Ghirigori

Un’arancia sul tavolo
Il tuo vestito sul tappeto
E nel mio letto, tu
Dolce dono del presente
Frescura della notte
Calore della mia vita.

Non mi sono d’improvviso appassionata alle poesie d’amore; questa – brevissima -, il cui titolo è “Alicante”, straordinariamente viene bene anche tradotta in italiano (e Prevert è così: scorrevole e facile, come una canzone che parla di giovinezza), è anche un bell’esempio di leggerezza, di quella levità così poco praticata, nella gente di Toscana, che pare non coglierla nemmeno nei propri paesaggi. Ma non la riconosce – e perciò non ne fa uso – nemmeno per parlare di vini, di luoghi, di stagioni.

Per raccontare luoghi in cui, oltre a crescere alberi sontuosi e vigne famose, pascolano greggi, pochi armenti e qualche notevole maiale, si dovrebbe avere la mano leggera e l’occhio vegano; sì, anche (soprattutto) per raccontare cibi impegnativi a gente che la carne la mangia, ma sempre di più in punta di piedi, anche senza aver letto Safran Foer.

Non so se è a causa degli eventi o delle fiction (che ci propongono quantità industriali di sangue umano – al cinema e in tv) che abbiamo cominciato a chiederci come hanno vissuto quelli che mangiamo, in attesa di essere ammazzati; non so nemmeno se questo dilagare della dieta vegana (600.000 nuovi vegani all’anno, in Germania, negli ultimi tre anni?) influenzerà più di tanto il nostro gusto, certo è che una bistecca fotografata, oggi, assomiglia troppo a carne ferita con arma da taglio. Per propormi la carne in quanto cibo senza ricordarmi l’Afganistan, devi avere la stessa leggerezza di Jacques Prévert  quando evoca una notte d’amore in una stanza poetica.

Vaga il pensiero, come in un disegno di Saul Steinberg le idee escono simili a ghirigori che prendono forma nell’aria. Se fai un passo indietro rispetto alla realtà – come un pittore che osservi la propria tela – non puoi non chiederti come mai nessuno tenga conto dello scenario che cambia e della necessità di misurarne i cambiamenti in modo oggettivo e non attraverso le proprie impressioni personali, rivolgendosi a professionisti sicuri, a veri esperti a istituti di grande affidabilità.

La diversa (rispetto a qualche anno fa) percezione di una bistecca, che ora mi appare come “carne morta” – eppure non sono vegetariana! – non è un mio sentimento personale. Stiamo tutti cambiando sguardo, mentre tutto sta cambiando intorno a noi. Eppure sento (e leggo) ancora lo stesso argomentare di anni fa. Tutti immobili? Tutti incantati? Forse sì: a me sembra di intravedere una direzione da dare ai miei pensieri, mentre come ghirigori in un disegno di Steinberg lentamente disegnano un paesaggio possibile.

La bellezza non basta mai

DSCN5758Arrivano quassù dopo una gran pedalata nel paesaggio, oppure – più banalmente – in auto; talvolta a piedi; mi aspetto che, prima o poi, giungano a cavallo in minuscole carovane. La meta è nel viaggio, è poter dire “son salito lassù”, un caffè è l’esile premio di una scelta non banale. Oppure – ben più sontuoso – un bicchiere di vino, ma da gustare a piedi nudi (le signore) affacciati sul paesaggio che chiama – anche se sei seduto in uno dei due allegri ed eleganti ristoranti che accolgono il viandante (meglio se acchittato shabby chic); il paesaggio che ti costringe ad alzarti e non limitare la visita e la vista alle bontà che il luogo offre.

Attenzione! Il buono c’è perché c’è tanta bellezza qui intorno; e non tutti hanno capito fino in fondo che la bellezza è indispensabile: all’umore, alla salute dell’anima e pure a quella del corpo. Si sale quassù per nutrirsi di bellezza e va da sé che poi ci si sieda per chiudere il cerchio, tra bellezza e bontà. “Credimi”, mi dice l’ospite gentile e attento “giro molto per luoghi non banali, ma qui c’è davvero qualcosa di speciale”.DSCN5764Se lo capissero tutti – penso, mentre lui parla e prende appunti con il tablet – sarebbe un miracolo, anzi un terno al lotto. Ma sull’idea che siano margaritas ante porcos, mi bevo un caffè e guardo il paesaggio: la bellezza non basta mai, se poi è anche così buona e generosa, figuriamoci!

