Lettera ai gatti di Sant’Angelo in Colle

Quando decidi di andare è meglio che tu non ti volti indietro; altrimenti potresti rimanere di sale. A volte andare via da un posto pensato come il luogo ideale per viverci il resto della tua vita, vuol dire salvarsela – la vita – o almeno tentare di farlo. Io però ogni tanto mi guardo indietro ugualmente e non resto di sale: sorrido. Mi capita, quando mi sento osservata – prima mi tengo, resisto, poi però mi giro. E quando mi giravo, a Sant’Angelo, c’era sempre un gatto che mi studiava, fissandomi – con sguardo sornione o con una domanda precisa e diretta. Per questo io sorridevo. Eravate voi, cari gatti; c’era sempre qualcuno di voi alle mie spalle, a valutare se fosse il caso di fare qualche moina, uno strofinamento su una gamba, per ricavare qualcosa (magari una dormitina al caldo, in caso di neve); oppure se c’era da paventare qualche atteggiamento un po’ aggressivo, nel caso fossi spazientita da qualche incidente di percorso, qualcuna delle infinite contrarietà che la vita riserva a noi umani, anche a quelli che in fondo non avrebbero di che lamentarsi.

Sdraiati sulle lastre delle strette vie – quelle lastre che erano destinate a essere sostituite dall’asfalto, in una pensata amministrativa un po’ sbrigativa, di chi non si era accorto vent’anni fa, che i paesani avevano capito che ogni pietra vale quanto un pozzo di petrolio – o rannicchiati dietro a un angolo, alla costola di un arco o sbucanti da sotto un recinto sbeccato, mi avete tenuta sotto osservazione, qualche volta osando anche fingere di non conoscermi.

Sempre parchi di confidenze (in fondo al cuore ho sempre avuto un gatto solo), quando la bella Rachele – l’unica in grado di competere con il ricordo di un gatto che non c’è più, a maggior ragione ora che anch’essa se n’è andata in quel paradiso in cui i gatti continuano a rincorrere farfalle nell’erba – ha mostrato un po’ di condiscendenza nei miei confronti è stato solo per testare la possibilità di avere una seconda casa, quando Alba doveva assentarsi. E solo negli ultimi anni della sua vita si è lasciata un po’ andare e ha smesso di miagolarmi rauca che ero, tutto sommato, un po’ straniera. (Come se lei non fosse arrivata insieme a un cuoco sciagurato che poi l’ha abbandonata al suo destino magari randagio – ma il cuoco, il destino no! -). Ora che Rachele non c’era più, una gatta tigrata che si crede una grande cacciatrice, è sempre appostata davanti al mio uscio – incerta tra il tener d’occhio i miei andirivieni, oppure i topi che a Sant’Angelo non mancano.

Cari gatti, state appostati; tra di voi continuo a intravedere i passi silenziosi di Giacoma che sbuca dal suo vicolo, il volto proteso e sempre la stessa domanda. Qualcuno sbuca sempre da una viuzza da un angolo impietrito, da dietro gli archi; più raramente da una finestra: allora è Ermelindo con il suo fare sonoro e amichevole. Oppure altri paesani che si sono trasferiti più in basso, dove le stagioni non contano più molto, se non per il fango o le foglie morte che s’incontrano andando a trovarli. E non abituatevi troppo al tempo siccitoso, perché pioverà, pioverà di nuovo e vi penso rintanati rinculati negli anfratti che solo voi praticate, in cerca di lucertole e gechi. Allora anche i gradini di casa mia verranno buoni; belli larghi e con la possibilità di evitare il senso della pioggia, spostandosi da un lato o dall’altro, come siete abituati a fare, come ho scoperto che sapete fare, aprendo l’uscio presto, al mattino. C’è sempre un gatto nel mio cuore: e io vi penso assai. 

Solstizio d’estate

Mi coglie impreparata, come sempre succede. Al culmine di un tragitto in cui, poco a poco e un po’ alla volta, ho osservato le giornate che si allungavano – spiandone le variazione della luce, constatando che i giorni non si allungano in modo simmetrico, bensì di più al mattino e poi di più alla sera, come adesso.

