Nell’iperspazio e dintorni

Il momento più bello è quando ti svegli. Non importa se hai grane da sciogliere o se, almeno in apparenza, tutto filerà liscio. Sei vivo. Ma non è come essere vivi o essere morti; è una terra di nessuno, anzi di molti moltissimi (pensieri) che entrano, escono e a volte permangono. Un viaggio di pensieri, anche catastrofici, anche in potenza drammatici. Ma tu sei in un altrove che però è lì: sei nella tua mente, sapendo che ci sono gli iper vulcani, che ce n’è uno, inesorabile, che sta lievitando tutta la sua energia quasi sotto il tuo letto tiepido e confortevole. L’idea dell’Italia che si spaccherà, di una mega Pompei, del mare che si inventa una nuova strada per dividere lo stivale in due, di una vera ristrutturazione dell’Europa fisica, come se fosse una grande costruzione di sabbia in riva a un mare cosmico, su una spiaggia infinita, sotto l’urto di un’onda di lava, con le interiora della terra che fuoriescono cambiando i paesaggi così noti; non ha il sapore del disastro, perché è un pensiero che scorre e si sovrappone a ricordi teneri e piacevoli di un tempo solo apparentemente finito. Quel tempo non è finito perché ce l’hai vivo nella mente. I volti incredibili e quasi inguardabili dei mostri che forze perverse hanno mandato a sventolare bandiere aliene – giovani, vecchi, islamici e no: tutti deformi e orrendi – ti vengono in mente; non sei sveglio, ma nemmeno dormi. Ti viene da pensare che è una congiuntura strana: uomini orrendi che fanno cose terribili e stupide e il risveglio di un immane vulcano che ribalta tutto. Però puoi vedere come se fossero lì uomini e giorni, e ancora il mare quello praticamente sotto casa, che ora ha un odore diverso, quasi puzza, o così ti sembra. Tieni da parte la tenerezza per il risveglio vero, nella realtà per come riesci a toccarla, a vederla bevendo un caffè. Arrivano a tenerti compagnia frotte di morti che morti non sono, perché ti raccontano ancora giorni e musica e vino. Poi magari squilla il telefono e tra uno squillo e l’altro, prima di deciderti e rispondere, visualizzi il primo incontro con il vecchio paese dove sei andata a stare, la gente e gli alberi, soprattutto gli alberi; la luce che cambia, i pomeriggi d’estate e il caldo assurdo di tanti anni fa (“qui non piove mai” ti dicevano, e ora “non piove più”, ripetono, e infatti nevica). Così si viaggia in un mattino d’inverno, con i giorni che si sfogliano via veloci e tu che cerchi di entrare in una porta dell’iperspazio per avere un’idea (no, delle elezioni no, non voglio sapere, è tutta una finta; un gombloddo, direbbe mio figlio irridente), un’idea di come vivranno, come vivremo. Con il fiscal compact, magari, tra un anno. Allora sei sveglio.

Il Cielo sulla Vigna

dscn0974Ci sono svariati modi di invecchiare … qualche settimana fa un cretinetti mi chiedeva su questo blog, commentando anonimamente (ovviamente!) un post che non ricordo più, “ma non invecchierai mai come tutti?!”. Beh certo che quelli che hanno l’occasione di invecchiare si portano addosso un bel fardello. E’ un processo (talvolta lungo) complicato e faticoso; ma d’altra parte – come pare abbia detto Woody – l’alternativa è davvero drammatica.

Ma non sto borbottando sul tema, né tantomeno facendovi un pistolotto promozionale per l’ultimo libro di Pansa (lui mi è simpatico, ma ho letto un’anticipazione del libro e mi sembra piuttosto la scoperta … del viagra!); perché nei tourniquet degli anni che passano, se devo fare un bilancio tra gioie (esagerando) e tormenti (esagerando, ma un po’ meno) non posso lamentarmi.

Forse perché l’abitudine all’empatia, acquisita lavorando in pubblicità, mi fa continuamente alzare gli occhi dal mio piatto per guardare ciò che succede altrove, soprattutto negli immediati dintorni e poi nei dintorni dei dintorni. Questo gesto abbastanza compulsivo (ma – giuro – totalmente privo di quella curiosità morbosa che mi è capitato di osservare o ascoltare in alcune persone), mi costringe a placare certi  sentimenti (e la mia innata impazienza) nei confronti di tutto quello che tarda ad accadere, come se gli appuntamenti posticipati fossero una iattura. Così, mentre freno lo scontento per cose che non girano come potrebbero (o come vorrei), mi capita di ritrovarmi toccata nel profondo dal dolore che all’improvviso piomba nella vita di qualcuno.

