdere un po’ il senso,in modo strisciante -: siamo un paese ricco, ma siamo in miseria, da tempo.
L’ho pensato stamattina ascoltando Francesco Merlo che faceva una rassegna stampa in cui m’è parso di individuare più gusto per la rete di amicizie, parentele, convenienze e appartenenze di politici (e giornalisti che oscillano tra un corpus e l’altro), che attenzione ai bisogni del paese (cioè dei cittadini); bisogni urgenti – com’è consueto, dato che governi e  loro dintorni passano e arraffano, uno dopo l’altro – ma soprattutto bisogno di una strategia da impostare con passo lungo, guardando al futuro.
Perché i soldi non sono svaniti, sono solo spariti:è diverso.

Il problema siamo noi e la nostra in capacità di immaginarci diversamente, da qualcuno che – vestito da sciùr – sta (ancora?!) al volante di un macchinone che ci fa sentire ‘al di sopra’. Questa è un’immagine (con lievi varianti) che galleggia nella nostra mente.
Quando un’idiota come la sottoscritta, scrive di paesaggi o di “cultura” (parola a cui buona parte dei politici tutt’ora in auge nel paese attribuisce un significato osceno), quella immagine, nei suoi elementi basici, si infrappone tra il nostro ego l’interesse comune.
Questa incapacità di immaginarci diversamente, di avere un’idea di benessere che non sia solo consumo, di immaginare un paese più civile, meno preda di mode che invece di coincidere con la ricchezza della nostra cultura (chiedo scusa), sono solo un’altra interpretazione di un edonismo fuori tempo, ci rende un paese in miseria, e fa sì che tutti i grassatori che lo hanno assaltato nei decenni possano essere definiti dei miserabili, massimamente i pochi – fra loro – che non sbagliano i congiuntivi e fanno gli intelligenti.

Salita al Colle

Accoccolata sul muretto su cui più di trent’anni fa ho visto sedere tutti gli abitanti – allora numerosi – di questo villaggio, osservo le fusa e gli andirivieni di una gatta graziosa e non più giovanissima.
Il sole cala lentamente in queste giornate dell’anno che cresce verso un’estate ancora più sconosciuta del solito.
Ho quasi traslocato il mio piccolo ufficio – con tutte le implicazioni di un trasloco: rimpianti, fatica, reticenza e viltà, ansie e soddisfazione -. Ora attendo che mi torni un po’ di forza per scaricare dall’auto un’altra porzione delle numerose carte e carteggi che la repubblica delle banane pretende dai suoi sudditi, indifferente all’occupazione di spazio implicita, alle complicazioni, alla stessa brevità della vita umana paragonata alla burocrazia enfatica e dilagante.
Chi passa e si avvicina riceve il sole dritto negli occhi e si fa schermo con le mani; Mustafa si siede accanto e si arrotola una sigaretta, intrecciamo discorsi sulla vita in Tunisia – dove ora chi va al governo deve rendere conto di ciò che possiede e come l’ha acquisito, mi racconta Mustafa – parliamo di queste giornate di politica malata qui in Italia; parliamo di cibo, di Ramadan e di razzismo. Chiara ci passa accanto, tende la mano sulla propria fronte e racconta le esperienze di padrona di casa di questi cittadini non più nuovi, ma considerati sempre diversi. Di diversità parliamo, mentre la gatta si appoggia alla mia schiena, godendo di questo spicchio di giornata che si chiude. Dietro le mie spalle la campagna diventa bionda di sole, fulva nel tramonto; l’aria è fresca, le notizie pessime. Ricordo vivamente quando arrivavo da Milano e qui non c’era niente, la gente era curiosa e gli sguardi senza ombre. Non c’erano soldi, qui, e noi che venivamo da una città ricca e lavoratrice piombavamo nel villaggio come sassi in uno stagno limpido e pulito. Non so se starò qui a lungo ancora; la campagna mi piace, la gente non c’è più, davvero ce n’è poca. Il paesaggio si è imbastardito in modo subdolo; ma intendiamoci, quelli che arrivano d’altrove – e spesso anch’io – sgranano gli occhi sul verde intenso e variegato di vigne e bosco e ulivi e cipressi. Ma si capisce, guardandosi in giro che gli interventi avvengono a casaccio, senza la capacità di ‘vedere’ oltre gli aspetti contingenti, talvolta rivelando aspettative di un benessere folkloristico.
Ma ci sono ancora alcuni clivi su cui si intrecciano alberi e cespugli con i rami che si stanno impolpando: ha piovuto tanto e il verde si sviluppa velocemente, come se volesse recuperare il ritardo.
Curiosamente, questo ritorno di stasera – apparentemente una sera come molte – ha un sapore diverso; mai come ora la vita si è rivelata piena di turbolenze e di rischi; il cambiamento non è una promessa, ogni mattino porta storie che parlano della sconfitta di un paese di illusi, e le sere sono consuntivi che non ascolto volentieri.
Eppure, sarà la luce – so che la luce intensa e l’aria tersa hanno poteri speciali sull’umore e sulla salute psicofisica -: sento salire in me un guizzo, un sentimento di contentezza: capisco che il trasloco è finito, è tutto dentro la mia testa e posso contare su di essaDSCN0244, infine.

