Diario di un ginocchio

In un momento in cui pare che mi succeda di tutto (e non il meglio, tra l’altro), pur non essendo ottimista, penso di trovarmi in un periodo della vita piuttosto interessante. Però sono in ginocchio, ma non  – appassionatamente – “in ginocchio da te”, come morandianamente sarei pure disposta a cantare: no!, ho proprio un ginocchio che fa capricci, che s’incricca, schiocca, s’inceppa sul più bello e fa un male bestia.

Pare siano in tanti, quelli che possono provare empatia per le circostanze che mi affliggono, perché pare proprio che, passati i cinquant’anni, le ginocchia mostrino il logorio della vita trascorsa sotto forma di doloroso (dolorosissimo) tormento. Murakami Haruki mi capirebbe benissimo, ma leggere uno dei suoi libri, da cui trapela la passione per il camminare (con tutto ciò che il camminare comporta: una meraviglia di sensazioni e di bellurie dello spirito e del corpo) in questo momento mi farebbe sentire ancora peggio. Se vivo in campagna, è proprio per goderne gli orizzonti; non gli orizzonti  – alti e imperiosi – come visti dal SUV, ma quelli che accompagnano una sfrizzolante camminata, con una serie di sintagmi in cui si scandiscono e susseguono i paesaggi che scorrono: tutti i paesaggi, quello più vicino, in cui leggere le erbe, gli arbusti e il verde che si attraversa, nella sua immediatezza; poi quello che si intravede oltre – vigne, olivete, boschi, strade – e poi il cielo, così variabile ed espressivo.

Niente, camminare diventa un miraggio, farlo a passo svelto, nel freddo che sta piegando la stagione al suo destino invernale, è una vera utopia. Non mi resta dunque che camminare con la mente. En garde!  DSCN8122

La terza quercia

 

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Non ho idea del rumore – avrà fatto un tunff sordo e pesante – e nemmeno del perché sia successo. Però è la terza quercia che cade, ed è quella che cadendo ha fatto più scompiglio; e ha dato maggior dispiacere. Un dolore che all’inizio ho avvertito poco, sollevata dal rischio corso da Francesca che ha evitato per un soffio di pochi secondi di restare sotto al tronco (era proprio lì, nell’auto  facendo marcia indietro); sollevata dal fatto che il tetto non sia caduto in testa a Margherita – in casa ha visto una folata di polvere e calcinacci volare sotto il naso -, emozionata dallo spettacolo dell’immensa chioma riversa sulla casa, quasi in un saluto d’addio, dopo qualche secolo di ombra e cinguettii. Ma ora la vedo ammucchiata, come resti di una persona, come una compagna di vita stramazzata di colpo. E la mancanza comincia a farsi sentire; cambiano i rumori circostanti, è cambiata la luce e durerà il passare di tutte le stagioni il cambiamento.

Un anno fa, quasi preciso, arrivava il Morino giù per la strada dei frontisti e mi fa “uhm questa quercia la vedo male …”. Il Morino è caduto prima lui, della quercia, anche lui di colpo e repentinamente. Se l’aldilà degli alberi è il fuoco, ne avrà da raccontare questa bestiona, a chi siederà intorno a quel focolare. Sarà pura poesia, mentre a noi tocca affrontare il prosaico.

Pasta e Fagioli a Milano

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Lascio questo cielo mutevole e un po’ esibizionista, per quello di casa mia – più vasto e pallido e più abituato all’indifferenza degli sguardi -. Uno scenario per gente che era abituata all’understatement … modi di pensare e di essere un tempo venati da calvinismo, intrisi di voglia di non apparire. E’ una pasta e fagioli a suggellare la cena familiare, di famiglia larga – ma non allargata – con tre generazioni presenti, in una casa che è stata abitata soprattutto dai miei genitori e che trattiene, negli stipiti delle belle porte vecchie e nelle crepe del pavimento ‘seminato’ inizio novecento, ricordi di loro genitori e nonni, e di guerra, e poi del dopoguerra cittadino con poco cibo e ancora meno fantasia, di me bambina e poi fanciulla e poi ragazza un po’ ribelle.