Un bel modo per iniziare impeccabilmente una giornata – in cui poi può accadere di tutto – è quello di dare ascolto al “Grande Piede” e lasciarsi scaraventare fuori casa, molto presto al mattino. (Si può camminare a qualsiasi ora del giorno, ma farlo mentre ancora un po’ di sé è immerso nel sonno è più emozionante). Camminare vuole anche dire guardarsi intorno, per me anche guardare il cielo, che mi piace e mi interessa molto. Fossi nata in altri tempi forse avrei imparato a leggervi dei messaggi e sarei diventata un’aruspice, ma vegetariana e incruenta

Oggi il cielo, di primo mattino, mi ha offerto visioni più tecno e assolutamente consuete e banali: quello nella foto lì sopra è il Roma Milano, e però vederlo mentre si cammina sul margine di una vigna, immersi nel clima pre-vendemmia che si respira (e si annusa) da queste parti in questi giorni, mi ripropone una volta di più com’è diversa la vita – nello stesso istante e in luoghi non distantissimi tra loro – tra persone in situazioni diverse.

Ho divagato un po’, però oggi è passato un mese dal terremoto del Lazio e mentre guardavo il cielo da quella vigna, stamattina, pensavo a quelli lì, ad Amatrice e nei dintorni, che il cielo se lo sono visto piombare addosso …

Ciao cretinetti, lo vedi che invecchio anch’io?!

 

Il verde è un bambino che cresce e cammina

DSCN5996

Può essere l’andamento di una strada – magari un cammino, come questo, che viene da molto lontano nel tempo – oppure un orizzonte in cui occhieggia il mare luccicante, ma solo se lo sai vedere. O come la luce svela nuovi luoghi che credevi di conoscere già molto bene, o il disegno dei campi delimitati dalle siepi della sapienza contadina (quella, nata dall’esperienza, che impedisce alla terra di franare). Innumerevoli sono le meraviglie che uno impara a ri-conoscere, vivendo in campagna.

E non è che in città ci sia poco da vedere, o che quello che ci circonda – in città – sia meno interessante, piacevole, bello. E’ che in campagna il mio occhio ha imparato a rileggere la forma della terra, incitato dalla luce che muta di continuo – nell’evolvere della giornata, con le mutazioni del tempo, con le durezze climatiche -. Qui il verde è il grande maestro di un racconto in cui domina la scena, mostrandoci quanti verdi può essere e diventare, e possono anche essere verdi blù o rossicci, o stinti e dilavati fino a essere bianchi o di quel turchese trascendentale, quasi imprendibile. Perché il verde è, in realtà, un colore che non sta mai fermo, come un bambino che cresce …

Ma naturalmente non c’è solo il verde – lo cito oggi, perché a maggio non se ne può fare a meno, con le vigne che splendono di verdi di tutti i colori – trasparenti e scintillanti – ci sono i colori delle altre stagioni, autunni ancora verdi, ma con campi biondi o rossicci… e qualche volta – d’improvviso – tutto bianco, magari con qualche albero carico di caki che rosseggiano, come un improvviso musicale.

Dopo molti giorni in campagna, ad annoiarsi nel verde silente, uno torna in città e si ritrova a guardarla con occhio più allenato a ‘vedere’; perché stare in campagna ti abitua all’osservazione. Può sembrare banale (forse è banale) questa constatazione. Lo è meno se uno si immagina con quali occhi viene guardato (e visto?) il paesaggio. Ne hanno parlato poeti (quelli che con la poesia mangiano), addirittura citandolo come fonte di ispirazione (Yves Bonnefoy, a proposito del paesaggio italiano); è il grande protagonista della letteratura, il paesaggio fa parte della narrazione – è il contesto in cui si svolge una storia -; ne parlano da sempre tutti quelli che gli riconoscono un ruolo centrale nella loro esistenza (viviamo vite più influenzate dal paesaggio di quanto ci rendiamo conto). I soli distratti sono sempre stati i politici, almeno quelli italiani. Se ne stanno interessando ora e ciò dovrebbe spaventarci molto; io non ho una grande opinione dei personaggi che animano (si fa per dire) la scena politica; mi sembrano opportunisti, di solito interessati a una propria sistemazione economica, ma soprattutto mi appaiono a volte come persone di cattivo gusto, persino ingenue, nei confronti del paesaggio.

