Come Renzi è vestito di blu

La giornata è iniziata abbastanza presto, aprendo “Colorama”, un libro acquistato mesi fa sul filo di un’intuizione che mi aspettavo andasse delusa, invece eccomi qui a leggere, con pazienza e interesse, pagine e pagine che mi dicono a volte cose che pensavo, altre che immaginavo, altre che mi spiegano qualcosa che stava in un angolo della mia mente. Mi impunto su due date che riguardano un signore chiamato Chevreul, che lavorava alle manifatture Gobelins nel 1824; nascita e morte di costui non mi convincono e penso ci sia un refuso (1786-1889!), poi controllerò, ma non so ancora dove. Perché il nome di costui, nel libro, viene dopo quello di Goethe e della sua “Teoria dei Colori”. Goethe lo conosciamo tutti (o quasi), Chevreul invece è un chimico che dirige quelle manifatture rinomate e si collega a Goethe perché razionalizza la nomenclatura dei colori e la possibilità di riconoscerli, partendo proprio da quella teoria.
Colorama è un bellissimo libro; non so trovare un altro modo, meno banale, per dire quanto ricco di notizie, spunti, informazioni, legami che vanno in profondità. Penso che sono molte, tra le persone che conosco, quelle che con la sua lettura arricchirebbero i propri pensieri, o la propria professione, o il proprio sguardo sugli altri.
Rimando la verifica anagrafica e passo al capitolo successivo: “Blu Bovary”. Per una di quelle strane associazioni che a volte fanno partire immagini che si fondono una nell’altra, leggo il titolo e mi viene in mente Matteo Renzi, anche se ha davvero proprio poco a che fare con la figura della Principessa de Broglie che è raffigurata nel libro – vestita di un sobrio e sontuoso abito blu (che io chiamerei bleu roi) – per illustrare il significato di quel colore nella tormentata esistenza di Emma Bovary. Ma torna Renzi e mi pare che la sua immagine si sovrapponga di continuo nel mio vagare nel blu, perché nel suo vestiario il blu abbonda; direi che il blu pavone (appena un po’ più acceso dei blu d’ordinanza ministeriale) è decisamente protagonista. Su Colorama  ho letto le associazioni al colore blu – “Ombra, Scuro, Debolezza, Lontananza, Alcalino, Attrazione, Privazione” – e mi viene in mente che si potrebbe tentare un oroscopo. Di certo Rob Brezsny ce la farebbe e tirerebbe fuori qualcosa  di brillante.
Questa mattina ho dovuto abbandonare il libro per andare all’appuntamento con la mia fisioterapista, e mentre mi ci recavo – guidando in mezzo alla campagna – mi ritornava in mente il blu di quel vestito, quello della Principessa de Broglie, in un quadro che mi pare sia di Ingres. E’ un colore così denso che ti ci potresti tuffare, come un inchiostro con cui scrivere, un colore per evocare ricordi. Era il 1971, stavo sdraiata sul letto, in via Sismondi; la camera l’avevo dipinta io, di blu – tutto era di quel blu -, sul letto dondolava piano un’enorme sfera candida di carta giapponese; fuori c’era il silenzio di una domenica pomeriggio; come quando è primavera a Milano, tutto era tiepido e luminoso, la porta-finestra aperta sul balcone.Tutto era molto più tiepido dell’aria di questo marzo che pare una primavera precoce (nonostante l’inverno che vuole le sue rivincite), ma la suggestione del colore è forte, più forte di questo clima incerto. Allora il suono secco, come di un ramo che si spezza, aveva rotto il silenzio mentre sulla parete blu, di fronte a me, nel blu si apriva una stella bianca, un disegno smagliante e irregolare, al cui centro luccicava qualcosa di scuro.
In una stanza buia, tre secoli prima, Isaac Newton aveva catturato con un prisma un sottile raggio di luce e, scomponendolo in un arcobaleno, l’aveva proiettato sulla parete di fronte, colorandola di tutti i colori.
Qui, un cretino imitando le brigate rosse, aveva squarciato la mia parete blu con una carabina calibro ventidue.