Cari Sindaci, il Paesaggio ha un suo perché

Geografia e analisi paesistica

Anche la geografia, con la sua pur contraddittoria eredità scientifica nello studio del paesaggio e con il suo armamentario strumentale e metodologico, può e deve essere considerata uno dei caposaldi culturali sui quali si potrà costruire una razionale opera di salvaguardia/valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio. Essa ha dato – e molto di più può offrire – un contributo teorico e pratico significativo alla risoluzione delle due esigenze compresenti, in genere allo stato conflittuale, in ogni situazione di riorganizzazione del territorio: da una parte, l’esigenza di trasformazione/modernizzazione dell’assetto territoriale, dall’altra quella di conservazione di determinate frazioni o componenti tradizionali del paesaggio. (da “Storia e Futuro, aprile 2002; Leonardo Rombai)

Ogni tanto vado a cercarmi altre notizie di un lontano e illustre parente Renato Biasutti (San Daniele del Friuli 1878- Firenze 1965) geografo ed etnografo, molto conosciuto per le sue ricerche su “La Casa rurale nella Toscana”, ma forse un po’ meno per i suoi studi sul paesaggio (Il Paesaggio Terrestre, Firenze 1947), cioè un censimento descrittivo dei diversi paesaggi terrestri.

Biasutti ha lavorato anche sulla scia delle ricerche di Alexander von Humboldt (Berlino, 1769-1859), scienziato, naturalista, viaggiatore. Il lavoro di Renato Biasutti (che ha fondato anche l’Istituto geografico dell’Università di Firenze) è stato ed è ripreso, citato, approfondito da numerosi altri studiosi; perché il Paesaggio è lo specchio dei nostri pensieri.

Navigavo alla ricerca di altre notizie – in una pausa di un trasloco, piccolo ma per me impegnativo, in queste giornate affollate dalle (ultime?) peristalsi della vecchia politica e mi è venuto in mente che se i nostri amministratori – che, per certi versi, hanno in mano il nostro paesaggio – ne sapessero di più, fossero indotti a leggere e studiare di più, a proposito del paesaggio e di come esso ‘diviene’ e ineluttabilmente si modifica…, forse aumenterebbe la loro sensibilità, anche personale, su questo argomento che “ha un suo perché” : dal senso del paesaggio dipendono il turismo – un’attività economica primaria, qui in Italia – ma ancor di più la qualità della vita (gli stati d’animo!) di noi cittadini. In tempi magri come quelli che stiamo attraversando, converrà tutelare il paesaggio, con meno polemiche e più condivisione con le comunità, studiando di più per capire e scegliere meglio.

