“Crisi è quando il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere …”

DSCN9741Scopro la citazione di Gramsci – che definisce la crisi come il momento (sospeso) tra il vecchio che muore e il nuovo che stenta a nascere – girovagando su FB. Curiosamente non è un italiano a riportarla (ma in italiano), bensì un francese, ferito nell’attacco a Charlie Hebdo e ‘risorto’ dopo essersi beccato tre pallottole jihadiste. Non ricordo il suo nome, ma mi ha colpito la fermezza e la lucidità del suo commento, che contiene la frase di Gramsci, e la usa per sottolineare questo momento cupo, di torbidi eventi e relative speculazioni, evidentemente tese a togliere spazio alle voci dei cittadini, più che a migliorare la nostra sicurezza.

Mi ha colpito questa voce perché raccontando tutto quello che ci imprigiona e schiavizza, praticamente elenca tutte le commodity, gli accessori, le tecnologie che costellano la nostra esistenza – anzi la trapuntano e la costringono a loro immagine e somiglianza – … e dentro alla cronaca ci sono tutti i presidi che ormai ci appaiono indispensabili (principalmente auto, digitale e telecomunicazioni) e mi par di capire che ciò che ci ingabbia non è la tecnologia, bensì l’uso che ne facciamo, banalizzandola e lasciando che ci renda più banali di quanto già non riusciamo ad essere da soli.

Immobilizzata da una gamba ingessata – e un po’ inferocita dalle limitazioni conseguenti – ho più tempo per pensare e sono anche incline a cercare consolazione riflettendo su eventuali vantaggi della mia condizione. Non che siano molti – anzi quasi non ne vedo, ma oggi la mia altrimenti magra e solitaria giornata è stata rallegrata dalla visita dell’amica Ilaria – che mi ha caricata in auto (ah ecco l’auto che serve, eccome!) – e da un cestino di soccorso alimentare di Paloma che mi ha donato una serie di cose buone (quelle che ‘non vengono dal mondo’, come recitava il pay-off della Kraft,quando la globalizzazione non era ancora nemmeno una parola).

Nel cestino (anzi sacchetto di carta riciclata), che Paloma ha riempito di cibo preparato da lei medesima, tra vasi e vasetti ho trovato anche un bel pezzo di pane (che ho fotografato e che vi propongo qui sopra), avvolto con cura e ben legato. Il pacchetto profuma intensamente (e forse oggi l’aria è più fina del solito perché è da stamattina che cerco gli odori che abitano la mia vita qui in campagna) e nella scia di quel profumo ho quasi visualizzato i germogli di tante novità, di nuovi sguardi e nuove interpretazioni … un modo diverso di stare nel mondo … Andrò a dormire con questo inizio di sogno e con la speranza – suggerita dal pane di Paloma – che qualcosa di nuovo possa trovare  una fessura per insinuarsi nella nostra vita.

Sguardo azzurro con sahariana

DSCN9704Lo conoscevo quando era ancora quasi sconosciuto, quando il design era un concetto (e una parola) da addetti ai lavori; quando l’Italia – come l’abbiamo conosciuta e incastonata nel nostro immaginario – era ancora in costruzione, quando Richard Sapper  (a due tavoli da disegno dal mio) riempiva lo spazio intorno a sé con l’energia smagliante e ottimistica di uno che stava per ridisegnare un bel pezzo del nostro gusto (lampade, telefoni, sedie, utensili di cucina, radio …). Al sesto piano de “la Rinascente”, di fronte a una prima pattuglia di guglie del noster Domm (quel de Milan), inondati dalla luce che anche a Milano – a dispetto degli increduli – c’è, ho fatto parte immeritatamente di un gruppo di grafici, designer, residenti e consulenti (tutti rigorosamente pagati in nero!) che davano forma al made in Italy, di cui allora non c’era nemmeno percezione … Bruno Munari, Enzo Mari, Albe Steiner, Max Hubert, Erberto Carboni, i fratelli Castiglioni, Mario Cristiani, Georges Coslin, Vuokko Eskolin, Harry Moilanen, Norbert e Ornella Linke, Verbena Rebora … e tanti altri che con vari incarichi, esterni e interni, facevano parte di quell’Eden della grafica e del disegno industriale pensato e realizzato da Augusto Morello (successivamente Presidente dell Triennale). E Giulio Carlo Argan veniva a raccontarci l’arte italiana, con seminari geniali mai visti dopo allora, un giovanissimo Umberto Eco passava spesso da quelle parti e le ore di libertà, a fine giornata, ci vedevano tutti al Jamaica (Giamaica) a bere un bicchiere di vino (in tempi in cui il vino era retaggio di ubriaconi). I fotografi – oltre al mitico Clari – erano Libis, Mulas, Aldo Ballo; Giorgio Armani era il visionario vetrinista de la Rinascente che contribuì a crearne lo stile.