Un esempio che mi viene in mente è la scoperta della via Francigena, da parte della politica e dei suoi uomini. Una buona politica sarebbe quella di coinvolgere il cosiddetto territorio in un gesto – camminare – che ha un senso profondo, per ogni viandante; far capire a imprese agricole che chi cammina in campagna è una persona che ama il paesaggio ed è alla ricerca di valori. E’ proprio questa ricerca, di sé, di un senso, di un obiettivo, che ha spinto gli uomini, nei millenni, ad andare a piedi attraverso terre che ha guardato e che ha cercato di ‘vedere’, trovando ospitalità o attenzione, o cura …

Invece la via Francigena della politica implica infrastrutture: non sono più i piedi di mille e mille uomini a tracciare il cammino, bensì attrezzi condotti da uomini che lo spianano. Non è il bastone che scosta il cespuglio, ma è la cesoia della pubblica amministrazione, che costruisce pure i ‘parapetti’ alla via, costringendo il viandante a percorrere una strada prefigurata da altri, non ritrovata mentre si cerca sé stessi. Ma questo i politici non lo sanno, perché cercano di far lavorare uomini che devono poi mostrare la loro gratitudine …

Questa fregola di ‘normalizzare’ tutto è tipica di gente che ha bisogno di tenere il futuro sotto controllo, che pretende di eliminare l’imprevisto – che è invece ineludibile – dimenticando che anche le montagne si muovono (l’Himalaya addirittura di due centimetri l’anno) – perché il futuro non si può contenere, né recintare, né pianificare. Bisogna ‘vederlo’, mentre si guarda, più in là del proprio naso.

Provisional, temporary, fleeting

L’urgenza mi è venuta risvegliandomi, sotto un foglio leggero, fragrante dei noti odori di stampa, che sono cambiati nel tempo.  La sensazione di provvisorietà – simultanea a quella di impellente necessità di permanere (per cosa, per chi, non si sa bene) – è stata così acuta, che per riavermi e capire dov’ero (chi ero, per fortuna, continuavo a saperlo), che ora era, e perché provavo quel senso di smarrimento nello spazio e nel tempo, ho dovuto abbarbicarmi alla lettura di un paio di articoli del noto quotidiano sotto le cui pagine mi ero arresa al sonno.

Tornavano in fila, prima il pallido volto di Dell’Utri fotografato in aereo, nel viaggio di ritorno dal Libano, poi DeRita e il titolo del suo libro che voglio leggere, subito dopo, da un altro quotidiano, il titolo “un bulletto a Palazzo Chigi” con le illazioni plausibili su prossime gesta del governo; quindi le nuove tendenze fusion di una creatrice di moda italo-haitiana, poi ancora il libro di Arbasino (che vorrei leggere, ma per ragioni molto diverse da quelle per cui voglio leggere quello di DeRita); intanto mi sfuggiva il titolo (ma anche l’argomento) di un piccolo (solo questo ricordavo) terzo libro che mi voglio procurare, ma insolvevano mostrine e divise degli alti ufficiali della GdF. Pensieri guizzanti che si intrecciavano, appena prima di sparire per sempre, in una breve nuvola di polvere – poof! – : eppure avrei dovuto acchiappare almeno le frange di un cambiamento (che c’entra!: il cambiamento è continuo!) che riuscivo a vedere, fotografare e – se fossi riuscita ad aprire bocca in tempo – a sintetizzare con poche parole in cui inserire un pensiero di speranza.

