La piazza è dietro Brera, la raggiungi – e sono pochi passi – per una via che mi pare porti lo stesso nome, che risuona come una campana. C’è una bella vecchia chiesa che fa da quinta su di un lato. E’ una Milano silenziosa, lì, soprattutto in certe ore della giornata e certo il sabato mattina. E’ il posto perfetto per incastonarci un gran signore. Ricco e signore, un uomo d’acciaio, come l’idea che ti potevi fare di lui incontrandolo, o osservandolo da lontano; un uomo senza sbavature, signore (e pure bello!) come lo sono alcuni uomini che hanno il mondo dentro, senza un filo di compiacimento.
Devo andare subito a Milano per riguardare la piazza e ricordarmelo; per ritrovare quell’idea di sorriso che viene da una storia di coraggio, passioni, buona educazione e grandi progetti; una storia che non conosce volgarità, lontana mille anni da violenza verbale e l’arroganza da quattro soldi che qualche volta – da vecchi – si ha la sfortuna di incontrare.
Come in una foto d’autore, lui era seduto parlando con amici, i tavolini seminascosti dalle siepi scure coltivate nei vasi, la bella chiesa nello sfondo, i colori di Milano d’autunno, cielo compreso, a compattare il ricordo, la camicia bianca e il mormorio beneducato circostante. La nostalgia è birbona, ma la memoria è brava a sostituirla perfino da lontano nel tempo e di chilometri. No, non era una fantasia, l’eleganza non me l’ero sognata e il ricordo è vivo, nonostante la lontananza.
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Da dove vengo?
E se Facebook fosse una sindrome?
Lo penso nel momento in cui mi sveglio e la mente è libera di ricordare chi sono. Nell’impasto di idee e pensieri ritrovo il filo della mia esistenza. Penso a mia madre che partiva per Londra, a sedici anni non ancora compiuti, per andare a fare l’au pair in una famiglia altolocata e beneducata e imparare l’inglese quello vero. Penso a mio padre che volava da Tripoli a Torino, e raggiungeva la famiglia accompagnato da un libico in giacca e cravatta, nella nostra casa milanese. I ricordi sono intatti, ma gli anni trascorsi sono tanti e ora so che biglietti, cartoline e libretti, che testimoniano quello che ricordo e gli danno consistenza, sono preziosi. (Mi viene in mente il grande Nabokov, perché leggendo – e rileggendo – il racconto dei suoi esìli mi ha colpito il legame tra i momenti della vita attraccati a oggetti precisi).
Di certo Facebook ti succhia il cervello.
Le foto, sembra un paradosso, oggi raccontano poco, anche perché ora sono diventate invadenti e sovrabbondanti (con predominanza oscena di pezzi di carne cotta addobbata con l’idea di essere attraente). Ora che tutti afferrano il “telefono” e lo puntano sulla cosa, senza avere un’idea di forme colori né bisogno di pause in un racconto (senza neppure pensare all’effetto che fa a chi guarda), le foto esprimono sempre meno: pochi le usano per raccontare, troppi le usano per vendere senza chiedersi nemmeno come si fa.
Una cosa però la dicono le innumerevoli foto che intasano la rete: raccontano chi siamo e che cosa abbiamo in testa.
Facebook è uno specchio per bistecche e Chris Broadbent esiste solo nei miei ricordi?
Svegliandomi penso alle lettere che arrivavano dalla Libia; ogni giorno una lettera o una cartolina. Le cartoline di Tripoli, molto lucide con le palme, raccontavano una città poco esotica e ben pettinata in cui andare per vivere felici; le lettere erano lunghe e molto spesso contenevano un involucro di carta stagnola che avvolgeva un sottile plico di dollari. Erano i guadagni di mio padre che dirigeva un casinò, che aveva il nome di una gazzella, frequentato da militari inglesi e americani.
Gli oggetti da toccare, per ricordare, ci sono; una piccola agenda color glicine, del 1922, su cui andavo a curiosare da piccola quando riuscivo a impadronirmene, testimone dei gusti di mia madre. Un diario di mio padre, rilegato, con dediche di clienti, grati per la simpatia e l’accoglienza. Un randello di bosso, ordinato a Cuneo da mio padre, per tramortire i clienti troppo invadenti: un randello professionale, il superstite di cinque – durissimi, un po’ nodosi, con cinghia di cuoio ben avvitata per maneggiarli meglio -. Non solo di carta, sono gli oggetti legati a un ricordo.
Facebook è un subdolo attrezzo da compagnia. Bisogna usarlo senza lasciarsi usare, ma è molto difficile.