In altre parole, siamo più costruttivi, costruendo meno.alla ricerca del paesaggio perduto

 

Metti la sera a cena e il giorno dopopranzo

Mentre il sole e un po’ di tepore a cui non eravamo più abituati scaldano il cuore, ecco che le vigne – immobili e in grande ritardo, mi dicono gli addetti – si muovono all’improvviso e le foglioline crescono a vista d’occhio (e non è un modo di dire); questa torna a essere terra di incontri, nonostante i tempi più che austeri che l’Europa sta vivendo.
L’Europa, sento dire, perché l’ottanta per cento degli abitanti della terra sta invece vivendo un’epoca completamente diversa da questa involuzione che pare inarrestabile. Ho sentito ieri alla radio (radiotre mondo?) i numeri esatti e raccontano di un mondo che non è più quello – nostro – a cui eravamo abituati da sempre.
Questo dovrebbe provocare due movimenti – mi pare -: il primo è quello di dare una ripulita alle nostre ‘tipicità’, ma non in senso folkloristico (o disneyano), come sta facendo qualche anima troppo semplice; bensì trovare un “vettore di modernità” alla tradizione a alla nostra cultura, consolidandole come ‘un classico’. L’altro movimento sarebbe quello di capire – ma non bisognerebbe mai cessare di farlo, vero?! – come sta cambiando il nostro orizzonte, e quindi non farsi prendere in contropiede, dal mondo che cambia, e cambierà.
Alzare la testa e guardarsi intorno – vicino e lontano – ; non lasciarsi ingabbiare dai giochi della politica (che da noi pesano troppo), cercare di capire che cosa succede altrove, per essere pronti, ma anche per essere aperti ai bisogni degli altri.
Così, una sera della scorsa settimana, mentre imperversava Vinitaly e ne leggevo gli echi sulla stampa quotidiana, cenando nella quiete elegante della Toscana vera (e ben interpretata) con una scrittrice americana, ho toccato con mano quanto Montalcino, la Toscana, l’Italia e i nostri vini, siano osservati con puntualità; chiacchieri e scopri che certe dinamiche che immaginavi fossero quasi solo ‘di cortile’ siano invece perfettamente riconosciute (e lette in filigrana). E se pensavo (ma in realtà non lo pensavo del tutto) che certe divergenze locali fossero piallate dalla comunicazione, ho avuto l’ennesima conferma della forza del bocca a bocca e di quanto la stampa libera (quasi tutta straniera) non abbia troppa voglia di farsi incantare da un cadeau o anche semplicemente da un approccio molto (o troppo) gentile.
Sono passata da una cena che mi ha lasciato meditabonda a un pranzo e dopopranzo, con l’amico Tsoukas, un suo amico greco e un agronomo biodinamico che lavora prevalentemente in Africa, ma che è attivo anche qui. Ed ecco che si è aperta un’altra finestra – e dio solo sa quanto ce n’è bisogno – su un mondo a cui bisognerebbe riuscire a dare una mano, ma non casualmente e non occasionalmente. Intuisco anche che “dare una mano” a quel contesto in cui lavora l’agronomo con cui sto parlando, può anche aiutare noi e il nostro mondo alla ricerca di nuovi stimoli, più veri. E smettere di piangere sui nostri guaiDSCN5160DSCN5229DSCN5159DSCN5161DSCN5169DSCN5150.

Un po’ di verve

«Aprile è il mese più crudele, genera | Lillà da terra morta, confondendo | Memoria e desiderio, risvegliando | Le radici sopite con la pioggia di primavera»
E così, anche se non con la traduzione che preferisco – quella di Vittorio Sereni! – che mi faccio coraggio e scendo in pista per finire il mio piccolo trasloco (che somiglia piuttosto a un lungo addio).

Tuttavia la poesia (Terra desolata?) di Eliot mi si confà e si sposa benissimo a questa terra che desolata non è, anzi è ricchissima e potrebbe esserlo anche di più, e lo sarà; ma solo se le politiche amministrative e la politica del paese sapranno coglierne il senso autentico – che possibilmente non siano i soliti soldi; sì lo so che non puzzano e sono indispensabili, tuttavia sembra che lo siano (indispensabili)soprattutto per i personaggi dei partiti.