Poi sembra che tutto vada a rovescio, come nella canzone di Dalla. Sì, insomma nuovi fenomeni sociali, nuovi criteri per dare torto o ragione; ma io – caro amico – non scrivo per raccontare fenomeni e criteri. Annoto solo le mie impressioni. Sentire l’energia che viene e va, l’umore che la segue e sentirmi colpita da una perdita del senso delle stagioni. Lì fuori è tutto giallo ocra, come a metà agosto. Però tutto tace; nessun politico ha parlato alla gente – senza fare tragedie, per carità! – consigliando di tenere d’occhio i consumi (acqua, energia elettrica). E forse non ci sarebbe nemmeno bisogno (non dovrebbe esserci) di aspettare i politici, occupati come sono a spartirsi l’animale tirando di qua e di là, perduti nel loro sogno innominabile e perfino banale. Potremmo fare da noi, molti di noi potrebbero cambiare registro.

Alcuni lo fanno e alcuni si spendono per fare un po’ di propaganda a un cambiamento di mentalità. Mentre la politica – che ha scoperto il turismo e perfino la cultura anche se non sa cos’è – ha messo in funzione uno spremilimoni per un limone inedito – il paesaggio (anche se non sa cos’è) – e vende spremute di paesaggio a gente di passaggio, per aiutare a fare cassa con occasioni becere e impunite, come abusivi che vendono schifezze e molestano i turisti, navi grandi come un sestiere che occupano Venezia, maialoni che si arrampicano fino al centro del centro più antico e minuscolo dei villaggi con auto grandi come bus, dimenticando il colesterolo mal parcheggiato insieme al golfino di cashmere in auto. Fa caldo, troppo caldo per il cashmere.

Ah Persephone, dove sei? Molla Plutone e vieni a dare una mano.

Pensi a Lina?

Io l’ho chiamata “Lina” – con tutto il rispetto per tutte le Lina conosciute o sconosciute – perché definirla “pensilina” mi è sembrato eccessivo. E’ sembrato un po’ troppo anche agli abitanti di Sant’Angelo in Colle che me ne hanno segnalata la presenza chiedendomi implicitamente se l’immagine dell’oggetto in questione corrisponde davvero all’idea che l’ignoto installatore s’è fatta di loro. Certo gli abitanti di questa frazione di Montalcino non sono fieri di Lina; loro vedono centinaia, migliaia, di visitatori salire la strada che porta in cima al Colle per ritrovarsi nella piccola piazza del paese, dove Re Liutparndo, nell’ultimo quarto del primo millennio (non mi ricordo la data esatta) radunò una settantina di notai per dirimere una grana scoppiata tra due vescovi che litigavano per i confini delle rispettive diocesi (Arezzo e Roselle). Allora Sant’Angelo in Colle aveva un nome un po’ diverso, ma sempre Sant’Angelo era; la cima del colle era ricoperta di lecci, mentre ora la strada è bordata da alti cipressi popolati da nidi. In cima al colle c’era probabilmente solo un edificio religioso, mentre ora è un villaggio che conserva una forma medievale, con case quasi tutte ben restaurate. Allora le campagne erano diverse e non c’erano tutti questi vigneti circondati da boschi e scanditi da sentieri; anche le strade saranno state poco diverse da tratturi percorsi da carri e carretti, ma anche da molti uomini che andavano a piedi. Oggi invece c’è un pullman che porta i bimbi a scuola, a Montalcino. E il pullman arriva fino alla fermata, dove i bimbi l’attendono al riparo. Da qualche giorno per ripararli dal sole e dalle intemperie  è stata installata Lina: mi hanno raccontato che è reduce da un onorato servizio alla Coop di Torrenieri, altra frazione del comune di Montalcino, dove riparava i carrelli del supermarket. Un riciclo, dunque. Oggi è importante riciclare tutto; hanno trovato un modo per riciclare i morti, facendoli diventare alberi: un bellissimo pensiero in questi tempi un po’ troppo gretti.

Vorrei però che Lina fosse vestita meglio, che le togliessero le scritte che le danno quell’aria un po’ troppo vissuta e anche un po’ sciatta; vorrei che le togliessero quell’erba che le cresce in testa e la fa sembrare forfora di una capigliatura trascurata; vorrei che Lina fosse pulita, linda e bella, per far capire ai bimbi che attendono il pullman che li porterà a scuola che così si entra nella vita, avendo cura di sé stessi, non per apparire, ma per essere i degni abitanti di luoghi di rara bellezza.