Sotto la guida di Borletti e di Brustio, furono organizzate – una dopo l’altra – le mostre di Messico, Giappone, Gran Bretagna e India; con la vendita dei prodotti di quei paesi, importati direttamente, senza mediazioni pseudo globalizzanti che avrebbero potuto appiattirli o banalizzarli, asservendoli al gusto italiano invero assai provincialotto, a quel tempo.

Un bagno nell’intelligenza e nella visionarietà, sono stati quegli anni di lavoro: senza le mediazioni di interessi finanziari o dei banchieri internazionali; quelli che, per intenderci, pensano che con il denaro si compri tutto. Con il denaro – è vero! – si fa moltissimo, ma non si sostituisce l’esperienza, né si rimpiazza la creatività di uno sguardo che intravede che cosa l’Italia e le sue storie potranno diventare. Uno sguardo azzurro, con sahariana, come quello di Richard Sapper, designer italianissimo, con passaporto tedesco.

Kako di Capodanno

DSCN9696Come festeggiare questa ricorrenza senza farlo? Ecco, questo è il kako con cui festeggio il capodanno. Una festa che non amo e che subisco adottando un profilo basso e cercando di mangiare poco – cosa che per fortuna mi riesce abbastanza bene – . Quest’anno, con una gamba ingessata sono automaticamente esentata dai brindisi e dalle feste; anzi suscito pure un po’ di compassione, o almeno mi illudo di riuscirci …

E il kako che sto per mangiare è una vera chicca di bontà, è l’ultimo rimasto di una dozzina di frutti che ho colto e lasciato maturare in casa: una festa per gli occhi. Il kako viene dalla Costaccia, dall’albero dei Fagnani – c’erano una volta Lola, Primo e suo fratello; e prima ancora c’erano Rosa e Armando: ora c’è Luciano che l’ha ereditata, insieme alla mano per la terra e al gusto per coltivarla – ed è tutto un fluire di ricordi e associazioni suscitati da questo frutto così rustico e sottovalutato.

Il Luciano l’ho incontrato ieri, alla bottega del paese e gli ho fatto i complimenti per questi frutti così buoni e lui – pur guardando il gesso che mi fa zoppicare – mi ha detto di andare a raccogliere gli ultimi, prima che finisca la stagione.

Il kako, come i gatti, divide il mondo in due. Ci sono quelli a cui piace e quelli contro che gli trovano ogni difetto possibile. A me ricorda l’infanzia e un momento preciso dell’anno, quando l’autunno era inoltrato e l’ortolano da cui andava mia madre proponeva questi frutti polposi e la mamma mi spiegava come mangiarli evitando le parti opache che allappano: anche oggi seguirò i suoi consigli, ma la mamma avrebbe centodieci anni, se vivesse ancora. Anche per questo il capodanno non mi piace.

Perché non tutti sono come Gillo Dorfles che sta trasferendo sé stesso nei suoi dipinti e nei suoi scritti, quasi una transumanza in cui si smaterializza sul filo delle idee e riprende corpo e sostanza in un quadro. Chissà se a Dorfles piacciono i kaki.

Io ho imparato a condirli con un sorso di buon Cognac o con un passito, poi li cospargo di semi e diventano un dessert buonissimo. Ma il kako qui sopra me lo mangio liscio, così com’è, mentre penso all’albero e ai suoi bei colori. L’albero stracarico, non molti anni fa, davanti alla Costaccia, in una giornata di neve e di gelo era l’unica nota di colore nel paesaggio segnato dai filari neri delle vigne spoglie e tutti gli uccelli dei dintorni erano accorsi a cibarsi dei frutti arancione …