C’era una volta la Toscana?

Una volta lo sapevano tutti. Il bravo artigiano che ti cuciva gli stivali che avresti portato per molti anni, con i piedi asciutti e l’aria elegante; l’oste che non ti faceva il panino come lo avevi chiesto, perché quel giorno il salame che avevi scelto non era come te lo saresti aspettato; il falegname che ti consigliava di restaurare quella porta perché poteva essere recuperata e mantenere i propri caratteri, senza bisogno di spendere troppo; il ristoratore che puntava solo su quello che avrebbe potuto farti ammalare di nostalgia per quel pranzo “davanti all’Infinito” (in senso leopardiano). Ora sembra che tutti si siano scordati del sogno inseguito da tutti quelli che desideravano arrivare in Toscana; per un weekend, per le vacanze, per vivere lì.
Ora c’è chi invita a scegliere proprio i colli del grande poeta, invece di stare in coda per una bruschetta anonima e mediocre nelle piazzette dei luoghi simbolo del mito di sempre – Toscana – la terra benedetta dalla frugalità dei suoi contadini d’antan e dalla ritrosia delle grandi famiglie di fronte alla richiesta di aprire quel mondo esclusivo, di entrare nei loro giardini segreti -.
Tra i due atti di questa commedia molto italiana c’è un’epoca che rischia di finire (qualcuno già dice “la pacchia finirà”); quelli del Sunday Times (e di quanti altri si accoderanno al suo consiglio) ne hanno raccontato alcuni aspetti, ma artigiani, osti, ristoratori, albergatori e, prima ancora di costoro, gli amministratori pubblici di tutti i livelli, ne conoscono tutti gli aspetti critici. La scivolata nella mediocrità degli inarrivabili gioielli, che la Toscana offre a chi la conosce davvero, dura da tempo e gli imprenditori più intelligenti e lungimiranti ne hanno preso le distanze e cercano di distinguersi.
Quelli che saranno capaci di un’indispensabile analisi più profonda dovranno chiedersi, come primo passo, che cosa sono venuti a cercare – in Toscana – i pionieri che l’hanno lanciata come meta di un pellegrinaggio fortunatamente ancora in auge.
Perché non è vero che tutti i sogni finiscono a tavola, o in un selfie di fronte a un monumento di cui non si conosce la storia. La gente passa e non lascia niente, se non qualche volta – purtroppo! – rifiuti, sporcizia e oblio; un pubblico critico e colto pretende di più – soprattutto vuole le cose per cui la terra toscana è famosa – bellezza, civiltà, cibo locale, semplicità, eleganza, schiettezza, e consapevolezza di stare nel paradiso in terra. Ma perché sia davvero un paradiso bisogna che tutto concorra, occorre la consapevolezza di tutti, il lavoro di tutti, il pensiero di tutti.
“Ma se tu fossi a capo di questa regione, e dovessi affrontare ‘sto problema, da che cosa incominceresti?”: è proprio la domanda che mi aspetto. Io li chiamerei quelli del Sunday Times – non solo l’articolista, ma anche il direttore – e li inviterei a un incontro e li starei a sentire; poi avrei delle domande da fare, a loro e ad altri invitati all’incontro. E incomincerei a lavorare, senza lasciare passare il tempo e coinvolgendo tutti gli attori necessari. Perché quell’articolo può essere una boa, un segnale. Perché la comunicazione va gestita con sapienza e con esperienza; perché il paradiso è sempre qui – talvolta nascosto da qualcuno che si è dimenticato di parcheggiare come si deve – ma bisogna recuperare lo sguardo su questo paesaggio che – non sia mai! –  può divenire puro consumo, e consumarsi.

 

All’armi siam turisti

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Non solo uno sfogo: un vero allarme

Non so voi, ma io mi ricordo piuttosto bene delle “vacanze intelligenti”, lanciate dall’Espresso, che a quel tempo – ma che tempo era, e dov’eravamo? – era il punto di riferimento di un genere di persone (un gruppo socioeconomico disomogeneo con consumi e atteggiamento culturali simili) che in quel giornale ritrovava le proprie propensioni e opinioni.

Ripensandoci, cerco di ricordare com’erano le vacanze, prima di diventare intelligenti – un po’ stupidine, magari – e com’eravamo; sarebbe meglio scrivere ‘com’era la gente nei miei dintorni allargati’.