A che serve diventare vecchi?

DSCN7859La domanda arriva in mezzo al petto e di prima mattina, come una fucilata. Me la pone una newsletter francofona che dà consigli di salute alternativi – spesso illuminanti, talvolta un po’ banali -. E subito mi elenca i disastri della vecchiaia: ossa e denti che vanno a ramengo, i capelli che cadono, il peso che aumenta, la memoria che svanisce; per non parlare delle malattie che si instaurano in questo panorama desolante.

Ma a me salta subito in mente Matteo Renzi, l’uomo che rottama e il disprezzo che testimonia quotidianamente per tutto ciò che è vecchio – a cominciare dagli esseri umani -; che cosa pensare a questo proposito: da un certo punto di vista lo capisco e lo giustifico, poiché (in un certo senso) non sa quello che dice. Inoltre penso che tra trent’anni, se avrà la (s)fortuna di invecchiare, sarà pronto a comprare l’usato sicuro, a cominciare da sé stesso. Penso alla precedenza che mi pare dia alle cosiddette grandi opere, su tutto ciò che racconta storia del paese Italia e le gesta dei suoi uomini più rilevanti.

Poi mi ricordo di Ray Bradbury e di quel suo racconto -“la decima vittima” o “la settima vittima” (uno dei due titoli è quello della trasposizione cinematografica interpretata da Ursula Andress in stivali bianchi, traforati, di Courrèges) -, in cui in un mondo affollato e imbelle qualcuno inventa un vero e proprio ‘gioco al massacro’, con cacciatori e ignare vittime designate, per dare una via di sfogo alla violenza repressa. E’ l racconto di un mondo in cui giungere alla vecchiaia è più difficile (perciò secondo i fondamenti del marketing più appetibile?) e comunque chi ci arriverà potrà dire di aver lottato per farlo.

A che serve, a chi serve, invecchiare? Se lo devono essere chiesto tutti quelli, tra coloro che ho conosciuto cammin facendo, che hanno scelto di non invecchiare oltre, o magari già vecchi di non vivere la stagione della vita da taluni indicata come quella della saggezza, da altri come l’età della beatitudine (come citava una mia amica): beatitudine magari ricercata e forse qualche volta raggiunta o scoperta.

Domanda – confesso – che non mi sono mai posta, prima di stamattina; nemmeno quando mi capita di incrociare vecchi decrepiti che trascinano i propri passi su un marciapiede sporco, o sostano nel sole appoggiati a un bastone, accecati dalla luce, annichiliti di fronte a una giornata vuota di fronte a sé. Domanda che non mi ha mai neppure sfiorato, nemmeno scoprendo che alcuni erano più giovani di me, con alle spalle una vita più piana e meno veloce della mia e forse persino più ricca di soddisfazioni e affetti.

Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni maestri ammirabili e ho sempre guardato la vecchiaia degli altri con un occhio attento e con l’idea che la mia vita fosse intrecciata alla loro; pensando comunque che ciò che sapevo, capivo e conoscevo – vivendo – fosse anche legato a quello che avevo appreso, mimato, capito, imparato da loro, da quelli che avevano vissuto prima di me e stavano vivendo la vecchiaia prima del mio inverno personale.

Dico in generale, ovviamente, perché a parte alcuni scienziati o grandi professionisti e tecnocrati, in questa epoca di continua innovazione tecnologica e di scoperte scientifiche, uno deve guardare ai giovani per capire e sapere come usare uno smartphone o come funziona una app; ma non è esattamente questa la “conoscenza” a cui mi riferisco. La mia citazione dei vecchi come testimonial e maestri di vita e conoscenza è legata alla loro esperienza, e prima ancora al senso che hanno dato alla loro vita, senso che può essere diverso per molti e che può mutare vivendo stagioni diverse, più o meno appaganti.

