Lente, lenta, lettera, lenticchia

dscn0909Lì dove sto è un posto dove potrebbero anche avvenire miracoli. Qualche volta è successo. Ne hai la sensazione in certi momenti, quando non c’è nessuno in giro a rompere il fiato della natura che respira e invia messaggi. Meno male che c’è lei, qui. Altrove c’è meno, ma uno si accorge meno di cos’è diventato il nostro paese. Altrove le cose si confondono un po’. Qui invece – quando ti abitui a capire da cosa nascono i comportamenti, i gesti, il modo di salutare – capisci tutto. Ed è come un “imparaticcio” del paese Italia.

“Imparaticcio” è una parola che non mi sentivo in testa da un’infinità di anni; risale a quando andavo dalle monache (parte delle scuole elementari, la prima classe delle medie, un anno di liceo dalle suore Orsoline, dove ho conosciuto Paolo VI). Imparaticcio è un ‘campionario’ di punti di cucito e ricamo che la piccola alunna esegue su un rettangolo di stoffa e poi replicherà, messi in bella, su tovaglie, federe o altri pezzi del corredo, durante le lezioni di economia domestica.

Perché lì dove sto – tornando all’imparaticcio come metafora – è come vedere, attraverso una lente d’ingrandimento un campionario di quello che non sappiamo di essere. E quando te ne accorgi è tremendo. (Forse per questo una volta la gente beveva così tanto da ammalarsi e morire; morire per dimenticare?).

La campagna è bellissima. La campagna è tremenda, perché se non parli con gli alberi, o se non leggi i giornali, al di fuori delle attività domestiche (per le donne o per i vecchi scapoli) e delle attività agricole, non ci sono attività ‘terziarie’, o se ci sono, sono attese da poche persone, e non hai nessuno con cui ridere. E ridere è importantissimo: soprattutto di sé stessi. Ma le vecchie massaie e gli operai agricoli non hanno voglia di ridere: gli operai per stanchezza e le massaie per disabitudine.

Oggi ho letto che gli organismi viventi al mondo sono per il 98%, o giù di lì, vegetali. Nel resto ci metti insetti animali uomini. Forse, lì dove sto, la percentuale da attribuire al vegetale sarebbe anche più alta: lì dove sto gli umani sono davvero pochi e più o meno consapevolmente te li ritrovi a portata di lente. Perciò capisci quando hai fatto qualcosa che al paese – cioè agli abitatori del paese – non piace, oppure non capiscono; capisci quando pensano che tu sei troppo assente, o troppo presente, o che sta cambiando qualcosa nella tua vita. Qualcosa a cui magari non riescono ad attribuire un significato.

Si chiama ‘controllo sociale’ ed è qualcosa che può assomigliare al mobbing, se uno non ha dentro di sé qualcosa di più di quello che è la quotidianità, intesa come mangiare, dormire, l’auto, (il vestito?), la messa (Messa), cosa ha fatto X.

Per riassumere: lì dove sto non c’è ironia, il sarcasmo regna sovrano. Una come me, che ha militato a lungo in pubblicità (quella vera, con il messaggio, la promessa, la reason why, il consumer benefit e – soprattutto – il tone of voice)  è abituata a dare valore all’ironia, che è lo zucchero che manda giù la pillola, e che è anche la ‘lente’ attraverso cui guardare la vita che scorre veloce.

Cenavo con una zuppa di lenticchie e pensavo alla vita che scorre veloce, mentre leggevo – sul Corriere della Sera – un’intervista a Bill Gates:” I soldi non mi interessano”. Ho fatto un salto sulla sedia chiedendomi ohibò che cosa ne avrebbero pensato, di questo incipit, lì dove sto …

La scema del villaggio

RSCN0577Trovo sul Corriere della Sera un articolo d’annata (1964) sul Ferragosto a Milano, a firma di Dino Buzzati. Mi torna in mente la sera in cui l’avevo conosciuto – Dino Buzzati -, a cena al Gourmet ristorante – evento, aperto in via Torino, a Milano, non ricordo più da quale società, in nome di una centralità dell’enogastronomia intuita con sagacia eccessivamente precoce da qualcuno di cui ho ricordi nebulosi. Il luogo era elegante, con tavoli rotondi, un po’ troppo grandi per una vera conversazione.

