Non sono la sola ad aver traslocato dalla città per vivere in un luogo di mirabili paesaggi. Anche se molti, magari, possono essere indotti a pensare che un trasloco da Milano a Montalcino, potrebbe essere stato stimolato dal vino Brunello, che a Montalcino nasce e diviene (ma non è così).
Non sono la sola ad aver fortemente desiderato e poi pianificato questo viaggio ideale; ma sono tra quelli che l’hanno pensato, sentito e realizzato in tempi non sospetti, quasi controcorrente, mentre l’inclinazione generale era quella di cercarsi una casa al mare. E non siamo pochi ad aver fatto questa scelta. Anche se parlare di paesaggio – fino a poco tempo fa – era un po’ come parlare di ‘lettura’ negli anni sessanta del secolo scorso: un argomento da salotto, da ‘signore bene’, qualcosa insomma di cui si poteva raccontare, anzi meglio chiacchierare, bevendo un tè, tra gente che non ha niente di urgente o di concreto da combinare.
Di paesaggio si è parlato, un po’, come di un derivato dell’ambiente o di un suo corollario – il che è vero solo parzialmente perché sono due concetti diversi –. È successo tra i “verdi”, intesi come partito, come movimento e come modo di sentire; ma lo sguardo ambientalista – rifiuti, qualità dell’acqua, energie alternative, ecologia – è di solito prevalso.
Si parla raramente di paesaggio nei mondi che più ne trarrebbero vantaggi – quello del vino, ma anche di altri prodotti agricoli felicemente trasformati nel nostro paese – e quello del turismo, che ha girato il suo sguardo piuttosto verso le città d’arte e/o la disseminazione di beni culturali nel territorio. Nel caso del turismo, sono convinta che le varie autorità e istituzioni non si sono (ancora) occupate di paesaggio anche perché non si capisce come il paesaggio possa essere l’oggetto di un “biglietto da pagare”, non ha un ingresso, come un museo…
Nel caso dell’agricoltura di qualità – vino, olio, formaggi, legumi e altre meraviglie –, dove operano coloro che il paesaggio l’hanno creato nei secoli, l’estraneità, anzi, l’ostilità a questo argomento, io credo, è strettamente correlata proprio al fatto che il paesaggio, nato dall’agricoltura, ne è continuamente influenzato. E il paesaggio agricolo italiano, che è ancora più suggestivo grazie alla ‘maglia piccola’, ha tutto da perdere quando le colture diventano ‘mono’ e diventano più estese (per quanto il nostro territorio lo consenta poco, date le caratteristiche orografiche).
Forse solo la pianura padana trae suggestione dall’intervallarsi di pioppeti (ordinati e geometrici) con grandi campi coltivati a granturco a qualche foraggio, o altro. Ma anche lì, l’estensione è limitata dalle dimensioni di una terra con insediamenti, confini, realtà sociali e storiche che sono cresciute finora con modelli nostrali. L’agricoltura italiana – quasi cenerentola senza principe – non può certo ‘competere’ con i parametri più ligi allo “sviluppo”, così com’è inteso, di solito, dagli economisti.
Ma non sono forse proprio lì i nostri vantaggi competitivi? Nelle estensioni piuttosto piccole, nei terroir raffinati e nei prodotti esclusivi e, di conseguenza, nei paesaggi che hanno meravigliato intere generazioni di intellettuali, di gente colta, di artisti? Non è che questo insistente ritornello – “le nostre imprese (agricole) sono troppo piccole” – segue ciecamente il modello di pensiero, superato, del ‘grande è bello’? (quello stesso pensiero che faceva dire a un amico economista che a Montalcino “bisognerebbe pensare a delle fusioni tra imprese agricole, bisognerebbe che i vigneti aumentassero considerevolmente le loro estensioni, perché così si potrebbero ottenere notevoli economie”).
Fino a qualche anno fa si pensava raramente a tutto quello che l’agricoltura implica; fino a tre decenni orsono il cibo non era nemmeno messo in relazione alla terra, figurarsi al paesaggio. Ora, se ne parla sempre di più, e se ne parla perché in qualche ragionamento – qua e là – si comincia finalmente ad agganciare il paesaggio a dei valori economici (i soli che mi pare siano presi in considerazione).
È stata però una bella sorpresa, ascoltare il direttore di Avvenire (Marco Tarquini, che durante la scorsa settimana ha moderato tutte le mattine una delle principali rassegne stampa alla radio), parlare quotidianamente del bel paesaggio italiano e della sua fama, citarlo come valore nelle diverse declinazioni, trovare ogni giorno l’occasione per incastonarlo nelle notizie di cronaca, di politica, di economia spendendo parole autorevoli per portarlo all’attenzione dell’audience. Sentirlo ‘spiegare’ il paesaggio, raccontare perché è importante per la nostra vita, dire perché un bel paesaggio ci rasserena e aiuta a vivere meglio, mi fa pensare che saranno sempre di più quelli che si accorgeranno del suo valore. A poco a poco, molti si renderanno conto che la ricaduta economica è più veloce di quanto si possa superficialmente pensare e che un bel paesaggio è anche un bel pezzo di futuro.