Quello che ora mi scoraggia e mi impedisce di rispondere alla domanda che mi è arrivata stamattina è la constatazione di una diversità di sensibilità che si è acuita, proprio in questi anni di cambiamenti e di mutazioni. Mi sembrava che nel mondo dei consumi, in fase di globalizzazione giungesse da oriente un senso diverso, più profondo per chi è giovane, con un invito a guardare oltre le rughe e la voce tremula, più appagante per i vecchi con la prospettiva di un ruolo dignitoso e rispettabile in una società alla ricerca di esperienza. Dimenticavo però che la globalizzazione ha realizzato soprattutto un unico macro obiettivo: quello di rendere tutto più effimero e superficiale, come un fast food per anime vaganti.

Più vedo, più guardo. Più leggo, più capisco

 

DSCN1939“Sia io, sia Vasilij Ivanovic siamo sempre rimasti colpiti dall’anonimia delle varie componenti di un paesaggio, così pericolosa per lo spirito, dall’impossibilità di non riuscire mai a scoprire dove conduce quel sentiero che … e guarda com’è invitante quel folto d’alberi! Capitava che su un pendio lontano o in uno scorcio intravisto fra le piante comparisse e, diciamo così, restasse immobile per un istante, come l’aria trattenuta nei polmoni, un luogo tanto incantevole – un terrazzamento, un prato, l’espressione perfetta di una bellezza tenera e benevola – da far credere che fosse possibile fermare il treno e andare là, per sempre, da te, amore mio … Ma mille tronchi di faggio già balzavano avanti forsennati, turbinando in una pozza sfrigolante di sole, e di nuovo svaniva l’occasione di raggiungere la felicità”

Anch’io come Vasilij ho imparato il paesaggio nei lunghi viaggi in treno fatti con mia madre che mi esortava a guardare e a ‘vedere’ ciò che guardavo. Sono stati i libri, poi, a darmi gli strumenti per leggere anche le emozioni che provavo e che continuo a sentire nel guardare e vedere il paesaggio, i paesaggi – anche i più consueti -. Ho trovato quel sentire, così ben descritto nei racconti di Vladimir Nabokov, quelli raccolti sotto il titolo “Una Bellezza Russa”; la citazione è tratta dal racconto intitolato “Nuvola, lago, castello” e penso che racconti perfettamente il sentimento di chi guarda (e vede e perciò sente!) il paesaggio in cui noi umani viviamo, camminiamo, e agiamo.

Forse sta crescendo una nuova sensibilità, ma il gusto del paesaggio (il senso estetico di ognuno è davvero influenzato da fattori e circostanze e frequentazioni) che potrebbe accomunare molti, è fortemente incrinato dalla banalizzazione televisiva e dall’arrivismo (anche legittimo in un certo senso) di quelli che, costruendosi una casa, o ristrutturandone una, o arredandola, o piantumando il proprio giardino, sono sospinti e motivati in modo confuso – nelle loro scelte – dall’incapacità di ‘provare emozioni’, se non quelle suscitate dall’idea del possesso e dai soldi. Tutt’ora!

E’ abbastanza inevitabile in un paese povero come il nostro: povero d’idee che non siano legate (ancora) all’idea di successo, soldi, esposizione di ciò che i soldi che uno ha guadagnato consentono di avere. Avere per essere, anzi per apparire, come un po’ sommariamente citava il Renzi Matteo – addobbato Scervino – (meglio essere che apparire, eccetera, si vede che gli avevano parlato di Eric Fromm) in uno dei predicozzi ammanniti all’incolto (nella sua lettura non completamente inesatta dell’italiano medio: altrimenti chi lo voterebbe?!) e un po’ meno all’inclita.

Eppure il paesaggio è un capitale sociale che solo il nostro cattivo gusto collettivo, o le rapine a cui è soggetto in questi frangenti il nostro paese, possono sottrarci. Ed è un bene importante (sarebbe), perché vivere in un bel paesaggio è alla base di una qualità di vita superiore: qualcosa che potremmo anche commercializzare, proponendola a chi non ce l’ha e viene a cercarla da noi  e siccome noi siamo un paese di non lettori, non abbiamo gli strumenti conoscitivi (e di sensibilità) indispensabili a capire e tradurre ciò che capiamo in fatti, comportamenti, modi di sentire.