Sulle parole che ogni tanto mi sfuggono (mentre la necessità di usarle con precisione mi incalza) avevo semi-perso una battaglia poche ore prima. Mentre sedevo a tavola con l’altra nonna della mia più recente nipote, parlavo della California e della luce speciale che la illumina, dandole quell’aria biondo miele che nella mia immaginazione bagna un po’ anche tutto ciò che da lì proviene. Ma le stavo già raccontando (c’eravamo appena conosciute) anche il mio timore del terremoto; poi nel tentativo di smussare un po’ la rozzezza che mi pareva di mostrare (a una che abita a San Francisco vai a dire che quando sei stata in California avevi paura del terremoto!) avevo raccontato anche le mie paure dei vulcani, durante una vacanza a Pantelleria, soggiungendo poi che bisognerebbe accettare il fatto che siamo … e lì mi ero inceppata. L’aggettivo inglese non mi veniva, ma nemmeno riuscivo a formulare nella mia testa l’espressione italiana, che mi si era invece perfettamente materializzata in questo risveglio, un ritorno che mi sembrava piuttosto l’anticamera di uno svanir per sempre …

Mentre cercavo l’aggettivo, annaspando più del solito perché mi mancava anche il corrispettivo in italiano, una specie di molla dentata fatta di luce aveva cominciato a ruotare e vibrare tra me e quello che raccoglievo con la forchetta, nel piatto. Ho uno scotoma, in questo momento – e non sapendo dove piazzare correttamente l’accento, in inglese, ho ripetuto la parola variandolo -; l’ho detto ad alta voce immaginando che fosse ben più complicato comunicare questo disturbo così particolare da descrivere, rispetto all’aggettivo che mi mancava per affermare un sentimento che mi pareva significativo per la nostra conversazione … ah, io invece sono colta spesso da una terribile emicrania oculare, mi ha risposto con naturalezza, e ho capito che aveva capito che cosa mi affliggeva in quel momento. E’ stato allora che John, intuendo quello che mi sforzavo di dire, ha detto che may be ‘provisional’? No, e comunque anche se gli somiglia non è un sinonimo, in questo caso; allora ‘temporary’ – ritenta John, mentre a me scappa da ridere malgrado lo scintillio ossessivo dello scotoma – no, non proprio, noi non siamo ‘temporary’, non è questo, ma io continuo a pensare a quale diavolo sia l’aggettivo italiano che definisce così bene il sentimento che mi sembra importante chiarire alla mia consuocera, che ha un’aria mite e distesa (nonostante il jet lag) e nel frattempo mi porge l’insalata.

Ho la sensazione che sia successo un black out, qualcosa che sta mettendo fine alla mia capacità di pensare, non provo le consuete sensazioni che caratterizzano il sabato, mi sembra di boccheggiare, balbetto, mentre lo scotoma svanisce com’è venuto, ma l’aggettivo continua a mancarmi.

Decidiamo che mi telefoneranno più tardi, per combinare un appuntamento, vado a casa e mi metto a leggere semisdraiata, lasciando libera la mente di spegnere il giorno;  mi addormento così profondamente da svegliarmi senza capire dove sono e che ore sono: provo un senso di ‘provvisorietà’ così acuto, da farmi temere per la mia salute. Poi mi viene da sorridere ritrovando l’aggettivo: provvisorio, siamo provvisori!, eccolo lì in tutta la sua semplicità.

Il telefono suona e mi avvisano che qui vicino piove in modo violento; raspano alla porta è la micia di mia figlia che è venuta a cercarmi: sembra impaziente di rientrare, contrariamente alle scorse sere, quando ha scelto di starsene a vagabondare sui tetti del paese. Esco e mi accorgo del cielo, nero come raramente mi è accaduto di vedere. Sento scariche di energia attraversare l’aria e penso a noi e alla nostra vacillante permanenza.

Camino Real

Fiumi di inchiostro, ma anche di lacrime, lacrime di nostalgia, per un tempo che visto da qui pare ormai irraggiungibile. Un tempo che non tornerà mai più, nemmeno per i figli. Il terremoto in Messico, di cui ho sentito stasera alla radio, con Città del Messico già scossa dalla morte del grande Gabo mi ha fatto tornare in mente la sua raccomandazione per la scelta dell’albergo – “Macché Sheraton, porta ancora i segni dell’ultimo terremoto, ha crepe profonde sessanta centimetri; devi andare al Camino Real, è l’unico albergo sicuro, e ricordati la città è costruita sugli orti galleggianti degli antichi abitanti che vi coltivavano il mais, anzi il teosinte – l’antico grano basico (forse l’equivalente del nostro triticum progenitore del frumento) – ed è su quelle colture interrate che hanno costruito i grattacieli odierni”. Marquez mi guarda dalla maquette posata su una libreria qui accanto; capisco, gurdandolo, che sono troppo impressionata da questa morte divenuta il punto alla fine di una frase. Resta il consiglio: dormire al Camino Real, che è anche un bel nome, reale in tutti i sensi, anche quelli sconsigliati dal buon senso …