Ne scrivo perché tra i tanti intellettuali, saggisti e poeti, narratori e giornalisti che mi è capitato di incontrare per parlare di libri, Buzzati l’avevo incontrato per discutere di pubblicità e pianificare un strategia. A tavola eravamo in tre: Antonio Scanziani – nostro ospite e mio capo, nell’agenzia di pubblicità dove ero art director, Dino Buzzati e la sottoscritta. Oggi, mentre scorrevo l’articolo, pensavo al singolare modo di risparmiare del management del Corsera (stanno riempiendo, ogni giorno, pagine su pagine con articoli d’antan di giornalisti defunti) e mentre mi ripromettevo di smettere di leggere il vecchio quotidiano – soprattutto di acquistarlo! – mi è venuto in mente che dei tre seduti quella sera a cena (1968?) al Gourmet, ero l’unica superstite. Antonio Scanziani infatti è morto – lasciandomi delusa perché era figlio di centenari – qualche mese fa; in sospeso avevamo un incontro pianificato e rimandato negli ultimi anni, numerose volte.

Così, se non annotavo qui (e là) di quell’incontro, nessuno ne avrebbe mai conosciuta la ragione. Scanziani era un uomo straordinario; figlio di Piero – scrittore, saggista e uomo volitivo e coltissimo – aveva aperto (e qualche volta chiuso) agenzie di pubblicità, con soci (Claudio Maria Masi de Vargas Machuca e Bragadin) e senza soci. Aveva avuto (avevamo) clienti straordinari, creativi brillanti (tra cui la sottoscritta) e un intuito ineguagliato, prima durante e dopo di lui. Tra i clienti, l’immobiliare Pedroni, che stava lanciando Milano San Felice, progettata da Luigi Caccia Dominioni e Vico Magistretti. Ho ancora i lay out e le bozze di un corposo dépliant, datato ma storicamente prezioso, dato agli agenti che vendevano gli immobili ai milanesi più sensibili a uno ‘stile di vita’ futuribile, oggi imploso e riservato agli asiatici che lavorano nelle multinazionali della fottuta globalizzazione.

La cena con Buzzati era frutto della visione di Scanziani che lo aveva arruolato per scrivere una serie di articoli sul “vivere in città con il gusto della campagna”. E’ proprio così: sono passati quasi cinquant’anni da quella cena e oggi qualcuno usa lo stesso ‘claim’, anche se si sono ormai dissolte le ragioni per farlo.

Quando ho letto il breve reportage di Urbano Cairo che ora ha conquistato la maggioranza nel Corriere e mi è venuto in mente il primo pranzo (‘colazione’, diciamo a Milano) di lavoro con lui, diventato nuovo capo dei venditori di spazi pubblicitari dopo l’uscita di Lorenzo Pellicioli; ho ricordato anche la domanda che mi aveva posto, entrando quel suo primo giorno, nel ristorante della Mondadori, dove portavamo gli ospiti.

L’ho empiricamente ricollegata alla mia cena con Dino Buzzati e Scanziani, così tanti anni fa, perché Buzzati, pur essendo un grande, ‘non se la tirava’ come si usa dire e contribuì, con creatività e senso del marketing, a costruire una prima pagina de “Il Giorno” redazionale, per promuovere questo nuovo stile campagnolo in città (Caccia Dominioni aveva addirittura immaginato – e preteso –  un gregge pascolante al centro del complesso). Quanto a Cairo – di cui Berlusconi amava raccontare vita e miracoli (!), con particolari succosi -, quel giorno, trent’anni dopo la mia cena con Buzzati, entrando come mio ospite al ristorante Mondadori di cui dicevo prima, sbattendo le palpebre un po’ intimidito, mi chiedeva se “qui ci sono degli scrittori, seduti ai tavoli?”.