A questo serve leggere: non per obbligo nemmeno per citare, e non per esibire. Troppa tv brutta, sciatta, banale hanno annichilito la vera crescita dell’Italia.

Nonnità

Non c’è niente che ti dia l’idea del tempo che è passato (da quando? Non so!) quanto avere nipoti. Io davvero non mi ci vedevo, soprattutto osservando chi mi circonda, più da vicino; inoltre ho un bel numero di amici – soli o in coppia – senza figli; alcuni un po’ tristemente, altri perfettamente in sé e in equilibrio.
Ma la “nonnità” che sia vissuta intensamente, magari a supporto di necessità di genitori che lavorano, o da nonna indipendente – con una sua esistenza più o meno interessante, attiva, intensa – mi pare sempre un po’ caricaturata, come se l’essere nonna, manco bisnonna come succede a qualcuno, fosse una condizione un po’ forzata.
Anche se trovo positivo il tempo che passa – essere per esempio fuori dalla rat race – e divertenti i capelli bianchi, che mi esimono da eccessive manifestazioni di attenzione verso gli altri (i vecchi sono sempre un po’ rincoglioniti, almeno secondo Renzi; le vecchie ancora di più!), la presenza delle mie due deliziose nipotine mi trova un po’ goffa, come se non avessi individuato ancora la ‘misura giusta’, indovinata la gestualità, calibrato i miei sentimenti e le mie emozioni.
Attribuisco queste ‘esitazioni sentimentali’ al tempo che stiamo vivendo. Infatti la rabbia che provo nei confronti delle ipocrisie istituzionalizzate, la pervicacia nella scelta delle soluzioni più miopi e lontane dai bisogni della gente, l’evidente arroganza degli ignoranti, mi manda l’adrenalina a mille e vorrei stare sugli ‘spalti’ a combattere, con le parole, con il ragionamento, con le suggestioni che a un vecchio vengono direttamente dall’avere già visto quel film.
Trovare la misura giusta per essere la nonna delle mie due nipotine e allo stesso tempo continuare a manifestare i miei pensieri (e le mie attività) è forse solo un fatto temporaneo, un aggiustamento a un abito bespoke che deve ‘cadere bene’.
Nel frattempo mi consolo leggendo nei gesti e nel comportamento delle mie due delizie prodromi di un’augurabile grande energia in corso di accumulazione.
Faranno bene e già mi ritrovo di più nell’immaginare un loro battagliero futuro (non dissimilmente dai loro coetanei: questi giovanissimi avranno filo da torcere); la vita è una battaglia da affrontare con coraggio, energia, passione e – possibilmente – talento. Pensando a questo immagino di trasmettere loro un po’ del mio corredo, quello che mi hanno lasciato i miei genitori e che imparo a apprezzare sempre di più. Forse questo dà un senso interessante alla mia nonnità.

Silenzio!