Non conosco l’autore o gli autori di questa installazione; bisogna avere pazienza e aspettare che trovino il tempo per completarla e renderla degna dell’idea che chi abita i luoghi deve avere di sé. Ma vorrei suggerire di farlo velocemente, per evitare che qualche bambino venga colto dal sospetto che Lina sia l’emblema di quello che si pensa di lui e che – di conseguenza – cresca pensando di comportarsi di … conseguenza. Chi ha messo Lina pensi a lei come a una pensilina, degna di tale nome.

Cosa cavolo pensi

Sì è vero in campagna abbiamo spesso vita dura. Quando si fa questa constatazione il primo mio pensiero va al riscaldamento, che qui – negli hamlets (frazioni) di Montalcino – paghiamo più del doppio di quanto dovremmo. Ma questo è un argomento di cui parleremo tra breve. Tutto è un po’ più faticoso, in campagna, e richiede, da parte dei non nativi, una maggiore applicazione. Mi riferisco a chi, per indole o per necessità, non può adagiarsi in un clima contemplativo; penso a chi immigra in campagna pensando di essere e fare ciò che era e faceva in una città mediamente attrezzata.

A questa riflessione ero già stata costretta, durante un weekend da queste parti, da Luciano (no, non quel Luciano lì: un altro), che di fronte alle mie motivate proteste davanti allo smantellamento di un pezzo di solido muro a secco, che veniva sostituito da un muro a secco finto (sì, succede anche questo!), lungo la strada provinciale che collega Sant’Angelo in Colle con Montalcino, mi tenne una durissima predica.

L’idea che quel Luciano mi sottopose, quel giorno lontano, era la seguente; chi vive in città, tra ascensori, autobus sotto casa, metro, tapis roulant, e così via non capisce che quelli che stanno in campagna hanno una vita quotidiana estremamente più faticosa e complicata. Che male c’è a smontare un pezzo di muro a secco che sarà lì da duecento anni a sostenere un campo, e sostituirlo con un po’ di cemento ricoperto di pietre sottili – che secondo Luciano (quel Luciano) non erano affatto diverse dalle precedenti? – . Che male c’è, se ci consente di allargare la carreggiata di “almeno venti centimetri” e andare più veloci?.

La mia risposta fu piuttosto evasiva, perché si capiva che era una battaglia persa. Ma inviai ugualmente una lettera con allegate foto a Italia Nostra. La cosa finì all’italiana, perché finirono i soldi e accanto al solido muro a secco c’è un pezzo di muro finto a secco che ora cerca di essere all’altezza. Quella volta io a quel Luciano diedi una risposta che mi sembrava ‘intelligente’ e che si basava pure su dati veri. Gli feci osservare che le strade più larghe, di scorrimento, si fanno nei posti che non vale la pena vedere, dove non ci si ferma: si va oltre. Ma era come parlare a un … muro di cemento.

Vado spesso a camminare: mi piace farlo quando so di non incontrare gente. Non è difficile in questa stagione in cui chi lavora sta rintanato nella propria attività e le comitive (si fa per dire) di manovali che vengono da lontano stanno nei campi appena spunta il sole.

Camminare a tu per tu con la natura è faticoso, perché obbliga a vedere quello che c’è e a farci i conti, magari trarre conclusioni (talvolta amare) sulla nostra lontananza dalla (chiamiamola così) possibile verità delle cose. Fa anche riflettere sulle scelte che sovente rivelano una lontananza dall’idea di paesaggio, che pure dovrebbe essere ben presente nei pensieri di amministratori che devono mettere in moto il “motore Italia”, e il paesaggio – soprattutto in questi luoghi, dove c’è – è uno dei valori più ricercati dai visitatori (soprattutto da quelli che non praticano il “magna e fuggi”).

Io cammino e passo dopo passo riconosco deiezioni e rifiuti, spesso li seguo, giorno dopo giorno, nel loro lento decomporsi; manco fossi una Sherlock Holmes nostrana potrei raccontare la loro storia e spesso risalire agli autori e alle origini. Colgo i segni e spesso mi accorgo di qualche cambiamento in preparazione. Per esempio, alcuni segni verdi, fosforescenti (numeri, tacche, indicazioni) su un breve tratto d’asfalto che mi capita di attraversare, li ho scorti quasi subito; poi li ho osservati meglio e mi sono ricordata di “quel” Luciano e di quello che mi aveva detto così tanti anni fa a proposito dei muri a secco (e la foto ce l’ho ancora).