Per soccorrermi potrei andare a rileggere qualche ricerca Eurisko del professor Calvi, o di Giampaolo Fabris, o di Enrico Finzi, oppure qualche annuario Esomar, per dare una sbirciata ai consumi in Europa – trent’anni orsono – e vedere di nascosto l’effetto che fa.

Scriverei in modo molto ben documentato, ma meno empatico: in verità preferisco attingere al pozzo personale, essere meno scientifica (ma lo scrivo solo per mettermi al riparo da qualche geologo dell’animo umano) e consegnare a questo blog l’emozione violenta (e sincera) che mi suscita il vespaio turistico di cui il belpaese è l’involontaria e finora supina vittima.

I ricordi – quelli con tanto di documenti a suffragio – li riservo alla carta stampata, perché è lì che si può dire “l’ho messo nero su bianco”, con buona pace del blog che ha altre ambizioni … Ma questa è un’altra storia.

Tornando alle vacanze stupidine d’antan, io c’ero; c’ero ma facevo già vacanze intelligenti (secondo quello che scriveva l’Espresso). A questo punto qualcuno ridacchia e dice tra sé e sé eccola qui la nostra che si parla addosso … Ehm, no, aspettate a ridere alle mie spalle, potrebbe rivelarsi paradossale …

Sì, perché io ero tra quelli – pochini ancora, ma ‘intelligenti’, secondo l’Espresso – che venivano in Toscana, anzi: si precipitavano. Qualche volta scegliendo un villaggetto da niente, con annessa pieve e paesaggio “incontaminato”, preferendolo a una sortita in una delle cittadelle europee che rigurgitano cultura e buona (almeno in apparenza) educazione.

Come mai questa preferenza? Intanto bisogna dire che non ero sola a fare questa scelta e che allora – con gli italiani indaffarati a diventare cosmopoliti – c’erano persone, qualche volta anche intere famiglie, che sentivano dentro di sé l’urgenza di conoscere l’Italia. Allora non si usava citare il Grand Tour (ora lo si cita scrivendolo senza la “d” finale, come se fosse una specialità gastronomica un po’ volgarotta).

Strano, no?, conoscere l’Italia, questo paese rimasto un po’ medievale ma solo nella mentalità, perché la parte più fisica è disseminata di scritte zimmer frei, già da qualche decennio e anche nell’Emilia di allora (in Toscana no, allora le zimmer – frei o besetz che fossero – in Toscana, grandi alberghi a parte, erano una rarità). Perché, come appresi a Montalcino dalla viva voce di un’ostessa, i turisti meno vengono meglio stiamo noi, affermazione sottolineata in tempi più recenti da qualche senese docg piuttosto imbufalito.

Ma torniamo a noi e alle vacanze intelligenti, che consistevano in un pellegrinaggio reverente, racchiuso tra due viaggi – andata e ritorno – talvolta faticosi, altrimenti trascorsi guidando in un traffico ancora plausibile, ma su un percorso troppo lungo per sopportare delusioni. E le delusioni, allora, erano pochine: la gente, ispida ma quasi sincera, ti accoglieva volentieri, raccontandoti aneddoti veraci e storie belline; la gente era contenta di ‘questi strulli’ che arrivavano giù dalle loro comode città, perché i nativi si svagavano un po’. Con il visitatore era un po’ come andare al cinema; lui si raccontava con accento esotico e si lasciava a sua volta incantare dai racconti dei nativi, che osservava con rispetto e venerazione, perché li viveva come i testimoni di una vita speciale (‘stile di vita’ non si usava ancora dirlo, e ora per fortuna non si usa più), di una vita più umana, meno di corsa a fare la spesa, di corsa in ufficio, di corsa alla riunione, di corsa al cinema, di corsa, di corsa!

Perché i nativi vivevano di quello che coltivavano nell’orto e nella vigna, del loro miele e del formaggio che magari veniva dalla montagna, e uno dei loro caratteri di fondo era la parsimonia; l’altro era la generosità, soprattutto dei loro racconti. Una vera narrazione di un paesaggio austero e poetico: qualcosa che ognuno di noi – proto-intelligenti – avrebbe voluto infilarsi dritto nel cuore e portarselo a casa, nella città crudele.