Ripensavo a questi incontri, e alla mia vita in campagna ricca di bellezze naturali e non priva di delusioni, alla mia pervicace e stupida attenzione per la raccolta differenziata, l’imbestialimento che mi prende constatando l’indifferenza verso la sporcizia che nasconde la bellezza delle pietre, il tappeto di osceni mozziconi di sigaretta che gli insensibili si ostinano a lasciare in terra, i disgustosi kleenex usati che si annidano tra le fresche erbe profumate, il pattume fisico e morale che pesa sull’anima di chi si ricorda di avercene una. Ripensavo all’assenza di idee e all’idea di assenza di pensiero che può cogliere a tradimento e ho capito di essere la scema del villaggio.

Se non sei sommelier

DSCN1117Se sei un enologo tanto meglio per te; sei probabilmente più famoso di un attore, ben presto ti chiederanno anche l’autografo, sei un protagonista della nuova stagione, della way of life più desiderabile – the age of wine (copyright Biasutti) -; sei l’uomo più invidiato, che fa il mestiere più desiderabile … A meno che ti sia successo un incidente di percorso con uno dei tuoi clienti, come ho letto oggi sul Corriere della sera, pagine di Firenze: “enologo fiorentino stalker, pazzo di gelosia ha minacciato una sua cliente, ed è finito in manette”. Così almeno c’è scritto sul quotidiano in edicola oggi.

L’ho letto con scarso interesse, un po’ impigrita dalla canicola, un po’ distratta da altre idee sul vino – più profonde e interessanti -, trovate altrove. Ma, possiamo rendercene conto se non viviamo nelle nuvole, non passa giorno senza una notizia sul vino, sia essa di economia o di consumo (cioè di vita quotidiana). E non c’è vita quotidiana senza vino (così pare), o senza considerazioni sulla cantina di questo o di quello. Perché non c’è questo o quello che non abbia vigna o (più probabilmente) che sia esente da passioni enologiche. Ci chiamavamo Enotria e sarebbe bene che tornassimo a quel nome (o dovrei dire denominazione?). Non si beve ‘un bicchiere di quello bono’, ora si degusta: un verbo che trovo impiccione e un po’ disgustante come il suo sostantivo. Ma critiche lessicali a parte bisogna prendere atto della tendenza. Se avete figli o nipoti badate che non si accasino con un astemio (con o senza apostrofo e nel pieno rispetto del gender, o no: fate voi), sarebbe una iattura, finirebbero fuori dalla commedia quotidiana. Che sia almeno sommelier, e poi può anche essere avvocato o ingegnere, o quello che il mercato del lavoro gli consente di essere, purché sia sommelier e allora il dialogo è garantito e la socialità pure.

E’ strano rendersi conto della centralità del vino vivendo in mezzo alle vigne; ed è ancora più strano accorgersene quando sei in città e la gente sa che vieni dalla campagna (anzi da uno dei luoghi più rinomati del vino). Strabuzzano gli occhi e vogliono sapere tutto. Una volta chi aveva “la casa in Toscana” era guardato con invidia e concupiscenza (ricordo bene l’autrice romana di un best seller famoso sollecitarmi imperiosamente di invitarla in Toscana); ora fa più colpo chi svela di abitare in mezzo alle vigne – per esempio – di Montalcino. Oppure accanto a quelle dell’Etna, o in Piemonte (o nel meraviglioso Friul). Ma Montalcino ha più successo sia perché c’è un ‘residuo’ di Toscana che affascina tutt’ora (nonostante una serie di fattori l’abbiano resa un po’ antipatica agli italiani), sia perché il paesaggio qui la fa da padrone, sia perché il Piemonte non ha ancora recuperato il suo carisma d’antan (difficile non lasciare il cuore intorno a Barolo); l’Etna – bellissima e smagliante – è lontana e pochi conoscono il Friuli e i verdi turchesi di quelle parti (che ho ritrovato citati in una tavola di Paolo Caliari – “nell’Orto di Getzemani” – custodita a Brera).