 

Fino all’ultimo rifiuto

DSCN5744Cara Mamma, durante tutto il film mi tornava in mente quel tuo modo meticoloso – quella che allora pareva davvero una mania – di sciacquare il tetrapak del latte prima di buttarlo; quel contenitore che (con tuo grande rammarico) aveva sostituito la bottiglia di vetro chiusa dalla capsula di stagnola spessa. Mi ricordo i compagni di liceo che ironizzavano bonariamente su ‘sta mamma un po’ così che mi insegnava a buttare in pattumiera solo cose ben ripulite, per rispetto verso quelli che le avrebbero maneggiate e “per sporcare il meno possibile”.

Ma ahimè mi son venuti in mente pure i bidoni della differenziata, qui a Sant’Angelo, dove si finge di non sapere chi butta l’umido con la carta, i rifiuti inerti dove capita, e spesso cose puzzolenti nel contenitore del vetro e della plastica. Tanto ci sono un bel po’ di tunisini e la colpa ricade su di loro (che comunque un bel po’ di arditi scambi di bidone li fanno davvero).

Trashed è un docu-film da vedere, proprio per documentarsi, per sapere che cosa è finito ormai nella catena alimentare, in quali paradisi apparenti filtrano i percolati più osceni, per avere contezza delle nostre (in)civiltà.

Ma va visto anche per ammirare come si muove Jeremy Irons destreggiandosi tra immani cataste di spazzatura indifferenziata e putrida, raccontandone origini, tempistica, e zone d’influenza: è uno spettacolo affascinante. I vestiti, le sciarpe, gli stivali, le giacche, i teli e le sciarpe indossati con eleganza nonchalante per questo giro del mondo orrorifico, li ho osservati con attenzione da entomologo. Non ha sbagliato una sola sciarpa, Jeremy, non un dettaglio. Tutto perfetto, per raccontare i disastri che abbiamo combinato e per socchiudere uno spiraglio di speranza, verso un mondo (un po’) più pulito.

Alla fine della proiezione tutti volevano sapere come si fa ad averne una copia, magari per rivederlo e magari organizzare una proiezione, e misurare ciò che ci rimane del nostro istinto di sopravvivenza. Da vedere anche, per capire a che cosa serve una centrale a biomasse e perché possiamo benissimo farne a meno. Distribuito in Italia dalla BIM.

Dire, fare, lavorare

Più del bicchiere di vino, mi affascinano i tanti lavori che gli stanno intorno. Intorno e dentro alla vigna, al vino e alla cantina; intorno e dentro all’agricoltura colta. Sono lavori lontani da un’idea (sbagliata) d’Italia che affiora sulle pagine dei giornali e nei discorsi che intesse la politica: impiego pubblico, lavoro ai giovani, sgravi fiscali (!) per dare un lavoro, senza chiedersi quale, con quali competenze e come procurarsi queste ultime.
Sono cresciuta in un’Italia che rifuggiva il lavoro manuale, confondendolo con ‘manovale’ e tacitamente attribuendogli connotati di rozzezza e incultura; dove i giovani sono stati spinti dalle famiglie a mettersi un colletto bianco, dopo che la Fiat aveva indotto i contadini a lasciare le campagne per arruolarli in fabbrica (in una Torino ben diversa da quella del Salone del Libro e anche di Eataly).
Mi domando se il precipitare imminente di quella che ci siamo abituati a chiamare crisi (ma che è una strategia globale di appropriazione indebita di beni e diritti) darà tempo ai giovani di capire la bellezza del lavoro, di quello vero, non del posto (che non c’è più) di lavoro cantato dal film di Ermanno Olmi.
Penso ai giovani di tante età che aspirano a diventare giornalisti, registi, pubblicisti, pubblicitari (ma in realtà venditori di spazi), e che non conoscono il lavoro manuale, anzi magari lo disprezzano pure.
Poi capito in cantina e vedo il “vecchio” e il giovane al lavoro, un lavoro vero e affascinante (e pure ben pagato). Mi viene in mente che a Milano ci sono tanti avvocati quanti nella Francia tutta, che tutti i pizzaioli milanesi sono egiziani. Che gli operai agricoli sono arabi e i più umili lavori della vigna – per produrre vino – spesso li fanno dei musulmani che forse si pongono domande imbarazzanti. Che sono i macedoni a tagliare i boschi e accudirne le legna ….Che han più occhio gli americani dei nativi a promuovere lo stile toscano.
Mi viene in mente anche l’ineffabile bellezza un po’ noiosa della vita in campagna e quanto ci sarebbe da fare per ripopolare – senza enfasi, e neppure annunci – con gente e raffinato (e produttivo) lavoro agricolo (e dintorni) la (quasi ex) bella terra d’Italia. Mentre i due maestri bottai lavorano di gran lena, con competenza e un profondo legame con quello che stanno che stanno facendo,,,in particolarerisultatoolslavoro impegnativoil sapere al lavorobatman è stato quisapere e farelavoro finitomaestri bottai