La narrazione era punteggiata di fette di pane con cibi esotici – salame vero, buristo, prosciutto d’oro (in quanto rarità preziosa) e assurdamente salato – e persino il pane, da solo, sapeva di verità: qualcosa di un po’ dimenticato. Il vino – salvo eccezioni speciali pessimo e grossolano – era delizioso e ci parlava del coraggio di quelle genti abbarbicate alla terra, che manco conoscevano il significato della parola ‘paesaggio’ (del resto, se è per quello, il significato non lo sapevano nemmeno i ministri della Repubblica) né quanto fosse preziosa la tavola ‘del dugento’ (sparita) nella chiesuola in fondo al viale di cipressi.

Noi “intelligenti” sì che sapevamo tutte queste cose: forse perché venivamo da lontano, lavoravamo una quantità mostruosa di ore, guadagnavamo molto (rispetto a salari incerti e rari e le pensioni precoci) e poi, soprattutto!, volevamo conoscere il bel paese. …

Ora, guardo le coppiette che non sono riuscite a parcheggiare la loro Mercedes Benz (e mi ricordo il canto a cappella di Janis Joplin) accanto al tavolo del ristorante, si fermano un attimo per fare una foto e portare via un po’ di paesaggio (tanto non sanno cos’è), i tacchi dodici stridono sulle pietre (ma d’altronde se ci fosse l’asfalto sarebbe peggio); la gonna palpita, la sera cala tiepida: andiamo a cena …

Mi domando quanti di loro abbiano una vaga idea di quanto era forte e netta l’emozione che ci coglieva salendo l’erta fino alla piazzetta e se sanno apprezzare quanto di buono e vero qui assaggiano e sperimentano. Di certo, per quanto quasi tutti iper connessi, nessuno di loro può arrivare a vedere quello che allora c’era e alcuni riescono ancora a sbirciare, se hanno qualcosa dentro, se hanno strappato un ricordo a uno che una come me ha (ancora) il privilegio di conoscere.

Poi leggi dei tuffi a Venezia dal Ponte dei Sospiri, vai a Roma e senti che l’incenso che aleggiava si è convertito in pizza; Firenze che puzza di fritto …

Allora mi viene in mente che se non ci pensiamo noi (noi chi?) a curare la bella Italia – lingua e pizza, luoghi della fede e fontane, prode e costoni, boschi e uliveti, tabernacoli e chiostri – a curarla ferocemente, a ‘farla pagare’ e valere in termini di rispetto, riguardo, cura, attenzioni in punta di piedi, anche la bella Italia diventerà altro, qualcosa da strada, da kleenex buttato, da orinatoio d’emergenza, da pietre porta mozziconi, cartacce … bottiglie … lattine … blister …

La grande emozione diventa una bellezza di ricordo. Avanti un altro.

Oh Lord, won’t you buy me a Mercedes Benz? / My friends all drive Porsches, I must make amends. / Worked hard all my lifetime, no help from my friends, / So Lord, won’t you buy me a Mercedes Benz?…

Sul mare luccica: è Montalcino

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Già eravate al corrente del vino – dei vini, per l’esattezza (mica c’è solo il famoso Brunello di Montalcino!) – forse avete sentito dire del paesaggio (“c’è un salto qualitativo tra il resto della Toscana e questi colli, quando svolti lasciando la Cassia e prendi la strada che scollina – Traversa de’ monti – in direzione di Grosseto…” mi sospirava un famoso copy di un’ancor più famosa agenzia); qualcuno, maliziosamente , può avervi suggerito che qui se la tirano parecchio (ed è meglio sorvolare). Vi avranno parlato di certo delle terme disseminate, qua e là (San Filippo, Petriolo, San Casciano, Bagno Vignoni, Rapolano, Bagnacci, …) dimenticando – o non sapendo – che le acque termali abbondano anche tra i filari delle viti …
Qualcuno vi avrà raccontato le meraviglie dell’Amiata (absit iniuria geotermiae), magari l’avrete pure vista innevata o avrete fatto chilometri nelle faggete silenti e misteriose …
Ma quasi certamente nessuno vi avrà raccontato della visione del mare, che luccica in due o tre punti – tra Montalcino e la frazione di Sant’Angelo in Colle -, un’apparizione capace di raccontare meglio di qualsiasi parola quale sia il contesto psico – geo – immaginifico in cui si trova questo lembo di Toscana.