Camminare

DSCN9329DSCN9326DSCN9337DSCN9345DSCN9351DSCN9368DSCN9377DSCN9372Andare, un passo dietro l’altro formando un vasto cerchio molto irregolare; mai tornare sui proprio passi, non solo metaforicamente.
Guardare fuori per vedere dentro: verso l’Infernino è tutta una salita, ma è anche un viaggio nelle meraviglie. Mario e Laura non ci vengono da un bel pezzo – sono sicura che è lui che non vuole – ma qui è pieno dei loro sguardi e degli occhi che hanno avuto per questa terra. Mario mi ha insegnato a vedere oltre, Laura mi ha fatto capire che non c’è niente di male a puntare verso il meglio. Ma difficilmente torneranno da queste parti: si tengono al riparo dalle melanconie che potrebbero intaccarli. Intorno all’Infernino siamo cresciuti tutti un bel po’; tornarci ora – a parte la strada che ogni anno rimugina se stessa – è (anche) prendere le misure del cambiamento, ma invecchiare non ci mette al sicuro dai tormenti. Avevamo tutti contato di lasciare un mondo più intelligente con un po’ di bellezza per tutti…  Alberto Moravia, già ottantenne, ai tempi di una crisi in cui incombeva la minaccia di una guerra atomica aveva scritto che un conto è morire pensando che il mondo e gli altri vanno avanti verso un mondo migliore, quanto è drammatico invece andarsene con la consapevolezza che niente sarà come avevi sperato! Ma che c’entra Moravia con questa bella camminata, tra un podere e l’altro, di traverso a un bosco e accanto a una fonte, in cerchio verso il villaggio?

Annegare in un bicchier d’acqua, con una fetta di salame in mano

La chiamano “bomba d’acqua”, perché ormai ciò che conta è la parola – che fa audience -: perché i fatti li abbiamo ormai dimenticati, da tempo; non i fatti staordinari (che ormai si chiamano ordinariamente eventi, come se fossero attività spettacolari costruite per richiamare l’attenzione di un pubblico), tipo alluvioni, smottamenti, crolli, frane, sprofondamenti, eruzioni, allagamenti, terremoti, maremoti; ma penso proprio a tutte le attività quotidiane di manutenzione di un paese – il fare, appunto – che dovrebbe metterci al riparo dalle catastrofi da cui siamo quotidianamente colpiti. Riparare, pulire, rimettere in sesto, aggiustare, risistemare, restaurare, riordinare, ricollegare, consolidare: sono diventati verbi troppo umili per piacere a un mondo di cui leggiamo le gesta, qualche volta i gestacci, sui giornali o (chi ce l’ha e la guarda) in televisione.

Mentre la gente normale si accinge a rivoltare il cappotto (chi ce l’ha ancora), seguendo involontariamente le linee guida della decrescita (in)felice – così come ce l’ha ammanita il buon professore Latouche -, il milione circa di individui che vivono spensieratamente questa stagione di retroversioni, facendo affari d’oro alle spalle di un paese che pare un animale moribondo assalito da saprofiti, elabora progetti fantasiosi che solo tre anni fa sarebbero stati catalogati come assurdità impensabili.

Apprendo che pare si stia considerando di aprire un Eataly nel complesso del Santa Maria della Scala a Siena, dove i prodi amministratori senesi (e dintorni) non sono finora mai riusciti ad accordarsi per un progetto museale adeguato alla grandezza morale e spirituale del luogo. Se questa notizia sfiorasse anche solo da lontano la verità delle cose, sarebbe un rilancio singolare del pellegrinaggio sulla Via Francigena. 