La Rivoluzione degli Educati

Ti chiudono la porta sul naso; accelerano quando attraversi la strada per metterti in difficoltà; ti tossiscono in faccia; insultano quelli che identificano come più deboli e adulano senza vergognarsi quelli che possono comprarli; non mettono la freccia; ti danno sulla voce; non salutano ma si irritano se non li noti; si fermano a parlare con il tuo interlocutore indifferenti alla tua presenza; ti puntano il gomito in faccia al bancone del bar (però evitano di farlo se sei grande e grosso); telefonano a tavola strillando; non rispettano i vecchi e nemmeno i bambini; ignorano le precedenze in auto e nelle code agli sportelli; parlano male e scrivono peggio, massacrando la lingua italiana. Insomma vivono in modo offensivo. Questi e molti altri comportamenti dello stesso tipo li caratterizzano e affliggono quelli che non sono come loro.

Sono dovunque, in maggiore densità dove c’è meno istruzione, nelle famiglie che – vuoi per miseria o per pigrizia, vuoi per arroganza o per teledipendenza – non sono riuscite a contrastare i danni causati dall’affievolimento delle coscienze, dalla mancanza di buoni esempi e dalla corruzione dilagante.

Sono il volto umano del degrado paesistico e ambientale del nostro Bel Paese; un’Italia che sta percorrendo l’identico cammino in discesa di molti suoi cittadini. Per salvarci – senza dimenticare il lato economico del concetto –  prendo a prestito da Franca Valeri il concetto di “Rivoluzione degli educati” e il suo suggerimento, quello di ribellarsi, di opporsi, di controbattere, di rintuzzare, di sbarrare la strada alla negazione della bellezza, che va sottobraccio a comportamenti tanto antiestetici quanto una bruttura nel paesaggio, o un prodotto storpiato, tradito nella sua essenzaDSCN1579.

Quando Hosting suona hostile

Rimasta in panne con il mio piccolo blog, leggo la mia posta, ieri, e mi accorgo con raccapriccio di non aver pagato la fattura relativa all’hosting del mio dominio. Meno male che – anche di domenica – si può pagare con una carta di credito e sopperire alle proprie disattenzioni (e alla mia – non lo nego – trascuratezza).
Inoltre anch’io sono diventata più attenta ai costi dei servizi – inclusi quelli bancari (ma va?!) – e sei (6!) euro per bonificarne diciotto mi sembra uno scotto eccessivo.
Mi accingo perciò a pagare on line e sistemare rapidamente la cosa – così fan tutti – ma incoccio subito in una difficoltà stupida, ma apparentemente insormontabile. Non ricordo più con quale nome mi sono registrata, tra i tre o quattro che legittimamente avrei potuto usare. Niente paura, però, perché mi chiedono anche con quale mail e questo è molto più facile e accessibile. Difatti compito la mail e la pass. No, mi risponde il sistema, non è quella giusta (di certo la password). Riprovo tre volte, ma chissà quali associazioni mentali stavo facendo, quando mi sono registrata qui?! Inoltre penso, con un po’ di risentimento, a quanti numeri e codici tengo a mente per accedere a irrinunciabili servizi (almeno dieci, mi par di contarne).
Insomma non ce l’ho fatta; il sistema però mi conforta comunicandomi che posso cambiare password. Ora è un po’ difficile riportare qui tutti i passaggi che devo avere sbagliato ieri, perché sono stati molti e ho buttato un bel po’ di tempo, prima di lasciar perdere e pensare che avrei chiamato direttamente al telefono l’hosting, all’indomani, a uffici aperti. Cosa che ho fatto, ricevendo una spiegazione puntuale, ma velocissima, nel consueto gergo del settore, per addetti ai lavori. Comunque mi mandano una password che il sistema partorisce per default e che è complicata e cervellotica (ma si sa, la sicurezza ha un suo prezzo: ora lo sa anche Obama!). Quindi procedo, ma al momento in cui devo pagare, cliccando sul marchio che corrisponde alla mia carta di credito, non c’è alcuna reazione. Richiamo l’hosting, che questa volta è una donna e mi pare spazientita,   mi fa rifare tutta la procedura – inclusa composizione della supercomplicata password – la sbaglio tre volte, sentendo come fosse sul collo l’inequivocabile sbuffo di impazienza da parte dell’operatrice all’altro capo del filo. Mi sento vecchia e obsoleta, subito dopo mi sento incapace e anche un po’ scema. Per consolarmi penso che ‘quella lì’ non ha (ancora) affrontato nemmeno un centesimo delle montagne che ho dovuto scalare nella vita; poi mi pento e ‘quella lì’ torna ad essere una donna giovane a cui non hanno insegnato che l’educazione conviene, sempre, anche quando chi hai di fronte ti sembra una cacchetta.