Un mattino d’inverno a Montalcino

DSCN2415Succede che dopo aver passato anni a organizzare incontri tra gente che deve dirsi cose che già sa ma che bisogna mettere in sintonia, oppure cene per accordarsi su fatti riservati che però stanno scritti su certi giornali più giusti di altri, poi un mattino d’inverno a Montalcino mi trovo a percorrere, in auto per essere puntuale, una bella strada che la folla dei partecipanti a Benvenuto Brunello forse non conoscerà mai e il paesaggio la cui bellezza rischia di farmi deragliare fuori strada è, ancora una volta, il compagno di una giornata a Montalcino.

Vado a un incontro organizzato da un signore del vino – “il” signore del vino – il cui nome conosco fin dall’infanzia, quando mio padre – che andava in Piemonte per il vino di casa ed era un appassionato di Barbaresco – mi parlava di quel vino e di quella famiglia.
Guido su questa strada sterrata e tortuosa, ricca di asperità irregolari, che ho percorso infinite volte a piedi godendomi ogni passo, con gli occhi aperti e il respiro profondo di chi – come me – ama (e rimpiange un po’) la città e le sue promesse ma ha scelto la campagna e la vicinanza alla terra quasi come un esilio, ma benefico, una voglia di sbucciarsi l’anima e guardare alla base delle cose, per riprendersi una vita più naturale.

Succede che “una vita più naturale” oggi è in realtà una scelta abbastanza complessa, che comporta pensieri che mettono in risalto continuo contraddizioni e incongruenze: le proprie  e quelle della scelta che si è fatta. Me lo dico mentre guardo la piccola colonna di auto che vedo nel retrovisore, dietro a me, a distanza abbastanza ravvicinata. Mi fermo nell’attraversare le Case Basse perché c’è Gianfranco Soldera in tenuta da vigna – perciò elegantissimo (toni violacei in delicato controcanto con quelli austeri del suo grande vino) – ma non posso indugiare, non per il tempo a disposizione: sono in anticipo, come tutti quelli che seguono, ma appunto per non essere scortese con loro. Mi limito a un saluto, però affettuoso – un saluto che viene da lontano, quando cenavamo al Pozzo, a tavoli diversi e ci conoscevamo appena, entrambi venuto da nord e innamorati di questa campagna – un po’ dispiaciuta di non poter scambiare con lui qualche parola sul tempo (finalmente freddo: è persino nevicato un po’, ma poco gelido).

Scoprirò che i miei pensieri sulle scelte di vita non sono così estranei al piccolo gruppo eterogeneo di convenuti, tutti straordinariamente colloquianti – puntuali e attenti e compresi del futuro di questi luoghi preziosi. “Prezioso” è forse un aggettivo che non ho usato mai per Montalcino, ma la sua campagna, ancora ricca di angoli non piegati alle logiche produttive – a mio modo di vedere spesso troppo indifferenti alla bellezza -, né all’estetica dell’accoglienza che ci si immagina vogliosa di una Toscana mai esistita se non al cinema, oggi lo chiede. Sull’aggettivo “prezioso” Piero Chiara avrebbe avuto da ridire, quando mi somministrava preziosi (appunto!) consigli di scrittura … Piero Chiara, sì, ma in altri tempi, quando il mondo non era ancora abitato da sette miliardi di uomini e ‘viaggiato’ da oltre un miliardo di turisti in perenne movimento.

Ho avuto nostalgia – una volta di più – di Giampaolo Fabris e delle sue (pre)visioni così esatte e puntuali, per tutta la durata delle riflessioni – spesso lucide, sagaci e puntuali – ascoltate per tutta questa mattinata inedita da queste parti; perché i temi affrontati – accoglienza, ma anche ristorazione – giustamente anche con l’occhio e l’esperienza di chi lavora quotidianamente e conosce regole, difficoltà, problemi, complicazioni e prospettive, avrebbero bisogno dello sguardo esperto di un monitor che racconti dove sta girando il mondo – dove va e perché ci va – come e perché cambiano i gusti.