Archivio mensile:Settembre 2012
La Fabbrica del Vino
Ogni tanto qualcuno salta su a ricordarci che il cibo non si produce in fabbrica: di solito è Carlin Petrini che scrive per sottolineare quello che tutti sappiamo, o meglio, che tutti dovremmo dare per scontato; che invece scivola via tra le parole d’ordine del mercato, della politica, della finanza. Mi hanno colpita le immagini della vendemmia, mentre ero fresca delle parole di Marchionne – uomo di poche parole, però esiziali -. Mi ha lasciato trasecolata la faccia di Monti (nella foto di fine incontro Fiat), accartocciata come quella di certe foglie delle viti che hanno esaurito il ciclo vegetativo. (Non è una critica al look di Monti, ma all’accenno di smarrimento che mi è parso di scorgere in fondo al suo sguardo). Due Italie, sembrerebbe, assorte in questi giorni in due mondi tra loro remoti, eppure accomunati dai gesti del lavoro.
Sì, il lavoro: come non pensare – intensamente – a quelli che l’hanno perso, alle fabbriche chiuse o socchiuse, a un paese che sta perdendo i gesti del lavoro, a suon di vaghe parole. Profuma vagamente di rivincita, o forse solo di riscoperta (quand’anche fosse…) la vendemmia. Un lavoro incerto, per definizione, dove il tempo la fa da padrone, un padrone che somiglia proprio a un dio che è più promettente di Marchionne.
C’era una volta Milano
Una telefonata fa ricca la giornata. Una telefonata con chi ha condiviso una bella fetta dei tuoi anni, un po’ d’avventure pubblicitarie (pubblicità di quella vera, pensata, mica quella delle newsletter casalinghe); mettiamoci pure uno sfrizzico di “Milano da bere”, anche se non usa più (ma piacerebbe molto a tanti), ecco una telefonata così, mi appaga. E sì che, pure vecchia e parecchio auto-da-me, non sono mica una che si accontenta…
Perché ogni tanto, in questa meravigliosa campagna, dove tutto è un cinema – in tutti i sensi – , dove ogni tanto smarrisco me stessa e perdo i miei punti di riferimento nella invadente gutturalità degli uomini e nello stravolgente paesaggio che non la smette mai di incalzarti visivamente, ho bisogno di mettere a fuoco pensieri e sentimenti.
Allora telefono, e dall’altra parte ho sempre la fortuna di ritrovarmi. Oggi con l’Alba, quella con cui ‘abbiamo fatto la pubblicità’, negli anni d’oro, quando tutti sapevano chi era Jerry della Femina e ancora ci si ricordava del “villaggio globale”. E mentre parli, misteriosamente ti si riannodano i fili con affetti e facce, con luoghi condivisi e libri letti. Tutto al costo di una sola telefonata: spuntano progetti, soluzioni ai problemi, prospezioni, …una telefonata come il condimento sulla giornata. Una sola telefonata all’Alba.
Moschea nel vino ovvero mosca nel latte
L’apparire fugace di colori cari all’Islam dipinti nei vani degli usci della moschea di Sant’Angelo in Colle ha lasciato pure la sottoscritta un po’ perplessa.
Credo di non essere sospetta (anche) di antipatie per il mondo arabo e per l’Islam: ho letto il Corano, gli arabi non mi suscitano particolari timori, conosco un certo numero – tra di loro – di persone perbene, mi piace la loro lingua e m’interessa la loro poetica. Tuttavia passeggiare per il paesello – quanto di più italico e toscano si possa immaginare – e trovarsi invece i segni di una cultura così ‘altra’ rispetto a quella locale, mi ha fatto riflettere. Giusto che chi crede nell’Islam abbia la possibilità di esercitare la propria fede, ma come mai questo bisogno di “segnalare” la presenza di quel culto, anche all’esterno?
Dopo il souk serotino che ho criticato qualche settimana fa e dopo aver appreso che alcuni concittadini islamici picchiano la moglie (se è vero, ecco un’abitudine che li assimilerebbe ai maschi nostrani!), questi colori mi sono sembrati un’intrusione quanto meno stilisticamente impropria. Non che noi non si commettano frittate paesistiche macroscopiche, ma forse avremmo bisogno di esempi da imitare, non di alibi ai nostri difettucci nazionali. Più che una “moschea nel mondo del vino”, questa mi è sembrata una mosca nel latte!
Se penso alla gente che pensa
Nessuno più fortunato di chi ha potuto respirare e vivere quella Milano a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta.