Ho pensato che le Province non ci sono più, o forse ci sono ancora, ma non hanno i soldi per fare quello che dovrebbero (e saprebbero) fare, ad esempio curare le strade che sono ridotte a una metafora delle condizioni dell’Italia. Però, poi ho continuato a riflettere, l’Europa (che ci piace a correnti alterne) c’è ancora. Quell’Europa che ogni tanto eroga dei fondi, che a volte servono a fare cose meravigliose, altre – troppe – a fare quelle che in gioventù chiamavo vaccate. Uno dei progetti per cui l’Europa (mi risulta) stanzia fondi è quello delle rotonde, raramente indispensabili, talvolta usati dai Comuni per corroborare il bilancio. Ho rimuginato per giorni su quei segni che mi sembrano allarmanti, e lo sono perché stanno in mezzo a un bellissimo paesaggio, nel piccolo bivio che porta a Sant’Angelo, se giri a sinistra, e verso la Maremma tirando dritto.

Dominato da due bei poderi che ‘narrano’ il lavoro e la civiltà dei luoghi, quel punto del paesaggio dà l’accesso a Sant’Angelo, tra olivete, una vigna, e un’apertura verso la valle davvero unica. Un colpo d’occhio che nessuno sano di mente penserebbe di deturpare con una rotonda. Poi mi sono riscossa da questa brutta riflessione e mi sono detta :”ma cosa cavolo pensi?”.  

Segnali, segni, segnalazioni

DSCN0675Mentre in giro imperversano le sagre, di tutto il cibo immaginabile, nella campagna si moltiplicano i segnali di fine stagione. Non so perché la fine dell’estate colga tutti così immalinconiti, come se solo con il caldo ci si potesse permettere un po’ di spensieratezza. Forse sarà a causa dei costi crescenti del riscaldamento, che raffreddano gli entusiasmi per l’imminente autunno. Qui a Sant’Angelo in Colle paghiamo il gas 4 euro al metro cubo, cioè – se non ho letto male su internet – circa quattro volte il suo prezzo di mercato.

Ecco che i piccoli borghi, le frazioncine di cui sono disseminate le campagne, si svuotano. Oppure qualcuno potrebbe suggerirmi un’altra lettura: i costi lievitano perché c’è meno gente e i costi di gestione vengono suddivisi fra meno utenti … sì, ma non si dovrebbe incentivare la gente a rimanere nelle zone rurali che – come recita la dichiarazione di Cork “per la priorità dell’ambiente rurale in Europa”- sono un’alternativa fondamentale allo stile di vita metropolitano, per i giovani europei?

Non solo riscaldarsi costa quattro volte quello che si spende in città. Per avere il privilegio di vedere le rondini radunarsi, a cominciare da metà agosto, giorno dopo giorno e accingersi a partire verso sud, qui rinunciamo ad avere un cellulare che funzioni ‘normalmente’, facciamo a meno di internet abbastanza spesso (soprattutto se il vento è forte o se piove in modo sconsiderato); il fulmine (evento frequente) brucia tutte le schede elettroniche che trova in paese, nonché qualche modem e ovviamente l’illuminazione stradale.

E’ vero che la campagna è un bene di lusso – e lo diventerà sempre di più – ma per viverci bisogna allenarsi con i frati trappisti. Lo penso, mentre osservo le prime avvisaglie della prossima transumanza delle rondini: i rondoni sono partiti a luglio, ma di loro non sento la mancanza, mentre le rondini lasceranno dietro di loro un vuoto. Perché vivono quasi dentro casa (lo farebbero se glielo si permettesse: più di una volta sono state sorprese a costruirsi un nido in una stanza a loro gradita), perché osservano l’andamento casalingo e si regolano su di esso, perché chiacchierano con noi, a modo loro. Le rondini stanno per andarsene, i turisti no!

E non è che sia un male: si vive di turismo. Ma quest’anno tra il luogo e i turisti si è spezzato qualcosa. Sempre più spesso arrivano, si cambiano le scarpe (a volte anche il vestito, in macchina) scendono dall’auto parcheggiata il più vicino possibile alla loro sedia al ristorante, fotografano il tramonto, anche quando non c’è, mangiano e se ne vanno. Il fatto è che spesso hanno auto più grandi della piazzetta del paese e ignorano completamente il parcheggio che sta a poco meno di cinquanta metri dalla piccola piazza. perciò all’ora di pranzo e a quella di cena, il villaggio è completamente sfigurato dalle auto, parcheggiate alla rinfusa.