Ancora una volta mi sono tornati in mente gli anni brevi in cui ho visto scegliere, dalla politica, ricerche di mercato fasulle e compiacenti. Qui no: c’è la consapevolezza di uomini  – molti venuti da altrove – di parlare di un luogo “prezioso” (scusa Piero!), che prima ancora di generare profitto, è entrato nel cuore di alcuni, magari mentre guardavano oltre la collina prospiciente, verso il bosco, sopra la vigna spolta, pensando a come era bello quel paesaggio. Una mia (pia) illusione? Non so, non credo. Certo non è mai stata nominata, nemmeno evocata, nemmeno lontanamente. Ma mi pare di avere ascoltato – nelle parole di molti – un fruscio di consapevolezza inedita, il suono di una protagonista innominata, la bellezza, che mormorava al cuore degli ospiti della Pieve di Santa Restituta.

Agostina e l’estate

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Un luogo come in Toscana, la bottega di Agostina, che qui diciamo “da Luciano”, e non sono nemmeno certa che gli faccia piacere se la chiamo ‘bottega’, perché magari questa parola gli suona riduttiva.

Ma non è di questo che volevo parlare, perché la cosa interessante – entrando qui – è che accanto ai prodotti consueti, che ti aspetti di trovare in un emporio di paese (e ci sono tutti), se sbirci un po’ di lato c’è Agostina che spignatta in cucina, e i profumi sono quelli che ti fanno venire l’appetito.

Sant’Angelo è uno strano paese, pieno di angoletti da scoprire e di cose da assaggiare. Spesso la bellezza è anche buona, anzi quasi sempre; oggi ho trovato le verdure ripiene: a ciascuno il suo ripieno, così ho scelto i peperoni e gli zucchini tondi (che non so mai se sono maschili o femminili), uno ripieno di ricotta e l’altro glurg! non mi ricordo più. In realtà queste verdure  – colori a parte – non sono molto fotogeniche, ma sono tutte così buone che anche la giornata è sembrata migliorare di colpo. E le ho fotografate ugualmente, le verdure ripiene, prima di pranzo, per non perdere di vista questo classico dell’estate. Come ai tempi di una volta, sembra di essere in Toscana..

Al Nemico pela il Fico

Il fico comune (Ficus carica L.) è una pianta xerofila dei climi subtropicali temperati, appartenente alla famiglia delle Moraceae. Rappresenta la specie più nordica del genere Ficus, produce il frutto detto comunemente fico.Ficus CaricaIncombe il Ferragosto e mi secca pure ricordarlo nel mio diario on line. Ogni anno mi pare la stessa storia, con poche varianti che non fanno altro che incrementare la banalità della ricorrenza e dei commenti che la riguardano. Ma alcuni ricordi piacevoli vengono stimolati dal profumo delle piante e delle erbe; chi ha l’abitudine di camminare in campagna, in questi giorni potrebbe farlo ad occhi chiusi e ascoltare con il naso i messaggi delle piante.

Così, già al mattino presto, col primo sole che le stimolano, le piante emettono odori, alcuni più verdi, altri più dolci; tra questi sentori campagnoli, inevitabilmente mi colpisce quello degli alberi di fico: le foglie, i frutti, forse anche il tronco, profumano in modo molto particolare, con un sentore che è il prodromo di quello del frutto, quasi un avvertimento…

E’, quello del fico, un odore di memorie – sensuali, vacanziere, amicali, gastronomiche -; e il frutto, così polposo che “non sta più nella pelle”, stillando umori e resine e fluidi appiccicosi è stato ed è legato a piccole storie il cui ricordo mi fa allegria.

Ho imparato il proverbio “al nemico pela il fico, all’amico il persìco” da Laura Malloggi, in un memorabile weekend d’agosto di un secolo fa, quando la Toscana era ancora il mito di noi milanesi e poco mancava che baciassimo la terra appena riuscivamo a venirci. I Malloggi hanno un bel podere – l’Infernino – , piccino e ben messo, in un’ascella della terra sotto Sant’Angelo in Colle, circondato da bosco ulivi vigne e alcuni alberi da frutta, ficaie (così in toscano) incluse. In quel weekend furono colti i fichi (che non stavano più nella pelle!) e aiutai Laura a pelarli, a passare la polpa al setaccio e fare quindi una gigantesca marmellata di fichi, che più gigantesca non si riesce a immaginare. I fichi erano svariate decine di chili, furono pelati in un nugolo di vespe e api impazzite dall’eccitazione: impiegammo tutta la giornata a preparali, immerse nelle bucce fino ai fianchi, e parte della notte a cuocere la marmellata e a metterla nei vasi. Fino a qualche anno fa ancora si poteva trovare in circolazione qualche vasetto testimone di quell’estate molto calda e delle ficaie molto produttive. Fu durante la pelatura di quei frutti che Laura mi spiegò che la marmellata è l’unica circostanza in cui il fico va pelato, altrimenti va mangiato con la sua buccia che è davvero squisita. Mentre la pesca (il persìco, nel proverbio) ha una pelle fastidiosa e sgradevole: perciò è da pelare, quando lo offri a un amico.