La pasta e fagioli è assai saporita e viene da luoghi diversi, lontani e vicini. Montevideo, la repubblica Centroafricana, Genova e il negozio bio lì vicino. E’ fatta con semplicità e molta sicurezza, dalla nonna di mia nipote – l’altra nonna (“quella vera” dico sempre tra me e me) – una che mantiene il coraggio di vivere ben vivo e alto, che non ce l’ha mai avuta facile, ma con imperterrita eleganza.

C’è una bella atmosfera: la cena è breve e le emozioni sottaciute; le novità sono parecchie, la vita scorre e si sviluppa, come un ruscello che s’ingrossa e si adatta a sassi e foglie e erba. Mi risuonano in mente i versi di una poesia dedicata alle mie figlie, da un amico poeta che difficilmente tornerà a visitarci e a cui penso spesso.

Francesca y Margherita  /  Margherita y Francesca.  /  No seràn las homigas  /  negras de las acequias,  /  ni las blancas polillas,  /  ni el verde de los pinos.  /  Serà la mano firme, la mirada  /  alerta, vigilante, el corazon cuidando  /  la mano, la mirada  /  para volver a casa.  /  Y allì reunidos todos  /  hablar de los caprichos  /  del azar y còmo  /   someterlos por amor  /  al flujo de la vida. 

Merenda con Gioia

Ritrovare un mondo – che ti ha nutrito di conoscenza negli anni più intensi della vita – può diventare una merenda lunga un pomeriggio intero di una giornata lombarda, sotto il cielo vasto di cui ogni tanto mi dimentico. E gli ingredienti non sono solo la zucca, le verdure e i pesci, né si limitano al vino – anonimo e meraviglioso pinot nero vinificato in bianco – né alle stoviglie, al giardino più lombardo che mai, agli uccelli che chiedono di partecipare. E quello che mi torna in mente – nitido e commovente – è un mondo intero che non era solo della mia gioventù, ma quella di una città che si apriva alle arti, alle lingue, ai segnali, al lavoro intelligente delle mani, ai grandi fotografi, a Bruno Munari, a Sottsass, ai grandi architetti che non erano star, a Fornasetti e alle mostre del Caravaggio e degli astrattisti; ai grandi temi della conoscenza che entravano nei dialoghi della gente di tutte le età e di tutte le appartenenze. Una Milano che viene appena prima di quella cantata da Lucio Dalla, troppo civile e aperta al nuovo per sospettare che sarebbe stata annientata dall’invasione del nullificio.DSCN8104DSCN8108DSCN8114DSCN8110 DSCN8107Merenda con Gioia è anche ritrovare una grande artista figlia di quegli anni e scoprire che tutto è rimasto intatto, che sotto il cielo di Lombardia dove pullula di tutto, è rimasto un angolo di ricchezza vera, fertile, feconda e piena di energia. DSCN8100

Fade

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Un bel po’ di anni fa, mi sono ritrovata mentre dicevo, a un uomo a cui ero stata legata da affinità che credevo (anche in quel momento) uniche e irripetibili – un’alchimia perfetta -, parole che sorprendevano anche me mentre le stavo pronunciando. Mi ero scoperta, dentro, una dissolvenza di sentimenti, come un prosciugamento, non drammatico, né polemico: come al cinema durante una dissolvenza eloquente, quando la storia che stai guardando e ascoltando (e magari anche vivendo, tanto ti sei immedesimato), ti propone una virata bella, grande, profonda. Qualcosa che comporta un cambiamento di sguardo; proprio come accade quando finisce un innamoramento e non inizia l’amore, ma ti accorgi che si è spenta silenziosamente quella luce. “To fade” rende l’idea, di quello che succede in una giornata d’autunno; è un verbo che suona onomatopeico, che assomma in sé la nebbia (reale o metaforica) che sale e vela luoghi e pensieri e il sentimento che si prova, mentre spariscono i luoghi e i pensieri.