Che mi succede?! Una botta di nausea da eccesso di parole. Davvero molto strano per una che con le parole ci lavora e ci fa i conti da una vita. “Silenzio, ora si fa.”, è quello che vorrei dire a tutti i parlatori, di solito piuttosto abili, che ci imbottiscono di suoni che pretendono di corrispondere ad azioni …, ma che dico: addirittura a concetti e magari anche a qualcosa di profondo.
Nessuno ascolta, ma neppure si ascolta o ri-ascolta. Se qualcuno lo facesse si accorgerebbe che non è vero che le parole possono essere dette ‘al vento’; se non altro perché ora esistono media più insidiosi e molto sofisticati rispetto a quelli in uso comunemente fino a qualche anno fa. Ma anche se questi media così sofisticati e avveniristici non esistessero, da sempre le parole – soprattutto se corrispondono a promesse – scavano dei tunnel nella mente e nel cuore delle persone, fanno germogliare idee, abbozzano orizzonti: sono vive e lavorano nel profondo della psiche.
Mi torna in mente una presentazione di trent’anni (?) fa, al quinto piano della Mondadori, Sala Consiglio, presenti – se ben ricordo – Piero Ottone, allora DG dei periodici, Neila Prizzon, la grande indimenticata signora della pubblicità che tanto fatturato portò a quell’azienda.
C’era la presentazione di una campagna pubblicitaria per promuovere un settimanale (non ricordo quale). Qualcuno dei presenti, piuttosto digiuno di comunicazione e in particolare di pubblicità, stava esortando a usare dei claim che a me sembravano decisamente imbonitivi. Intervenne la Prizzon che non era abituata a camarille e pissi pissi: “Non possiamo raccontare balle ai nostri clienti, promettendo che il giornale sarà qualcosa che non riusciremo a dare e a fare; non possiamo fare una campagna bellissima che promette miracoli e vende migliaia di copie in più, come per magia, perché non c’è niente di peggio di una campagna bellissima che promette un prodotto meraviglioso e lo fa acquistare da milioni di persone. Quando tutti quelli che l’hanno acquistato si accorgeranno che quella cosa lì è una “merda”, non ce lo perdoneranno più e li avremo persi per sempre!!”.
Così disse la Prizzon. Che sapeva come funziona la comunicazione e portava in azienda miliardi di fatturato. La regola è sempre la stessa.

Dittonghi

DSCN0925“Ma è solo un particolare a cui sei particolarmente sensibile, e attenta”, mi sono detta. E forse è così, anche perché con la moda dilagante – giovanilismo a oltranza – si è più portati a trovare una giustificazione a tutto, quindi anche alle porcate linguistiche che acquistano ogni giorno un po’ di terreno. Siamo allo sdoganamento di tutto quello che in una pagina ben scritta, in una lettera impegnativa, in un briefing, in una proposta pubblicitaria o in un documento strategico può essere l’elemento che toglie precisione,  svelando approssimazione o un uso nuovo della lingua.

Del resto mi sono ritrovata, giorni orsono, a interrogare in modo stringente (manco fosse un esame) un giovane  – ma non giovanissimo – amico, dotato di creatività, buona volontà e pure onestà (che di questi tempi non guasta) a proposito del significato del sostantivo ‘orpello’, che egli aveva appena utilizzato per definirenel discorso (che stava facendo) dei particolari ‘in più’, degli elementi di contorno che avrebbero dovuto avere la funzione di dare più sostanza a un certo progetto. La mia età e la stima di cui questo amico mi gratifica mi hanno permesso una puntualizzazione appassionata del significato della parola impropriamente usata, con altrettanto appassionato invito a lavorare su di sé (non è mai troppo tardi) per migliorare orale e scritto.

Vabbè è un po’ la mia mania?! Forse sì, ma camminando sulla sottile crosta che regge (ancora)  il format esistenziale in cui anche le generazioni più giovani sono cresciute, la lingua – intesa come strumento per esprimere con precisione i propri pensieri (e opinioni) ma anche per capire le intenzioni degli altri – è rimasta l’unico capitale che non può essere sottratto inopinatamente a ciascuno di noi: un capitale prezioso, accrescibile, esportabile, spendibile, esentasse. E foriero di soddisfazioni, ma talvolta anche di dispiaceri e di ansie e allarmi.

Sono stata colpita, oggi, dal Matteo Renzi che ho sentito dichiarare, con voce scandita e squillante, che bisogna scegliere di “essere” anziché di “avere”; credo fosse in occasione di un intervento a un raduno scout … Non mi ha colpito tanto la citazione (Erich Fromm), quanto il modo in cui è stata buttata lì, certo non casualmente, da uno che bada soprattutto a “apparire”, non dissimilmente dal resto dello zoo della politica. E non cito questa terza (rispetto alle altre due) categoria perché il giovanotto in questione veste Scervino e dintorni, ma  perché l’apparenza invece riguarda proprio l’uso delle parole, che egli declassa a slogan, appropriandosene e appiattendo i significati.