I nuovi pellegrini (la parola intesa nell’accezione lombarda) verrebbero comunicati con l’opportuna fetta di finocchiona (fatta con maiali importati dagli allevamenti intensivi tedeschi), mentre il paese (la provincia di Siena come parte di un tutto) affoga in un bicchier d’acqua piovana DSCN8785

Il Corriere della Droga

DSCN5902Qui non siamo in Messico e i Narcos più o meno non si sa neppure chi siano. Qui anche le notizie arrivano un po’ smussate (col cappuccino, o il caffè, e la brioche). Ogni mattina, Luca ci porta la Nazione e la Gazzetta dello Sport che ci fanno sentire pienamente italiani: su la Nazione le notizie le devi leggere in filigrana, tanto riescono a essere banali; invece sulla “rosa” ci sono le notizie che contano, e che vengono lette (e commentate accuratamente) ogni giorno, con estrema attenzione. Sia mai che il campionato (mi scuso per la minuscola) fosse scosso da qualche inatteso brivido….

Meno male che c’è la televisione! Ce l’hanno tutti (no, io no, al massimo qualche streaming, ma molto raramente) e così si sentono ancora più pienamente italiani. Io me la faccio con qualche quotidiano, e con la rassegna stampa on line e finora anche con quella radiofonica. Ma da un po’ di tempo a questa parte penso con gratitudine a ‘maman’ che mi ha allevato nella sua lingua e comunque a entrambi i miei genitori che le lingue me le hanno fatte succhiare in luogo delle caramelle. Altrimenti proverei solo malessere per la banalizzazione che ci viene offerta dal giornalismo nazionale, apparentemente incurante dell’immenso macigno che sta sospeso sulle nostre teste.

Ma il villaggio non è abitato da ‘minus’: stamattina dal medico, in sala d’attesa, la gente era meditabonda. Ieri c’è stato il terremoto, lieve, ma l’epicentro era tra Montalcino e Buonconvento; non era per quello, però, che la gente era pensierosa. Una signora mi ha detto “mio marito pensa che presto ci sarà la guerra”. Guarda caso, recentemente l’ha detto pure Kissinger, che anche se non legge la Gazzetta dello Sport è uno ben informato. Ce ne fosse stato bisogno, avrei avuto la conferma delle doti degli abitanti: pure sensitivi e telepatici; magari fossero così lungimiranti i giornalisti (soprattutto quelli della Nazione)! Ma  lo sappiamo che la loro tastiera (la penna non usa più, da un pezzo) è strettamente vincolata agli interessi di editori (che da lungo tempo hanno interessi ben diversi da quelli dei cittadini).

Tutto sommato, non siamo in condizioni molto diverse dal resto dell’Italia, qui in campagna, anche se per andare a comprare un quotidiano (a parte i due di cui sopra) bisogna fare quattordici chilometri. Li faccio io – ogni giorno – e dato che non manca giorno che io vada “via”, da un po’ di tempo a questa parte mi faccio scrupolo di chiedere chi ha bisogno di medicine (la farmacia è accanto all’edicola, in qualsiasi direzione si vada); così qualcuno mi chiama, facendo lo spiritoso, “il corriere della droga”. I Narcos non c’entrano, e nemmeno la squadra narcotici, ma con questo nick name, gli abitanti svelano, ancora una volta, ironia e sensibilità. E pensare che quando il turista ignaro si arrampica quassù, dopo aver ammirato il paesaggio e il vecchissimo paese così ben tenuto, guarda con aperta benevolenza gli abitanti, pensando che essi vivano un po’ fuori dal mondo; invece qui non manca nulla. Oltre alla tv, c’è pure il “corriere della droga”!

Esondati e Offesi

Anche Montalcino – nelle sue parti basse – subisce l’affronto di un’esondazione, da parte di un fiume che lascia trasparire qualche malessere. I problemi stanno a monte, ovviamente, ma l’esondazione, gli allagamenti, lo straripamento, i disagi e le offese al territorio sono qui, al confine tra due province. Con l’acqua al segnale di piena arriva anche la risulta; insieme ai tronchi, alle ramaglie e ai detriti, ecco cinquant’anni di amnesia del territorio che vanno a sbattere contro i piloni del ponte sull’Orcia. Qui al confine tra Siena e Grosseto  salta all’occhio, l’inutilità di una discussione affinché prevalga una provincia piuttosto che un’altra. Non vorrei più vedere immagini come questa, non vorrei che distratti dalla prevalenza delle province non ci si accorgesse della prevalenza del cretino, così ben illustrata da Fruttero &Lucentini, antan, quando non ci eravamo ancora accorti che l’Italia ci si stava sbriciolando sotto i piedi.