Faccio una scommessa: quando qualcuno scoprirà quel colore vorrà essere in grado di risalire a un vitigno che gli corrisponda e correrà a fare un corso di sommelier.

Leggermente

Mi piace questo avverbio; mi piace perché evoca la leggerezza (che io penso sempre nella sua accezione di levità e non di superficialità, come potrebbe anche essere intesa). Mi piace anche perché evoca la lettura – legger – e la mente, cioè un’azione, e una parte di noi, che sono indispensabili l’una all’altra.

Mi è venuto in mente (l’avverbio) leggendo (!) la Lettura (!!!) dorso domenicale a cui sono affezionata e che spesso preferisco al classico ‘domenicale’ del Sole 24 Ore. Perché a pagina 17 de La Lettura del Corsera, oggi, c’è il mio buon amico Giuliano Vigini che – come di consueto – dà i numeri, ovvero i numeri legati al mondo dei libri, che questa settimana, a suo giudizio, sono più significativi.

Non sto a riportarveli qui – se proprio volete conoscerli nella loro completezza, li trovate di certo sul sito del Corriere della Sera – perché quello che mi ha avvilito (una volta di più) è quello che essi raccontano: la cronaca di una nazione che non legge. Non legge i libri e legge sempre meno i quotidiani (solo il 47,1% un quotidiano una volta alla settimana; solo il 41,4% “un” libro nel tempo libero, in un anno).

Dato che sono una che legge – dall’età di cinque anni, quando mia madre mi regalò il mio primo libro – e che libri e giornali, ma soprattutto i libri, sono davvero per me all’origine della mia giornata, da sempre, mi domando quanto la mia mente possa essere diversa (o muoversi diversamente nei pensieri del mondo) rispetto a quella di un “Absolute non Reader”. Vivendo in un luogo dove la gente è poca (ma non distratta) e forzatamente ci sono ancora meno lettori, non riesco a risolvere il quesito. Tuttavia mi capita quasi tutti i giorni di recarmi al bar edicola (minimalista) e di incontrarvi gente (uomini perlopiù, come in un paese regredito, o mai sviluppato, in cui le donne è bene che stiano al loro posto: in casa) che si beve il caffè con cui inizia la giornata.

La scena è sempre pressoché identica: un paio di persone che non lavorano, o che si sono prese una piccola licenza dal posto di lavoro, che stanno sedute a due diversi tavolini, con innanzi a sé una tazza con cappuccino e stanno sfogliando un quotidiano (di solito la Gazzetta dello Sport), poi c’è qualcuno in piedi che beve il caffè e talvolta mangia una brioche. Ogni tanto, nel bar entra un uomo e acquista un quotidiano: raramente mi è successo di notare un uomo giovane, di solito sono delle tartarughe come chi scrive.

Lo sconsolatezza che mi coglie quando ripenso a questa scenografia è strettamente legata a due pensieri. 1- Come faranno le persone a farsi una propria opinione – non a proposito dei massimi sistemi, no! – circa quello che succede, a proposito dei problemi quotidiani, il governo, la società, i fatti di cronaca e di interesse sociale, cioè comune a tutti? 2 – Come faccio a sintonizzarmi con persone che hanno un retroterra così diverso dal mio?

Per mia indole non penso di dovermi uniformare ai punti di attenzione dei non lettori; mi accorgo sovente però che sono molto più ‘saputi’ di me rispetto a quasi tutto, politica inclusa e spesso al primo posto. Ma sono informati in modo diverso, più efficientemente ma in modo più uniforme. E’ la tv che genera il tv pensiero; un pensiero con il culo sulla sedia, che ti sale per le cosce e ti giunge rapidamente alla nuca. Lì pare che ci sia un dispositivo che lo accoglie in modo acritico, tepidamente e il pensiero diventa opinione come un cuscino su cui appoggiare il capo, e poi dormire tranquilli.