Ma torno al mio sconcerto iniziale nato dalla prima pagina del Corriere della sera di oggi, dove leggendo una recensione di Aldo Grasso, mi sono imbattuta nel seguente ‘a capo’: cinete / atrale. E’ la seconda volta che mi capita (ho l’occhio da linotipista), sempre sul Corriere e in poco tempo, di trovare un dittongo spezzato per andare a capo (per il mio professor Pinchetti sarebbe stato un sacrilegio) e sono stata tentata di darne la colpa alla Fiat e all’uso strumentale che essa fa della stampa, un contesto in cui la lingua ha la stessa funzione renziana, ma poi ho concluso che questi sono solo segnali. Sono i segnali della fine del mondo in cui anche i miei figli sono nati e cresciuti. Un mondo in cui il linguaggio aveva un senso umano.

Cavalli di Troia

La Grecia ha – avrebbe – molto da insegnarci, con i suoi miti che ci segnalano implacabilmente tutte le situazioni a rischio che noi tralasciamo. “Noi” sta al posto, sì certo, della politica o degli intellettuali, o volta a volta di chi presiede singoli comparti o attività o settori (della vita pubblica, delle problematiche che si affacciano nelle nostre esistenze); ma il “noi” contiene ciascuno di noi tutti – cominciando dalla sottoscritta – che come si dice a Milano (oppure si diceva), dormiamo all’umido (modo di dire chiarissimo, mi pare).
Per questo il Cavallo di Troia mi sembra, oggi, una metafora da tenere d’occhio.
Mi è venuto in mente, parlando con Lorenza (mia concittadina in questo minuscolo paese), mentre commentavo l’abbigliamento e i costumi dei tunisini che hanno ‘colonizzato’ questa frazioncina del comune di Montalcino in cui abitiamo.
Sono tutti operai agricoli, contrariamente ai primi immigrati albanesi e macedoni (e kossovari) che si erano trasferiti da queste parti in cerca di lavoro, molti più anni fa e che si sono orientati verso altre attività (ma alcuni di loro sono anche ritornati al loro paese d’origine).
Qualche tunisino ha avuto la nazionalità italiana ed essi ora fanno parte del paesaggio umano nostrano; ma qualche punto d’attenzione c’è, anzi mi pare che ne siano sorti dei nuovi …
Se quindici anni fa le loro spose e figlie assomigliavano in tutto e per tutto alle nostre giovani donne, da dieci e più anni a questa parte esse sono tutte velate. Niente di male, niente di che aversene a male: un velo in testa non ci turba. L’osservazione riguarda solo il fatto che ‘prima no ora invece tutte velate’ e questo deve logicamente corrispondere a un cambiamento di qualcosa: che cosa?
Da due o tre anni, gli immigrati di fede islamica hanno costituito una piccola moschea e questo è più che naturale, come lo sarebbe per un cattolico in un paese islamico, il desiderio di avere un luogo in cui praticare il proprio culto.
Da qualche sera ho osservato che gli uomini (le donne stanno in casa, ovviamente, e questo sì invece, come donna mi irrita) smessi i panni del lavoro vestono tutti o quasi la djellabah o galabyah, cioè la tunica della tradizione araba (?), con maniche lunghe e di colore bianco. Forse perché siamo in periodo di ramadan; ma gli anni scorsi, durante il ramadan, non ho mai notato questa osservanza, che mi pare stia divenendo molto più praticata e stretta (anche se non so quanto sia sentita). Tutto questo cambiamento è iniziato più di dieci anni fa, in concomitanza dell’arrivo – e permanenza periodica in paese – di un uomo (un imam?) che veste sempre alla foggia araba, porta il copricapo religioso, ha la barba lunga e fluente (ma non i baffi).
Mentre scrivo, e mi rendo conto di farlo con accenti critici, di queste ‘novità’ paesane (che però collimano con identici fenomeni qua e là in occidente), rifletto sull’effetto che può fare quello che riporto. Immagino le alzate di spalle, o d’altra parte anche quelli che trovano conferma a un loro modo di pensare un po’ fascistoide. Nulla di tutto ciò mi passa per la mente, ma soprattutto mi viene in mente in Cavallo di Troia, coadiuvata anche dal pensiero degli sbarchi quotidiani di quelli che io immagino siano – più che i protagonisti di una diaspora drammatica, più che migranti coatti che hanno messo da parte migliaia di dollari a testa per pagarsi un viaggio impossibile – scudi umani, ostaggi di qualcuno che sta organizzando qualcosa di ancora sconosciuto e inimmaginabile; anche se non si può dimenticare quello che sta succedendo in troppi paesi del sud del mondo (ma anche a est non scherzano affatto).
Insomma: che cosa sta succedendo (globalmente pensando)? E poi invece mi chiedo anche: quando il nostro giovane (e gasatissimo) presidente del consiglio parlerà di se stesso e della propria compagine come “generazione Ulisse”???
Sempre a proposito di Omero, dell’Iliade, della Grecia, del Cavallo di Troia: un mito davvero sottovalutato.