L’ultima trafittura me la dà il Renzi – vispo e simpatico, un po’ gazzilloro, ma intelligente – che twittando a proposito di Vinitaly (e riconoscendo il grande potenziale del vino) lo snocciola in questa sequenza: soldi, lavoro, identità -. Capito come? Primum i danée, poi il resto. Renzi mi hai trafitto!

Un’idea dell’alto senso della moralità degli interpreti della cosa pubblica me l’ha anche resa bene Mastrapasqua – il manager di quasi-tutto nel nostro paese, ma soprattutto di INPS. E a proposito dell’ente che paga la pensione a quasi due decine di milioni di italiani (sarebbe quasi un terzo del paese), e citando la recente e cancerosa fusione con l’INPDAP, denuncia anzi rivela, in una lettera del 22 u.s. alla Fornero, che “i conti dell’INPS sono a rischio; non più sostenibili entro due anni!” a causa proprio della malsana fusione; anche perché lo Stato (e i suoi interpreti) non ha mai pagato i contributi ai propri lavoratori, le cui pensioni (INPDAP) si trovano ora sulle spalle dei lavoratori e pensionati del privato.

Cari amici, tiriamo fuori l’energia e tutta la verve di cui siamo capaci, perché ci servono in questo momento, ma pare che saranno anche più preziose nel prossimo futuro!

Se la Mamma è il Capobanda

Quando rifletto all’ormai noto monito del Presidente Napolitano, contro i fanatici della moralizzazione, continuo a domandarmi che cosa mai glielo abbia ispirato. “Caro Presidente Napolitano, alla vigilia della Sua andata in pensione (beato Lei, penseranno gli esodati della Fornero), forse avrebbe potuto esprimere un altro monito, che avrei apprezzato molto di più; io avrei avuto in mente un messaggio all’opposto di quello da Lei lanciato durante la celebrazione di Chiaromonte, un monito all’incirca così: ‘Cari Cittadini, la corruzione si porta via risorse vitali per il nostro paese, perciò combattiamola con tutte le nostre forze anche a costo di passare per bacchettoni o per fanatici della moralizzazione’.”. Questo è quello che avrei scritto volentieri a Giorgio Napolitano, ma quello che vi racconto qui di seguito, vi fa capire perché invece – come si dice a Milano – “mi tengo i denti in bocca”!

Infatti dove vivo, vedo anche cose che spiegano bene – e da vicino – qual è il livello di moralità che va per la maggiore nel nostro paese, e sono perciò rassegnata – e comprensiva – anche nei confronti di Giorgio Napolitano, che nella sua alta carica, forse non intravede, diciamo così, lo spazio psicologico adatto a invertire la rotta e l’andazzo a cui –  con immenso disagio – dobbiamo rassegnarci (?).

Quindi approfitto di queste mie piccole – e spesso futili – cronache, per raccontare un’attività illecita (ma il nome vero è furto), che sta diventando un comportamento, forse non abituale, però piuttosto frequente, proprio qui, in questo ridente ‘balcone’ sul paesaggio; un paesaggio che sorprende e incanta anche i più incalliti viaggiatori (forse un po’ meno gli abitanti – essendoci questi ultimi cresciuti dentro -), ma è un incantamento che non impedisce ad alcuni di fare i furbi.

Il paese (Sant’Angelo in Colle) è giustamente famoso per due ristoranti in cui si mangia piuttosto bene (e si beve il meglio che Montalcino offre al mondo degli appassionati e dei conoscitori); il paese è anche noto, da sempre, per le merende e i pranzi che le donne di qui – riunite in associazione – preparano nelle occasioni della tradizione. Quando ciò avviene, Sant’Angelo si riempie di decine e decine di visitatori: coppie, famiglie, gruppi di amici, parenti di parenti; visitatori quasi mai occasionali, perché conoscono bene il luogo.