Perciò i numeri del mio amico Vigini difficilmente potranno migliorare, in futuro, perché un pensiero che ti aiuta ad assopirti, non può indurti a girare le pagine di un libro, o di un giornale. Una ginnastica molto, troppo, impegnativa, per le braccia.

Dittonghi

DSCN0925“Ma è solo un particolare a cui sei particolarmente sensibile, e attenta”, mi sono detta. E forse è così, anche perché con la moda dilagante – giovanilismo a oltranza – si è più portati a trovare una giustificazione a tutto, quindi anche alle porcate linguistiche che acquistano ogni giorno un po’ di terreno. Siamo allo sdoganamento di tutto quello che in una pagina ben scritta, in una lettera impegnativa, in un briefing, in una proposta pubblicitaria o in un documento strategico può essere l’elemento che toglie precisione,  svelando approssimazione o un uso nuovo della lingua.

Del resto mi sono ritrovata, giorni orsono, a interrogare in modo stringente (manco fosse un esame) un giovane  – ma non giovanissimo – amico, dotato di creatività, buona volontà e pure onestà (che di questi tempi non guasta) a proposito del significato del sostantivo ‘orpello’, che egli aveva appena utilizzato per definirenel discorso (che stava facendo) dei particolari ‘in più’, degli elementi di contorno che avrebbero dovuto avere la funzione di dare più sostanza a un certo progetto. La mia età e la stima di cui questo amico mi gratifica mi hanno permesso una puntualizzazione appassionata del significato della parola impropriamente usata, con altrettanto appassionato invito a lavorare su di sé (non è mai troppo tardi) per migliorare orale e scritto.

Vabbè è un po’ la mia mania?! Forse sì, ma camminando sulla sottile crosta che regge (ancora)  il format esistenziale in cui anche le generazioni più giovani sono cresciute, la lingua – intesa come strumento per esprimere con precisione i propri pensieri (e opinioni) ma anche per capire le intenzioni degli altri – è rimasta l’unico capitale che non può essere sottratto inopinatamente a ciascuno di noi: un capitale prezioso, accrescibile, esportabile, spendibile, esentasse. E foriero di soddisfazioni, ma talvolta anche di dispiaceri e di ansie e allarmi.

Sono stata colpita, oggi, dal Matteo Renzi che ho sentito dichiarare, con voce scandita e squillante, che bisogna scegliere di “essere” anziché di “avere”; credo fosse in occasione di un intervento a un raduno scout … Non mi ha colpito tanto la citazione (Erich Fromm), quanto il modo in cui è stata buttata lì, certo non casualmente, da uno che bada soprattutto a “apparire”, non dissimilmente dal resto dello zoo della politica. E non cito questa terza (rispetto alle altre due) categoria perché il giovanotto in questione veste Scervino e dintorni, ma  perché l’apparenza invece riguarda proprio l’uso delle parole, che egli declassa a slogan, appropriandosene e appiattendo i significati.

Ma torno al mio sconcerto iniziale nato dalla prima pagina del Corriere della sera di oggi, dove leggendo una recensione di Aldo Grasso, mi sono imbattuta nel seguente ‘a capo’: cinete / atrale. E’ la seconda volta che mi capita (ho l’occhio da linotipista), sempre sul Corriere e in poco tempo, di trovare un dittongo spezzato per andare a capo (per il mio professor Pinchetti sarebbe stato un sacrilegio) e sono stata tentata di darne la colpa alla Fiat e all’uso strumentale che essa fa della stampa, un contesto in cui la lingua ha la stessa funzione renziana, ma poi ho concluso che questi sono solo segnali. Sono i segnali della fine del mondo in cui anche i miei figli sono nati e cresciuti. Un mondo in cui il linguaggio aveva un senso umano.