Largo ai polli

DSCN9792Come si è “vecchi” nell’immaginario della gente? Me lo chiedevo stamattina, dopo un caffè al bar in piazza, in questo paesello in cui i vecchi abbondano e sono parecchio variegati, ma l’accezione in cui viene letta la vecchiaia li uniforma (di ogni erba un fascio!), li accomuna in un unico vissuto, accantonandoli come persone che devono stare in disparte.

Me lo sono chiesta, un po’ sorpresa dal ‘giovane’ Marcello a cui ho raccontato che metterò il ritratto dei suoi genitori, che ho disegnato (e mi pare anche piuttosto bello) forse un paio d’anni fa, in un certo libro sul Brunello – ma con un taglio molto particolare (perché io di vino in quanto tale so davvero poco!) – a cui sto lavorando e sulle prime mi è anche sembrato contento, ma poi ha soggiunto, lasciandomi indignata, ma quante cose fai?, devi stare un po’ calma, ne vuoi far troppe …

Confesso sono rimasta sconcertata, sulle prime, poi però ho pensato che il Marcello in questione – essendo ancora giovane e non avendo vissuto che poco della vita che potrà vivere e in cui potrà spaziare – non ha la benché minima idea di quante cose si possano fare, quante idee mettere in campo, quanto lavoro, quanti pensieri sono realizzati da gente che lui (e il buon Matteo Renzi) probabilmente vedono come relitti, come risulta, oppure come persone che dovrebbero starsene quiete, perché sono altri quelli che devono “andare avanti”.

Tutto sommato può essere vero, se la visione del lavoro, degli affetti, della sessualità, della socialità, delle infinite attività umane è limitata; ma non lo è se si riflette a quanti talenti un uomo o – meglio specificare: non si sa mai – una donna possono mettere a disposizione degli altri e quanta esperienza si accumula in una vita.

Perché chi glielo va a dire a Dorfles – con i suoi centoquattro anni e un articolo settimanale sul Corsera – che deve darsi una calmata. E chi sussurrerà a Maurizio Pollini che sarebbe meglio smettesse, che ci sono alcuni pianisti di grande talento a cui deve lasciare spazio(?), o a Chomsky, chi suggerirà di smetterla, a più di ottant’anni, di scrivere e insegnare (ai più giovani) le sue teorie? E Carol Rama non dovrebbe forse smettere di dipingere? E il nostro Napolitano? …

Ma tu – mi pare di sentirlo il Marcello (ma anche i giovanilisti renziani e non) – mica sei una di loro! Infatti no, non lo sono: sono altra, diversa, come ognuno di noi è e ognuno di noi, possedendo talento (qualsiasi talento), esperienza, visione, affettività, deve “esserci” e spenderli, per chi ha occhi, orecchi, sensibilità per capire e imparare, ed energia per prendere il testimone. Attenzione: può non essere banale ed essere pesante da portare!