Quando mi accorgo, dai loro segnali, che le rondini stanno per partire, mi viene sempre in mente la storia de Il Principe Felice, ma le rondini di oggi, per loro fortuna, non sono così generose; inoltre io non conosco nessun Principe Felice altrettanto preoccupato per i poverelli. Anche questo probabilmente è un segno dei tempi.

Tra un santo e un crostino

 

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Non sarà un addio – ci ripromettiamo – è un cambio della guardia; qualcosa che nemmeno avrei immaginato, pochi mesi fa.

La bella Abbazia di Sant’Antimo – un mattino di luglio stavo sdraiata nell’erba, dietro all’abside, disegnando gli olivi lucenti nella calura – sarà presidiata da altri religiosi che daranno il cambio ai Premostratensi, canonici agostiniani biancovestiti che tornano alla casa madre, in Francia … e a Sant’Agostino subentrerà San Benedetto (“ora et labora”); laicamente penso che cambia la Regola, rimane bianco il saio. E i fratelli di Sant’Antimo, che hanno anche presidiato come parroci questo villaggio di Sant’Angelo (luogo fintamente appartato, frequentato da regine, ministri e personaggi lustri e lustrabili: antico, cosmopolita, riservato, paesano, e un po’ snob), oggi sono nostri ospiti.

Oggi, una manciata di abitanti saluta chi parte e chi arriva; qui al villaggio, don Antonio, il nuovo parroco – un’aria tosta, di prete campagnolo, colto e spirituale quel che basta -.

Chi parte (i Premostratensi) sa bene che crostini come quelli che assaggiano alla Trattoria del Pozzo, nei dintorni della franciosa casa madre saranno introvabili.

 

 

 

 

A piedi, a piedi!

DSCN6504Un antidoto all’afa che riduce l’adrenalina a risciacquatura di piatti? Aprire e chiudere la giornata con una bella camminata veloce, incuranti dell’afa (di sera) e del sole che sorge (prima delle sei) al mattino, e ti trafigge gli occhi (occhiali scurissimi, per chi come me non se lo può permettere). Strasudati, via sotto la doccia; cene leggere (verdurine a gogo), notti brevi, ma adrenalina che torna ai livelli normali. Parola d’ordine: alleggerire (alleggerirsi). E con i ristoranti che brulicano di gente, i soliti adoratori del sole che al tramonto si appollaiano sulla sunset Promenade di Sant’Angelo in Colle – direte o penserete voi – con un bicchiere di quello super buono che dondola e rotea in controluce (come un secondo sole, non meno affascinante dell’altro), come si fa a fare il classico ‘passo indietro’ dalle gioie della tavola?

Semplice: ci si convince che è meglio così. Si prende l’abitudine di bere pochissimo ma straordinariamente bene (poi molta acqua); verdurine come sopra e piccoli piatti nutrienti ma di dimensioni molto contenute.

Ma allora sei a dieta?! Nossignori, si gode del poco e i pensieri propedeutici a tali obiettivi non mancano. Si acquisisce il cambiamento profondo e globale, che ci chiede di mutare e interpretare in modo non pietistico, non afflitto, questo nuovo tempo in cui se si vuole ostentare, non si può che esibire una nuova asciuttezza di costumi, di abbigliamento, e forse anche di parole. L’eleganza del ‘poco’ è riservata a chi sa come procedere per sottrazioni: meno mobili, meno suppellettili, meno ornamenti, meno trucco, … meno ciccia.

L’ormai vecchio Latouche ormai sussurra la sua predica, invita a scoprire l’eleganza della (falsa) frugalità, frequentare il tema della condivisione (indispensabile diventare solidali) e giustamente spara sul concetto di ‘crescita sostenibile’ bollandola come una locuzione ipocrita.

Andare a piedi oltre a giovare (v. sopra), a stimolare, ad allenare il corpo (ma soprattutto la mente!) permette di incontrare il mondo vegetale e dialogare con esso. Credo di aver già confessato che parlo con un albero – il fico magico del Ricci – e posso aggiungere ora che il fico mi risponde. Ho sentito sghignazzare qualcuno a questo riguardo, eppure è così. Non sempre gli passo accanto, ma ogni volta non manco di salutarlo e di fargli una carezza. Lui mi guarda e risponde. Una grattatina sulla sua pancia formidabile, poi via, con le adrenaline tutte ben messe a fare una doccia e a leggere qualcosa di fresco e di buon gusto, tipo Alan Bennett. Buona notte.DSCN6505