Brunello on the road

La giornata è frizzante con pochi gradi in meno, rispetto alla solita temperatura tiepida di questo pseudo-inverno; un bel po’ di gente sta concludendo l’ultima giornata di Benvenuto Brunello, dove sono stati consumati tutti i riti dovuti. Un giro di boa annuale per rassicurare gli animi, un vero e proprio esame di maturità che alcuni svolgono da privatisti. Per tutti una data da segnare sul calendario.

Leggo un articolo sul Corriere della Sera in cui si danno un po’ di numeri sull’andamento dell’occupazione in agricoltura. Ne hanno parlato in occasione del 32° convegno internazionale sull’agricoltura biodinamica che per la prima volta vedo recensito su cinque colonne in un quotidiano così conservatore e ligio alle ortodossie. Avrei molti commenti, ma preferisco uscire per una camminata e mettere alla prova il mio titubante ginocchio.

Camminare vuol dire apprezzare il mondo circostante; mi succede persino a Milano o in altre città, mi capita nelle periferie industriali (ormai dismesse) alla Mario Sironi. A maggior ragione una camminata è quanto di più godibile nella campagna molto pettinata e ammansita che mi circonda … “Coltivare in modo etico per creare lavoro e qualità” è all’incirca il titolo del Corriere e penso che se lo hanno scritto è perché c’è già una filiera di interessi pronti a trarre profitto e vantaggi da questo modo nuovo che nuovo non è. Qualche tempo fa parlando con il sindaco di questo paese gli dicevo che sarebbe un colpo grosso fare di Montalcino un’enclave del “bio”; non è un’idea (solo) mia, sono ben più di dieci anni che ne parlano i produttori di Brunello che hanno scelto la via della naturalità, ma certo che se tutta questa zona fosse ‘organic’ sarebbe la prima al mondo a compiere una scelta così netta e così piena di futuro. Il premio sarebbe un balzo della reputazione e del fatturato complessivo, per non parlare dell’attrazione che una scelta così radicale eserciterebbe sul turismo di alta qualità (e sugli investimenti).

Un po’ immalinconita dalla consapevolezza che qui non basterebbe il mitico “nudge” per mandare in porto una scelta del genere, perché mancano proprio i presupposti per  un’evoluzione di quella portata (che farebbe epoca e incoronerebbe Montalcino e il suo vino in modo definitivo e clamoroso), mi concentro sulla luce che illumina le cose e le creature, rendendole uniche ed effimere allo stesso tempo.DSCN8916DSCN8918DSCN8919DSCN8922DSCN8925DSCN8927

Una camminata ti salva la vita

Mentre ancora smaltisci il piccolo turbamento per la fine dell’ora legale, a cui ti eri faticosamente assoggettato; mentre altrove celebrano i riti che devono incrementare la benevolente attenzione dei media, mentre rifletti che sì, ‘sta Italia davvero vogliono mandarla a rotoli, e ti vengono in mente tre articoli letti su tre quotidiani diversi e tutt’altro che sintonici tra loro, mentre pensi che ancora una volta la meteorologia diventa la metafora dei tempi che corrono, cammini. 

E un passo dopo l’altro stemperi le ipocondrie che assalgono gli umani – movimiento dichiarava Helenio! -; e muoversi (anche solo un braccio: sì anche lei che mi guarda in cagnesco) ti rende relativo nei confronti del mondo; figurarsi poi quando i passi si sgranano in mezzo a colori – non ancora sontuosi – dell’autunno che scalderà cromaticamente le nostre vite, obbligandoci altresì ad accendere il riscaldamento. L’ora, finalmente (anche lei) illegale ti mette ancora lievemente in sobbuglio, ma che belli i colori, che bella questa “valle di lacrime” che quando ci cammini dentro ti strappa un sorriso, lieve.