Fatto da me

Ho letto da qualche parte che l’ottimo Farinetti è intervenuto sul tema del made in Italy sollecitando il governo e gli immediati dintorni a “creare un marchio” per l’italianità, con una grafica (comitato, giuria, concorso) anche in vista dell’Expo 2015. Ho subito pensato che l’idea fosse banale e bellissima allo stesso tempo. Perbacco, certo, ho pensato subito anch’io che ci voleva qualcosa a sottolineare l’inestimabile patrimonio dell’italianità – artigianato, food, vini, arte e paesaggio – e sono andata a fare un giro, rimuginando sulla cosa. Oggi era successa un’altra cosa, un po’ imbarazzante e a suo modo rivelatrice. Una casa produttrice di armi da guerra ha messo “tra le mani” del David di Michelangelo un fucile mitragliatore e ne ha fatto una pagina pubblicitaria. Tra l’altro molti giornali – tra cui Il Giornale – riportano la notizia in modo curioso “il David di Donatello di Michelangelo” svelando così un po’ della cultura artistica del nostro giornalismo corrivo. Cammina cammina ripensavo a queste notizie apparentemente eterogenee, invece no. Perché la seconda notizia riguarda la stima, la considerazione e il rispetto che il mondo ha per noi e per il nostro paese. Poiché ci considerano molto, acchiappano un Michelangelo e lo usano per fare pubblicità – non a un Bourbon (e sarebbe già discutibile) – ma alle armi da guerra. Niente male! E allora pensavo: non sarà di certo un marchio – che una volta avrebbero pensato di affidare a un genio del design e della grafica, tipo Massimo Vignelli o Enzo Mari  e che ora affiderebbero a un qualsiasi Lapo o, meglio ancora, a qualche figurante di partito senza arte né parte -, dunque non sarà di certo un marchio, soprattutto se “pensato” nelle adiacenze dei nostri governanti a conferirci carisma e credibilità. Perché ancora una volta ci si affideremmo a una paroletta sperando che faccia il miracolo. Ma in realtà il miracolo dovremmo farlo tutti noi – uno per uno – tutti i santi giorni, scrivendo la paroletta giusta. Così mi è successo, venerdì scorso, in un negozio di calzature di scegliere un bellissimo paio di scarpe per acquistarle – un prodotto del design italiano, firmato da un marchio famoso e molto chic-. Poi ho alzato la linguetta e sotto c’era scritto made in Vietnam. Io, giuro, non ho niente contro i vietnamiti (nemmeno quando venivano defoliati ce l’avevo con loro), ma quella scritta mi ha fatto imbestialire e ho fatto una cosa strana: strana per una come me che è perfettamente consapevole che l’abbigliamento made in Italy viene fatto in Bangladesh e ora anche molto in Bulgaria, molte scarpe in Vietnam, e così via. Ho detto alla commessa no guardi, sono davvero contrariata perché chiamano made in Italy una scarpa che è made in Vietnam … che senso ha? La parola non basta. Come le lenticchie di Castelluccio che sono made in Canada, ma packed in Castelluccio. Insomma perché accade questo? Perché Italy e Castelluccio, o Colonnata, o Extra Vergine Italiano, o Toscana, hanno un valore preciso. Nel caso del made – fatto – in Italy in genere, si tratta di vendere il lavoro di “mani che obbediscono a un pensiero“, insomma si vende qualcosa di molto speciale, che ha reso ‘sto povero paese molto famoso in tutto il mondo; così famoso che tutti vengono a cercare il made in Italy. Salvo poi scoprire che ‘de palabras se trata’. Nient’altro che parole dette da imbonitori spregiudicati e anche poco furbi, perché osano pensare che gli altri, tutti scemi, non se ne accorgeranno …

Il tutto si è riallacciato alla proposta di Farinetti, di creare una parola che dicesse … made in Italy (!). La parola c’è già. Non è un’altra parola che dobbiamo inventare, ma un comportamento: dobbiamo dichiarare una guerra feroce alla corruzione e alle menzogne, contro le finzioni e i falsi che non esitiamo a spacciare per autentici. Vere condanne, altro che creare una nuova parola. Che verrà perciò creata e applicata e disattesa, dal made in Italy della politica nostrana, così fedele alla tradizione.