Lezioni di Giapponese

Il mio primo incontro con il Giappone risale ai tempi del liceo, anche se l’iconografia giapponese per me era riconoscibile sulla confezione di “Fleur de Rocaille”, il profumo di Rochas usato da mia madre quando ero bambina che annusavo di nascosto.

(Avevo già letto Mishima, al cinema avevo visto L’arpa birmana – Biruma no tategoto – piangendo lacrime amare: il Giappone era un mondo su cui l’America aveva gettato due bombe atomiche.) Il liceo, a Brera, era contiguo all’accademia di belle arti, già a quei tempi frequentata da stranieri attratti dalla fama dei maestri che vi insegnavano – Marino Marini, Pompeo Borra, Achille Funi, Guido Ballo -, e Brera, con il Jamaica e mamma Lina, Fiori Chiari, le sorelle Pirovini, le due strepitose cartolerie, la Scala, il Corriere, e le gallerie d’arte, era un polo magnetico della cultura internazionale. Hideo Hikeda era un giapponese del nord, beveva moltissimo vino (quel vinaccio che noi studenti bevevamo allora), era bellissimo, molto esotico e bravissimo fotografo: divenne ben presto il beniamino di noi pivelli milanesi, insieme alla Claudine che veniva dal Belgio, con le unghie laccate, il rossetto e un’aura di eleganza a noi sconosciuta.

Un Giappone molto più tradizionale entrò a casa dei miei genitori con Sanae Ando,  collega designer, nell’avveniristico ufficio sviluppo de la Rinascente dove un destino molto benevolo mi aveva offerto la prima occasione di lavoro in un ambiente che si ispirava alla ‘scuola di Ulm’. Per l’occasione, Sanae aveva indossato il kimono e viaggiato in tram (extracomunitaria ante litteram) nel gelido Natale milanese, accolta dai miei come una figlia, pensando alla sua lontananza da casa (conservo ancora alcuni dei suoi doni – piccoli capolavori dell’artigianato giapponese – che ci portò quel giorno).

Un’altra tappa del mio viaggio giapponese era stata più traumatica – imparando le tecniche per cadere – nelle prime lezioni di judo del maestro Takero, un campione che aveva aperto la prima palestra per l’insegnamento delle arti marziali in una Milano che si apriva a un cosmopolitismo senza scivolare nell’esotico. Per qualche anno mi sono procurata una serie di lussazioni che hanno segnato inesorabilmente le mie spalle, ma migliorato il mio umore interiore. Avevo già incominciato a usare Mitsuko, un profumo di Guerlain che nel ricordo si avvicinava molto a quello usato da mia madre, che nel frattempo era diventato introvabile. Un libro ereditato da Albe Steiner(repertorio delle simbologie giapponesi), la prima Pentax, le amatissime carte di riso stampate a mano, un ventaglio di carta rosso e oro, le kokeshi, il Giappone e la sua mostra, organizzata a la Rinascente: se guardo indietro nella mia vita c’è più Giappone che America.

Per questo, quando Hiro è sbarcato dal treno, mi sono ritrovata nel suo abbraccio e nelle sue risate. Come naturali erano i commenti sorti dalle situazioni un po’ paradossali, misurando i contrasti, nell’incontro tra occidente e oriente: visioni, modelli, interiorità, psiche, stili, colori. “Un modo diverso di pensare a dove andremo …”, commenta pensieroso.

Una lingua da guerrieri, il giapponese, con un fondo di crudezza coraggiosa, con inchini che ne sono parte integrante. Un Oriente lontano dalla Cina, un confronto DSCN2336da cui quest’ultima esce con un’immagine un po’ kitsch. Così Hirotaka, davanti all’insegna del “Bar Sayonara” mi dice, convinto: “è certamente di un cinese”, e invece – macché! – era un dopolavoro di Prato …