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La Danza immobile della Finanza

I ricchi, quelli veri, possono essere molto simpatici – soprattutto quando lo sono in misura tale da far parte di un mondo totalmente alieno, in cui tutto avviene diversamente e molto facilmente -, invece il giornalismo prono nei loro confronti è molto meno attraente. Questo mi è venuto in mente, l’altro ieri, leggendo il Corrierone e rammaricandomi sentitamente per un articolo che sta al vino come i racconti di certi ‘reportage’ di guerra scritti in albergo stanno al sangue che si versa nelle battaglie dove si muore.

Così, dopo aver incontrato per la prima volta Piero Palmucci, nell’ormai lontano 1995 (esattamente sabato 24 giugno 1995), agli inizi del suo faticoso e appassionato (e appassionante) lavoro, e dopo averlo reincontrato e frequentato negli anni, fino a diventarne in un certo senso amica, sono rimasta esterrefatta nel “ritrovarlo” (insieme all’uomo che con il suo “senso del Sangiovese”- Giulio Gambelli – l’aveva indirizzato e sostenuto e fatto crescere) raccontato implicitamente come uno che dato “il microclima, il terreno, la posizione, …” ben indovinati, si era ‘ritrovato’ a produrre un vino formidabile…

E’ proprio questo giornalismo che riduce il vino famoso a una perla rara che uno molto facoltoso che fa tutt’altro può semplicemente comprare, perché con i soldi si può fare. E aggiungo per chiarezza: va benissimo che un ricco alieno acquisti questi beni: spesso poi le cose procedono come si deve, perché spesso i ricchi sono anche molto ambiziosi e perfezionisti. Tuttavia il vino non è – da quello che osservo, conosco e so, da qualche decennio – solo una sala d’attesa. E’ lavoro – tanto lavoro – è gente capace che scruta la terra e la capisce, è rischio (quando una grandinata, una stagione storta, un incidente di percorso mettono a repentaglio un’annata), è soprattutto talento e passione; ed è un peccato che chi si mette a raccontare Re Brunello (e non il Re dei vini, perché esistono anche altri reami), si incarti davanti a una montagna di soldi – fino a darne conto al lettore (parliamo di vino?) – anziché davanti alla complessa storia di Piero Palmucci, alle sue visioni e alle sue fatiche e al racconto della scontrosa passione di quell’uomo (Gambelli escluso in quanto c’entra solo con il suo personalissimo rapporto col fare vino di Piero).

E, naturalmente non c’è (ancora nei suoi vini) solo il Palmucci, ma penso ai tanti piccoli viticoltori, alle grandi famiglie che nel vino ci stanno da sempre, e penso anche ai grandi proprietari che sono mille miglia distanti dai primi, ma che della poetica del vino fanno altrettanto parte. E’ la conoscenza di questo variegato mondo che può migliorare la tipologia dei consumi del vino, e nel contempo, la comprensione di quel “lavoro”(!) e del nostro tessuto paesaggistico e perciò produttivo. Non il capitalismo che quel mondo se lo incastona nella corbeille dei successi mondani: e, ribadisco, senza alcuna pre-riserva nei confronti di quel capitalismo (quando ha fatto i soldi facendo). Il vino è importante per il nostro paese; la ricaduta mondana è una spolverata di belletto su un mondo vero, complesso, profondo quanto la terra.

E’ questo giornalismo di avant’ieri, così lontano dal lavoro e così incantato davanti alla ricchezza, che allontana la gente dal (vero) mondo del vino, un mondo importante che, in questo scorcio temporale così strano, con guerre sull’uscio di casa e con la finanza che governa gli umani e tra un po’ ci dirà anche a che ora si fa la pipi, ancora esiste, costituisce un principio di realtà, ed è – posso assicurare: io che di ricchi buoni e cattivi, banali e coltissimi, ne ho conosciuti un bel po’ e da molto vicino – più affascinante del denaro, addirittura irripetibile. Tant’è che chi il denaro ce l’ha, ne spende un po’ per comprarselo. Il mondo del vino è un mondo infinitamente più attraente e dinamico e battagliero e reale della sala d’attesa dorata descritta sul Corsera: si vende la terra, si vendono i muri, si acquistano vigneti e annate, si acquistano persino uomini di talento, ma non si compra la passione, né la fatica di fare, né la poetica del vino. Che sono un po’ le forche sotto cui passano tutti gli uomini (e ovviamente, le tantissime donne!) del mondo del vino, anche quelli che non vanno in prima persona a zappare la vigna. Ma questo la proprietà del Corriere della Sera non lo sa, intenta a seguire la danza immobile della finanza. lavoro finito