 

La bellezza non basta mai

DSCN5758Arrivano quassù dopo una gran pedalata nel paesaggio, oppure – più banalmente – in auto; talvolta a piedi; mi aspetto che, prima o poi, giungano a cavallo in minuscole carovane. La meta è nel viaggio, è poter dire “son salito lassù”, un caffè è l’esile premio di una scelta non banale. Oppure – ben più sontuoso – un bicchiere di vino, ma da gustare a piedi nudi (le signore) affacciati sul paesaggio che chiama – anche se sei seduto in uno dei due allegri ed eleganti ristoranti che accolgono il viandante (meglio se acchittato shabby chic); il paesaggio che ti costringe ad alzarti e non limitare la visita e la vista alle bontà che il luogo offre.

Attenzione! Il buono c’è perché c’è tanta bellezza qui intorno; e non tutti hanno capito fino in fondo che la bellezza è indispensabile: all’umore, alla salute dell’anima e pure a quella del corpo. Si sale quassù per nutrirsi di bellezza e va da sé che poi ci si sieda per chiudere il cerchio, tra bellezza e bontà. “Credimi”, mi dice l’ospite gentile e attento “giro molto per luoghi non banali, ma qui c’è davvero qualcosa di speciale”.DSCN5764Se lo capissero tutti – penso, mentre lui parla e prende appunti con il tablet – sarebbe un miracolo, anzi un terno al lotto. Ma sull’idea che siano margaritas ante porcos, mi bevo un caffè e guardo il paesaggio: la bellezza non basta mai, se poi è anche così buona e generosa, figuriamoci!

 

Grandina la verità

Cala il sole dopo la grandineLa regola vorrebbe – se ho capito (tuttavia non imparato) bene la lezione – che si stesse zitti. Perché molti pensano che la gente (così genericamente indicata), col tempo, dimentichi.
Perciò se succede qualcosa di sgradevole – ad esempio una grandinata tosta – meglio stare zitti, stringersi nelle spalle, farsi avanti solo se l’eventuale prospettiva di indennizzi, contributi straordinari (di questi tempi?) diventa fondata.
Perciò il tempo è sempre “nella norma”, così pure le temperature medie stagionali (quest’anno sarà davvero dura sostenerlo), l’estate “perfetta”, le precipitazioni solo qualche volta “un po’ al di sopra (o al di sotto) della media”…e così via cantando e fischiettando.
La scarsa frequentazione della letteratura, dei grandi classici, ma anche delle letture d’evasione, toglie da sempre il senso dell’epica all’imprenditore agricolo(con poche eccezioni).
Naturalmente continuo ad esprimere un parere personale, ma lo faccio con profonda convinzione, maturata in anni passati a studiare il messaggio migliore – il più convincente, efficace ed economico – per vendere prodotti (i più disparati, ma con una netta prevalenza di beni e servizi legati a una matrice culturale). E perché me ne rammarico, qui, ora? Ma perché dopo anni di rincorsa al cosiddetto ‘valore aggiunto’ (di cui hanno cianciato plotoni di politici, di pseudo comunicatori, di pseudo giornalisti, di pseudo qualsiasi cosa, purché non si trattasse di un lavoro in cui devi davvero faticare), il senso dell’epico abbonda, quando si ha un rapporto vero con la terra, cioè non mediato da chi lo racconta senza sapere e senza averlo vissuto.

Ogni giorno del contadino, dell’agricoltore, dell’imprenditore agricolo (piccolo o grande che sia) ha il cuore in gola, e già il solo raccontarlo – pianamente – a quelli che la terra la intuiscono da lontano, solo quando gli arriva nel piatto con quello che mangiano, o nel bicchiere con ciò che bevono; raccontarla cioè a quelli che fino a ieri chiamavamo consumatori e oggi ancora non sappiamo bene come chiamare, né come sollecitarne l’attenzione; già il solo raccontare ciò che succede sotto il cielo, vale oro.