Un incontro a Montalcino

DSCN2515Non solo vino, “quel vino”, mitico, spesso straordinario, talvolta sublime. Se scrivo di un incontro a Montalcino, l’associazione è immediata, invece l’incontro è quello fotografato qui sopra. Un incontro un po’ ‘giapponese’ – forse penso così, per via delle mie passioni (Hiruki, Banana, Mishima e le loro suggestioni di un modo diverso di guardare le ‘cose’)-. No, niente animismo, né ombre o magìa, forse solo un pizzico di oriente che si insinua nel mio occidentalissimo (e un po’ rigido) modo di pensare: un oriente necessario, per i vecchi, massimamente per i vecchi occidentali – abituati a reagire e ad agire con schemi obsoleti -; ma in realtà il mio pensiero, incontrando questo ramoscello portato sui miei passi dal vento gelido che soffia sul primo giorno dell’anno nuovo (spingendolo a forza, mi pare, sulla terra) è stato molto paesano. Un ricordo della recentissima povertà degli abitanti di questo angolo famoso della famosissima Toscana.

Il ricordo me lo suscita proprio questo fuscello da niente e di nessuno. “Eh no, se stava su una proprietà – per vasta che fosse  – raccoglierlo era rischioso, perché il proprietario, o uno dei suoi famigli, aveva da ridire: era suo”. Durante una delle innumerevoli camminate domenicali nella campagna, in compagnia di qualche camminatore locale piuttosto colto (e piuttosto riflessivo), incontrando pezzetti di legno, pigne, frutti selvatici, fichi maturi (quando è la stagione), asparagi selvatici, e tutte le piccole grandi scoperte che si fanno (e che si impara a vedere, andando a piedi), ho avuto questa rivelazione (per me stupefacente, ma poi acquisita e ben digerita).

Fino a qualche decennio fa – si parla del dopoguerra, abbondantemente dopo -, in campagna non circolava denaro, piuttosto ci si arrangiava; i bimbi e i ragazzetti, oltre a lavorare molto precocemente, quando girellavano, avevano sempre cura di tornarsene in casa con legnetti trovati,e altri piccoli beni, utili per accendere il fuoco (Gazprom e Putin non erano ancora stati inventati), o per insaporire un pasto. Ma guai se la cerca avveniva su proprietà privata: si rischiava, mi è parso di capire, anche qualche manata pesante …

Mi è già capitato di riflettere sul significato sociale, ma anche etico e spirituale, di questa realtà che in superficie ora è inintelligibile, ma che (re)esiste nel DNA di tante persone, cresciute dentro questi pensieri che talvolta hanno tarpato il meglio della loro intelligenza – che spesso fa capolino in quello che dicono e nel loro sguardo – e della loro sensibilità.

Mentre mi chinavo per afferrare il ramoscello, prima di pensare che non ho fuoco, in casa, ho cercato di immaginare come avrei fatto a portarmelo via senza farmi cogliere sul fatto dal proprietario del terreno su cui stavo camminando. Zen? No, empatia (o allenamento).

Spaghetti, pollo, e il gusto di un Bongusto diverso

DSCN3090senza tronchetto che Natale èChi se lo ricorda Alfredo Bongusto detto Fred?! Con la sua Frida (t’aggio voluto bene), la rotonda sul mare, dove ho ballato anch’io (e patito una congestione epocale), ma soprattutto gli “spaghetti, pollo insalatina (e una tazzina di caffè)” di un’italietta che pensavamo di aver lasciato alle nostre spalle… e invece riemerge davanti e intorno a noi, senza la poesia di quegli anni, ma come una specie di immiserimento collettivo, che ha poco a che fare con i soldi e molto con la tv becera e regressiva, con la politica che chiede al popolo di essere sempre più bue, con un bel pezzo di paese sbocconcellato da casette e fabbrichette, condoni e sanatorie, incurante e incapace di capire che cos’è la bellezza e dove stia la bontà.

Anche ieri mi dicevano “ma com’è bello, ma com’è buono; com’è tutto affascinante, qui da voi; che bel paese l’Italia, da noi hanno distrutto tutto…” 

Ma non mi lascio incantare da questo bel paese che si accontenta di ciò che viene lasciato agli occhi e ai piaceri del gusto oppure dai buoni pensieri che la terra – che ancora profuma – sa suscitare. Perché accontentarsi di bellezza e bontà sufficienti, quando esse potrebbero essere smisurate?

DSCN1574DSCN0769DSCN1762DSCN5846DSCN0770DSCN1548DSCN5866DSCN5873divoro anche la salviail cappone di Carlo e la mia mayonnaiseDSCN6167pinci al pluraleDSCN1508