A Regola d’Arte

DSCN7180La Grecia, l’Europa, il debito pubblico, il PIL, il lavoro. Soprattutto il lavoro; questi sono i pensieri di oggi e scrivo “soprattutto il lavoro” perché se c’è il lavoro è come avere un’assicurazione sulla vita, contro tutti i rischi … Il lavoro dunque è strategico! Mi viene in mente passando per Via del Paradiso, dove oggi hanno smontato le impalcature necessarie a un restauro che è stato quasi completato e incontrando Roberto e Fabrizio che sono alle ultime battute di un lavoro, ben pianificato, che ha cambiato il volto di una casa che si dice sia tra le più vecchie (se non la più vecchia) del vecchio paese in cui attualmente abito.

E’ raro che mi soffermi a guardare (in questo caso addirittura ammirare) il lavoro dei muratori; perché troppo spesso mi è capitato di veder ‘tirar su’ delle cose che non mi piacevano affatto. Ora poi, con il consumo di suolo ben al centro delle cronache è ancora più fastidioso assistervi. Invece mi fermo per osservare i due – che conosco da anni – che con perizia hanno restaurato ‘sta casa, scrostando tutta la vecchia stuccatura e rifacendola a nuovo. E se ‘a nuovo’ suona maluccio riferito a una casa vecchia, vi rassicuro subito … dalla scelta del colore dello stucco – impastato dai due – al modo accurato con cui sono ridisposte le pietre – un vero ri-editing! – tutto viene fatto a mano e a regola d’arte … come l’Italia meriterebbe e come bisognerebbe tornare a  fare. Non per riportare il paese e il lavoro ai tempi oscuri d’una volta, con sfruttamento e schiavitù, ma per tornare anche ai lavori manuali che significano cura della bellezza.DSCN7165DSCN7177DSCN7178DSCN7165Mentre li osservo lavorare e guardo con quanta cura risistemano pietra accanto a pietra, affinché il loro “opus” segua un criterio ben introiettato nella loro mente (e magari anche nel loro cuore!), Roberto mi ricorda alcuni loro lavori che avevo avuto occasione di andare a vedere ormai parecchi anni fa … nel suo racconto fa capolino Bruno, che lui ricorda esser stato il maestro da cui ha imparato e mi viene spontaneo osservare che allora dovrebbero trovarsi qualche apprendista a cui insegnare. A Fabrizio s’illuminano gli occhi d’orgoglio mentre approva con vigore: affermo che in Italia è giunta l’ora del restauro di quello che c’è. E li vedo d’accordo. Penso che se nessuno impara, il paese perde davvero qualcosa di importante, perché questi uomini non sono nati qui inutilmente. La regola dell’arte l’hanno imparata da Bruno, ma la grazia e la maestria con cui sistemano le pietre rende la via del Paradiso – dove stanno finendo quel lavoro – degna del nome che porta. Mi suona un po’ retorico, mentre lo scrivo, ma fuor di retorica non trovo altre parole per dire che questa è davvero cultura!…DSCN7163

Sul mare luccica: è Montalcino

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Già eravate al corrente del vino – dei vini, per l’esattezza (mica c’è solo il famoso Brunello di Montalcino!) – forse avete sentito dire del paesaggio (“c’è un salto qualitativo tra il resto della Toscana e questi colli, quando svolti lasciando la Cassia e prendi la strada che scollina – Traversa de’ monti – in direzione di Grosseto…” mi sospirava un famoso copy di un’ancor più famosa agenzia); qualcuno, maliziosamente , può avervi suggerito che qui se la tirano parecchio (ed è meglio sorvolare). Vi avranno parlato di certo delle terme disseminate, qua e là (San Filippo, Petriolo, San Casciano, Bagno Vignoni, Rapolano, Bagnacci, …) dimenticando – o non sapendo – che le acque termali abbondano anche tra i filari delle viti …
Qualcuno vi avrà raccontato le meraviglie dell’Amiata (absit iniuria geotermiae), magari l’avrete pure vista innevata o avrete fatto chilometri nelle faggete silenti e misteriose …
Ma quasi certamente nessuno vi avrà raccontato della visione del mare, che luccica in due o tre punti – tra Montalcino e la frazione di Sant’Angelo in Colle -, un’apparizione capace di raccontare meglio di qualsiasi parola quale sia il contesto psico – geo – immaginifico in cui si trova questo lembo di Toscana.