Vi siete accorti di quanta sete di verità, di cose autentiche, di concretezza, c’è nelle aspettative della gente? E non pensate che il turista “straniero” sia diverso, cioè uno scemo pronto a farsi raccontare le fiabe, perché non è così. Anche lo “straniero”, soprattutto se gli piace l’Italia, cioè un paese pieno di stimoli culturali apprezza il racconto della verità, soprattutto quando gli comunica come sia stato faticoso e complicato e avventuroso il cammino che abbiamo percorso per mettergli nel bicchiere qualche goccia del nettare sublime che ora sta assaggiando: quello che beve è il lieto fine di un’epica storia.

A Scuola da due Panzanelle

Mentre il solco tra l’immaginario del turista  e ciò che ci si attende da lui rischia di diventare ogni giorno più profondo, può succedere – anche di questi tempi – di incappare in piccoli miracoli, che ti riportano al tuo, di immaginario, e ai giorni giovani dei primi viaggi in Toscana, così fertili di sorprendenti meraviglie.

Prima meraviglia fra tutte, a quei tempi, la semplicità. Qualcosa che oggi mi pare un po’ dimenticato, che era invece l’ingrediente principale dei viaggi primigeni, emergendo persino dalle fotografie che riportavano a casa (magari Milano), l’idea che lì in Toscana la vita fosse  più serena e più ‘vera’, più gentile e più esteticamente accettabile; altrimenti perché farsi tutte quelle centinaia di chilometri in auto?

Io credo che, se chi amministra, chi produce, chi vende, chi ospita viaggiatori e turisti (insomma chi tratta il marchio “Toscana”) e anche chi fa i famosi vini, non si libera dal folklore (pieno di panzane) per recuperare lo stile d’antan – che altro non era se non il frutto di una vita più semplice ma assai armoniosa e un uso virtuoso e colto delle risorse disponibili –, l’economia fiorita sull’idea della Toscana Felix, si scontrerà con la disillusione che ogni tanto ho sentito nei commenti degli ospiti di questa terra; e non ci sarà campagna pubblicitaria che tenga, né promozioni più o meno articolate a far barriera. La disillusione chiede pedaggi assai alti e complicati da scontare.

Ma tornando alle sorprendenti meraviglie di cui sopra e alla speranza che esse mi suscitano (ma gli altri sono ciechi?), eccole qua. In sé non avrebbero niente di eclatante; si tratta di panzanelle, per la precisione due: una mangiata allo Scalo, all’Osteria di Pino e Daniela, l’altra al Colle, al Leccio di Gianfranco (e l’autore è il figlio Luca).

Per i non esperti dei luoghi, Scalo e Colle sono le due declinazioni di Sant’Angelo – frazione di Montalcino –, praticamente un ossimoro, come usa dire, ma in questo caso lo è davvero, perché è difficile trovare due luoghi più diversi – l’uno dall’altro – di questi.

Non vi darò la ricetta delle due panzanelle, anch’esse molto differenti, ma ne cito solo l’ingrediente principale: “il dono di raccontare”. Invece voglio parlare dei due locali e dei loro clienti e di come può accadere che da due visioni diametralmente opposte, si possa arrivare alla stessa clientela – non identica, si badi – qualche volta (ma non sempre) con diversa capacità di spesa, ma sempre con la stessa identica idea nella testa: regalarsi un’esperienza.

Mi è accaduto di pranzare ieri allo Scalo, con una frugale panzanella, tra l’editor di Chomsky, autisti di corrieri, impiegati, due giovani produttori di Brunello, alcuni operai della provincia, due importatori anglosassoni. C’era anche  un gruppo di cinesi di Hong Kong – giunti in processione, sotto un sole implacabile, protetti da variopinti ombrelli parasole – che hanno assaggiato ogni pietanza (tutte diverse una dall’altra) commentandole vivacemente.

Poi ho cenato ieri sera al Colle, tra i titolari di due grandi produttori di Brunello, l’ordinario di storia del cinema (UNIGE) e la moglie originaria di Montalcino, una tavolata di americani che annuivano con entusiasmo ad ogni portata, un’altra comitiva di anglosassoni, con cinque bambini, elegantissimi e molto sciolti, e mi è tornata voglia di panzanella. E l’ho ordinata: ancora più frugale e diversissima.

Bisognerebbe che molti andassero a scuola da queste due panzanelle, per un indispensabile ripasso di turismo.