 

Manca il Vino

Per capire come (non) funziona l’informazione in Italia, basta osservare come viene trattata la notizia dei numeri che Morgan Stanley ha dato a proposito di produzione e consumo del vino nel mondo (globalizzato) e le prospettive che ne ha tratto. Che ne ha tratto per lo meno il Corriere della Sera, con il suggestivo articolo di Luciano Ferraro, nel cui titolo appare subito la magica locuzione “bene di lusso” …

Sempre di più, sfogliando e leggendo la stampa del nostro paese si capisce come essa sia lo specchio del nostro decadimento; ci si accorge che abbiamo tracciato una serie di sentieri molto interessanti; abbiamo vantato le nostre peculiarità nazionali – creatività, manualità, buon gusto, istinto per il bello, ingegno e tutti i talenti che sono corollario, aura e cuore del made in Italy – e mentre le vantavamo mettevamo all’incanto la nostra passione, svenduta, in cambio di un’abbuffata di lenticchie (dove questo nobile legume rappresenta la metafora del soldo), nella scia dei capitani di sventura che hanno razziato il paese, scarnificandolo di tutto ciò che era nato dall’ingegno italiano e poi consolidato dal lavoro di milioni di ex contadini inurbati e divenuti operai e tecnici di talento, artigiani e artisti che hanno lavorato sodo – per decenni – che hanno investito nel proprio lavoro creando piccole imprese, benessere per sé e ricchezza smisurata per alcuni cosiddetti imprenditori guastati poi dalla finanza, corrotti dalla politica, assaliti dai manager privati e di stato, completamente fusi nei rapporti incestuosi con partiti e cordate, alla rincorsa dei soldi – per sé – completamente dimentichi dell’interesse del paese …

Perché l’articolo sul vino (che manca) mi dà questo senso di frustrazione? Erano mesi, forse anni, che Angelo Gaja (con acribia andava sottolineando tutti i punti della questione e scrivendone, nelle occasioni perfette), parlava della produzione insufficiente. E mi aspettavo che, andando oltre la constatazione che mancando il vino i prezzi sarebbero saliti, dopo il lancio di Morgan Stanley, il Corriere guardasse un po’ più in là del mero fatto economico.

Per esempio:  che cosa significa questo, per il nostro paese?, quali prospettive, quali orientamenti ci pongono questi dati? E rispetto alla situazione mondiale, i nostri vini che spazio avranno e presso quali pubblici, in quali paesi? Che cosa si può ipotizzare – oltre alle solite formule “fare squadra”, “promuovere sinergie”, eccetera, per affrontare al meglio questo imminente futuro? I nuovi paesi produttori – sia dal versante scientifico-tecnico, che per gli aspetti culturali – che prospettive avranno sul mercato mondiale? Saranno negli stessi nostri segmenti, oppure parleranno di (produrranno) ‘altri’ vini, con altri posizionamenti, altri approcci.

Mi sono posta queste domande e poi ho girato pagina ed ecco che ‘inciampo’ in un altro titolo: ” Famiglia, cibo, musica… siamo così affini all’Italia …”. E’ un coreano dal volto intenso che parla, dalle pagine della cultura. Il mondo gira: abbiamo insegnato a dare valore alla propria storia, ai propri luoghi, tramite i prodotti nati per parlarne (altro non è il made in Italy!!) e mentre ci siamo persi di vista, gli altri hanno imparato a mettere a frutto il proprio talento (e la propria cultura), con la passione che noi abbiamo perso, che si è smarrita per strada; siamo diventati quelli che per comunicare che fanno qualcosa, lo dicono (e basta). Siamo ormai solo parole al vento. Manca il vino e non ci occupiamo della struttura di questa mancanza, ma osserviamo che esso diventa un bene di lusso; quindi qualche altro “politico” diventerà vignaiolo …2013 vendemmia