Certi lo conoscono tanto bene da sapere che il villaggio non è abitatissimo e le stradette non sono quasi mai affollate. Anche se sono molto ben curate e molto spesso gli abitanti le ornano con vasi fioriti, a seconda delle stagioni. Un’attività diffusa, nel paese, quella di ornare l’uscio con un coccio, magari già bello di suo, piantandovi i gerani, le calle (se siamo all’ombra), i tulipani, il rosmarino e le salvie, e nell’estate l’immancabile basilico (sbizzarrendosi nelle diverse varietà e odori).

Da tempo mi era capitato di notare che qualche volta ci sono anche signore con borse piuttosto capienti appese al braccio mentre passeggiano dopopranzo in occasione di queste feste, e girando per le vie del borgo, con marito e figli, ammirando gli archi, i portoncini, le pietre linde, le tendine accurate col pizzo, e soprattutto i numerosi vasi – grandi e piccini – che ornano poggioli, usci, davanzali. Vasi in cui gli abitanti esprimono la loro creatività.

A Pasquetta, mi è capitato di incontrare una di queste famigliole intenta a guardare da vicino un grande vaso pieno di piante, ai piedi della scala di Giuliano, uno dei paesani col dito verde. “Guardavamo come sono belle!”, mi dice il marito – a cui peraltro non avevo chiesto niente – tenendo le mani in tasca. Il figlio si guardava intorno con aria distratta e la moglie intanto dondolava pensosa una sua borsona vuota. “Sì, son belle, ma per prenderle bisogna chiedere al loro padrone”, ho buttato lì, guardando la borsa della donna.

Se ne sono andati velocemente, senza una parola, nemmeno un “ma come si permette”. Da tempo, qui non si contano i furti di piante- è il nome giusto e andrebbero denunciati –   (sradicate quando i vasi sono troppo grandi e pesanti per essere rubati) o di vasi interi, spariti dagli usci, o dalle scalette dove fiori e piante fanno bella mostra di sé; e gli autori non sono (in apparenza) pericolosi criminali, bensì le famigliole “normali” che pensano di portarsi via un ricordo del pranzo ricco, del buon vino e della loro furbizia.

Io penso che le mammine con la borsa e i loro mariti (e i figlioli) capiscano perfettamente che stanno facendo qualcosa che se li becchi sul fatto non sai bene quali potrebbero essere le tue reazioni, ma questo è solo uno dei mille esempi della moralità media, quella – per capirsi – contro cui non bisogna diventare fanatici.  Però non so se quelle mammine e quelle famiglie, trovandosi a votare per il sindaco o il partito, penseranno un pensiero diverso da quello che non impedisce loro di rubare la cosa d’altri!

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Obituary

In tempo di dipartite profondamente toccanti è di rigore la lettura dei necrologi sul Corriere della Sera. Una lettura praticata per essere informati quando qualche buon conoscente sceglie l’aldilà (e non dimenticare così di mandare un pensiero di solidarietà e di condivisione alla famiglia); una lettura però che serve in molte circostanze per sapere chi conta, e chi vuole contare.
Il necrologio infatti non è solo il messaggio di una famiglia deprivata; ha a che fare con la scienza della comunicazione; quella che non ci hanno insegnato all’Università, ma che abbiamo imparato all’università della vita.
Nel mondo del lavoro e delle imprese, più che nel privato, il necrologio ha un suo perché strategico. Lì, infatti, non si piange solo chi se ne è andato, ma ci si manifesta. Il necrologio sul Corriere della Sera è un messaggio preciso: si partecipa pubblicamente al lutto di una famiglia o di una comunità, nel contempo si afferma ancor più pubblicamente il proprio ruolo in un contesto sociale. Leggere (anche MacLuhan va bene), per credere.

Vignaiolo e Gentiluomo

Se mai qualcuno ha dato ancora più nobiltà al lavoro del vino e all’idea della terra, colui è – è stato, e lo piango – Franco Biondi Santi. Qui ritratto nel giorno del suo novantesimo compleanno. Sapere che ciò che resta di lui – oltre la stima e l’affetto che ha saputo suscitare in noi, in tutti noi che l’abbiamo conosciuto – è profondamente radicato nel mio cuore e nella mia mente, non mi consola abbastanza.DSCN2085