Poi finalmente, riesco a pagare, ma non è merito dell’efficienza di ‘quella lì‘, ma solo del ‘sistema’ che finalmente alla terza sollecitazione (identica alle due precedenti) si sblocca. Ora ho pagato e posso postare questo post, fregandomene della ripetizione. E posso iniziare a cercarmi un hosting meno ostile e più educato.

Tita, civiltà di Montalcino

Magari vai al Consorzio del Brunello – per vedere da vicino l’effetto che fa – oppure in Comune, per uffici. Attraversi la piazza, sempre abbastanza trafficata, con passanti e qualche auto e un grappolo di turisti un po’ incerti: c’è il sole – una rarità, quest’anno – e vorresti trattenerti all’aperto, per sentire la tua pelle che si scalda, come capita all’inizio dell’estate. Lui è lì, con la bella faccia incoronata da un cappello chicchissimo, le bretelle impeccabili e la cravatta sapientemente annodataDSCN5687DSCN5688DSCN5700DSCN5689DSCN5693DSCN5699DSCN5708. Sono anni che lo vedo.

 

 

 

 

Con un ritmo pacato e continuo, pianta, zappetta, ripulisce, pota, sistema e aggiusta. Il roccolo di turisti si accomoda, un po’ sparpagliato, sulle panchine tra le aiuole trabordanti; dal bar di fronte esce un sottile aroma di caffè e va a mescolarsi con quello dei fiori di un arbusto che mi ricorda l’infanzia. Un bambino parlotta con Tita – l’uomo dei fiori -; la mamma gli sorride, io finalmente gli ho chiesto come si chiama e cerco di fotografarlo mentre si affretta a piantare delle tagete accanto a un ciuffo di campanule azzurro intenso: i colori di un “quartiere”, mi dice poi. Uno sguardo sorridente, senza compiacimenti, mi lascia intuire l’interesse per gli altri, lo spirito cordiale, la serenità d’animo. Chissà se Tita ha altre storie da raccontare; oltre a quella che racconta con il suo giardino che ci migliora l’umore e ci parla d’amore?

C’è Montalcino ctonia nei vini con l’anima

Micro e macro li puoi esplorare con grande godimento, a Montalcino; e li puoi bere in alcuni tra i grandi vini – grandi senza grandeur -, magari tutti diversi tra loro, ma tutti pervasi da passione e conoscenza. Conoscenza ricercata per passione, passione che si accende tramite la conoscenza.

Da laica non astemia, penso (e non sono sola a pensarlo) che quell’anima evocata a parole, che però non si limita alla parola, è una sorta di vibrazione (non serve esser “di cultura” per sentirla, o aver letto libri) che avvertono quelli che sono capaci di emozioni, che non hanno paura di sembrare ‘deboli’ o non sufficientemente machos (donne incluse!); quelli che non vanno dietro ai grandi marchi, (però qualche grande marchio può benissimo commuovere con un grande vino). Quelli che non hanno in mente, unicamente, di tirare a casa – costi quel che costi – unicamente, il fatturato.

E bisogna dire che essere ‘piccoli’ non basta, e nemmeno essere ‘autoctoni’ o ‘veri contadini’; non sono queste le condizioni necessarie e comunque non sarebberoDSCN5620 sufficienti. Mi è venuto in mente leggendo certe poesie della Bachmann, sull’Italia. L’ho capito leggendo e bevendo (anche oggi, con due amici affettuosi), qua e là, nella scelta che la terra di Montalcino offre a chi ha sensibilità e, o, interesse per la conoscenza e voglia di capirne la parte ctonia, quella che sfugge a chi rincorra (ancora?) solo gli aspetti più mondani e superficiali del piccolo miracolo di questa grande terra.

Non basta la parola, non basta un’etichetta – che sia dimessa o sontuosa – non basta raccontare una bella storia, non basta dirlo perché sia. Nei vostri vini vogliamo sentire, in silenzio, la passione e il morso. Leggere la Bachmann,  che ha vissuto, conosciuto e amato la parte più profonda, recondita e sotterranea della terra italiana. Leggere, bere, sentire, capire. Ogni sorso un piccolo miracolo che si racconta, in silenzio. Il fatturato è una conseguenza dell’amore.