Quando il centro piccolo della città era gremito di intelligenze, di gente che guardava al futuro con gli occhiali bifocali della cultura: uno sguardo al valore dei grandi, un’apertura all’universo mondo, con cui Milano in quegli anni ha collegato l’Italia. Bruno Munari ed Enzo Mari; Pietrino Bianchi e Gillo Dorfles; Ugo Mulas e Alfa Castaldi; i Borletti e i Brustio; Giulia Crespi e il Mattioli alla Comit. Il negozio Olivetti e le gallerie d’arte; Brera e il Parini; Augusto Morello e Lora Lamm; Max Huber e Albe Steiner; Marino Marini e Achille Funi; e poi Crippa, Dova, Piero Manzoni, Chighine, Mario Dondero… la lista dei nomi sarebbe lunghissima da perdercisi dentro.
Se penso alla gente che pensa, non posso che pensare alla Milano di quegli anni e tornando a Milano, in questi giorni, andrò a vedermi la mostra di Maria Grazia Varisco, alla galleria Permanente, in via Turati, per ritrovare i segni e i volti e i pensieri. Della gente che pensa.
La Gaja vendemmia
Ricevo (bontà sua) periodicamente, da Angelo Gaja delle note, dei comunicati, dei press, che spesso mi condisce e arricchisce di notiziole e chiose addentellate che sono (per la sottoscritta) anche più sapide dei comunicati a cui fanno corollario.
Oggi mi è arrivata una nota sulla vendemmia che mi conferma la lucidità dell’uomo più sagace tra quelli che abitano il mondo, variegato e non sempre amabile, del vino.
Lascio stare il commento telefonico già avvenuto, ricco di scoppiettanti annotazioni angeliche, che a me incompetente hanno socchiuso finestrelle e porticine, svelandomi un continente che andrebbe esplorato da penne e computer ben più strumentati di quelli miserrimi della sottoscritta.
Ma non posso non prendere atto che, a fronte dell’incapacità generale di dialogare in modo maturo e complesso su uno dei temi più inebrianti del mercato – il vino, appunto! -, Angelo Gaja si dimostra l’unico player in grado di comunicare, non solo con l’inevitabile competenza che gli viene dall’essere il protagonista più notevole, ma anche con l’occhio lungo e il cinismo intelligente indispensabili a chi da sempre arriva in groppa a un cavallo bianco.
Tanti leggeranno (altrove) il testo a cui mi riferisco, ma mi chiedo quanti – tra gli innumerevoli interessati – saranno in grado di rilanciargli la palla in modo adeguato. Le nostre vigne hanno bisogno di più cultura – quella vera che nasce dalla capacità di ognuno di noi di coltivare la propria storia -.
Sono forse troppo Gaja? Non so: da sempre l’intelligenza e la capacità di confronto mi affascinano, più di qualsiasi buona bottiglia.
Tammuriata per il nostro futuro
In un contesto in cui il silenzio della politica sull’agricoltura e sui temi a essa legati – economia, alimentazione, sviluppo, qualità della vita, produttività, turismo, lavoro e (last but not least) paesaggio – appare impressionante, è bello constatare la rinnovata attenzione del Comune di Montalcino ai lavori del Laboratorio Internazionale di Storia Agraria e al Premio Città di Montalcino per la Civiltà Contadina – nato dallo stesso pensiero per la terra, con l’obiettivo di coinvolgere un pubblico più vasto -.
Gli spettatori che domenica scorsa, nel tardo pomeriggio benedetto dalla pioggia, hanno partecipato alla tredicesima edizione del premio, sono stati a loro volta premiati dalla “lezione sul paesaggio”, tenuta dal professore Saverio Russo; una lezione magistrale da diffondere a tutti gli imprenditori agricoli (burocratico nome per un lavoro bellissimo!), che con la terra dialogano tutti i giorni. Chi c’era si è anche goduto l’esibizione verace di Marcello Colasurdo, una tammurriata senza senza filtro, per cantare gioie e dolori, amore e frenesie, pensando agli uomini e alla terra, senza pensare di fare spettacolo.
Una tammurriata apotropaica, in cui si ascoltava il battito del futuro; un battito per chiamare buoni pensieri e per ricordarci che il futuro è disegnato nella terra.
Il Prete bello resta con noi
Da milanese – e soprattutto da non credente, quale sono – non posso che piangere sul nostro meraviglioso Arcivescovo Martini, che ieri ha abbandonato questa valle di lacrime per recarsi altrove, cioè per restare con noi – nel cuore e nella mente di credenti e non – con il ricordo dinamico e vivo dei suoi pensieri, delle sue preghiere e del suo farsi ponte tra le diverse diversità, come immancabilmente trapelava dai suoi scritti, dai suoi discorsi e dalle sue perorazioni. Ho sempre avuto l’impressione che il Cardinal Martini, Arcivescovo di Milano (la seconda diocesi, per importanza, della Chiesa nel mondo), non piacesse ai baciapile e piacesse poco anche ai suoi colleghi e al suo capo. Una delle ragioni per cui si può immaginare che non piacesse sta nel suo modo di non essere speculativo; in altre parole di non giocare ai giochi del potere. Egli ha sparso amore, comprensione, pensieri buoni e grandi, e modernità. Grazie.