Salto de’ Tassi

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Per una volta i tassi non sono quelli con cui veniamo afflitti e ricattati quotidianamente dalla politica italiana ed europea ai suoi minimi. Per una volta questa è una buona notizia (GoodNews from Montalcino) e il salto è nella modernità; perché FranciBio è un assaggio di modernità, un frizzolo di diversità. E’ un qualcosa che rompe con le consuetudini, un po’ rigide e conformiste di questo luogo sopraffino che ancora (non è solo il mio parere) non si esprime al suo meglio, svelando tutte le sue sfaccettature. Bene questa è una ‘sfaccettatura’ che merita di essere registrata e sottolineata debitamente, e sarà fatto. “Salto de’ Tassi”, un po’ per gioco, un po’ perché bisognava dargli un titolo e Fabio Tassi ha fatto il salto giusto.

Da Franci Bio ci sono stata in un’occasione preziosa, venerdì scorso, con Francesco Leanza che presenta e parla dei suoi vini e del suo fare vino. Vent’anni fa, più o meno, Leanza è stato il primo a lavorare la terra, a fare una vigna, a produrre il suo Brunello, in modo naturale, con uno sguardo che partiva dalla passione per quel lavoro e per il Sangiovese, e – non certo da ultimo – per Montalcino. A Francesco Leanza devo gratitudine, perché la sua testimonianza, con le mani sporche di terra, ha incoraggiato molti a seguire il suo esempio. La forza del pensiero che ha messo in quello che faceva e fa, con talento e passione ha rotto schemi e concrezioni. Una persona e uno sguardo che non possono non piacere. Soprattutto dopo aver assaggiato i suoi vini! DSCN6933

Mi dia un Etto di Paesaggio

Sì, paesaggio ma non troppo. Un etto basta e avanza: è giusto quello ‘zic’ che serve a “fare business”, un’espressione che sto incominciando a detestare; non per moralismo nei confronti dei danée, degli affari, cioè del business di cui prima, ma perché in questa fase delicatissima, in cui chi pensa e legge e riflette dovrebbe aver capito che valorizzare non vuole dire tradurre in cartamoneta, ma significa proteggere, riguardare, rivedere i criteri di convenienza a lungo termine, senza – ovviamente – trascurare il lavoro e le sue remunerazioni. Invece il paese sembra abitato da pappagalli orecchianti, pronti a dire la parolina giusta, quando si pensa che sia quella che “fa fare business”. La parolina, ma nulla che vada oltre; e invece è vero che “basta la parola”, ma basta ad andare “là”! DSCN5991

Così, dopo il super qui e il super lì, dopo i lunghi anni di ginnastica sulla “qualità” e sull'”eccellenza”, la campagna nostrana scopre il paesaggio, cioè scopre sé stessa. Qualcosa che, nei secoli è stato nel cuore e nella mente di poeti e musicisti, alle spalle di madonne e altri santi, nell’idea di un mondo intelligente e colto (che non vuol dire libri letti, ma gente che pensa!), in cui l’agricoltura “produce” il paesaggio; e quanto più è bello il paesaggio prodotto, tanto più è buono ciò che l’agricoltore produce.

Diamo il benvenuto ai nuovi adepti del paesaggio, e speriamo che non lo pensino come nell’immagine qui sopra: qualcosa da citare, da da tenere in un recinto di comodo, affinché non rompa le scatole a chi “deve fare business”. Perché il paesaggio – ce lo ha spiegato uno dei massimi poeti viventi – è dentro di noi e produce, sì: produce pensiero e civiltà.