Mia madre mi ha scritto di rado, forse perché ero sempre con lei; forse perché le riusciva difficile tradurre i sentimenti in parole scritte: lei era donna di colori con un incredibile gusto per abbinarli, senza farsi intimidire da accostamenti inediti. La prima educazione a guardare mi viene da mia madre, di cui ho sempre in mente ‘guarda, Silvana, se non guardi non vedi niente’.
Mio padre scriveva, scriveva e scriveva, quasi ne avesse un bisogno fisico; lo ricordo seduto per ore davanti alla macchina da scrivere, munito di carta carbone (uno strumento meraviglioso ora sconosciuto ai più), carta vergatina per fare le copie, matite, gomme e correttori vari di cui ogni tanto saltano fuori brandelli sbriciolati.
Le lettere e le cartoline a me e a mia madre, no, quelle erano tutte scritte a mano, con una grafia veloce capace di adattarsi allo spazio da riempire che veniva tutto occupato: ed era un segno di immenso affetto e attenzione per noi che leggevamo, io e mia madre, la sua famiglia, che riceveva, avvolti in numerosi fogli scritti quasi quotidianamente – con il racconto della sua vita e i progetti per i suoi periodici ritorni – quei sottili plichi di valuta avvolta nella stagnola per sfuggire a controlli postali e possibili furti.
La posta era sicura, allora; una lettera, indipendentemente dal contenuto era intangibile. Aprire la corrispondenza indirizzata a qualcun’altro impensabile e inaudito. E certo è strano, oggi, immaginare sottili buste di carta air mail, contenenti una discreta quantità di dollari volare dalla Libia a Milano, fino alla nostra casella della posta, aperta e appesa accanto alla guardiola della portineria di via Venini. Al sicuro, come i miei ricordi.
Da lì vengo e anche da più lontano; mi aggrappo a quei ricordi come a un salvagente per non naufragare nel mare di bistecche ben cotte e mal fotografate da apprendisti maldestri che insidiano la mia navigazione con frasi sgrammaticate, che nelle loro intenzioni dovrebbero essere suggestive. Cerco una pattumiera.
Sfuggire al controllo di Facebook è possibile(?).
Plissè Soleil
Ci sono state alcune stagioni che mi sembrano lontane e diverse da quelle altre che mi paiono somigliarsi tutte; ancora di più alcune, nel ricordo, mi sembrano speciali. Il tempo, quando si rompe un regime stagionale consueto e magari arriva il sole, o finalmente piove, apre delle fessure da cui escono episodi e colori, un rumore che non sentivi da anni. Mi ritrovo momenti che stavano ben ripiegati e composti in un cassetto che non aprivo da tempo, e improvvisamente la vita cambia direzione, o ha un colore diverso; soprattutto il senso di quello che hai fatto e i pensieri che ti hanno spinto a muoverti in un certo modo li vedo da una prospettiva diversa. Non è mai un “controcampo”, più spesso è un “controcanto”; perché io non sono un’altra ma sono una persona diversa, che ha dentro tutto quello che ha visto, che ha detto, che ha immaginato e il ricordo dà vita a un momento che mi ritorna in mente con sfumature e vissuti che forse sono solo immaginari. Come il controcanto che dà un colore in più a una canzone già conosciuta. E’ un ri-editing, una cover, o sono gli scherzi della memoria.
Così il sole che irrompe nel silenzio anormale del giorno festivo mi porta a uno chemisier di seta indiana color magenta; un colore così cangiante non si era mai visto a Milano e forse nemmeno a Parigi, per come lo ricordo. Il segreto di questo colore che “frigge” (come frigge e scalpita il colore in una certa tela del Veronese che sta a Brera), è dato da trama e ordito di due cromìe coraggiosamente contrapposte, un modo di tessere e di abbinare i colori che – negli anni del mio apprendistato – era sconosciuto in Occidente. Ora quell’abbinamento si fa, ma di rado porta con sé quello che riusciva a raccontare quel taglio di seta di cui mi ero appropriata, alla mostra dell’India.
Mia madre aveva un talento speciale per il colore e quando ho portato a casa la seta, sapevo che il colore non era solo inusuale: era addirittura scandaloso; ma lei non si era per niente stupita. L’incontro con la sua complice, la geniale signorina Re – già autrice di meravigliosi abiti da sera che incorporavano nell’orlo danzante il cerchio dello hula hoop; abiti che mia madre mi faceva fare per ballare alle feste – ha dato vita a un modello “francese”, un classico. Lo chemisier aveva colletto e spalle nude, tutto allacciato davanti, e a partire dallo sprone tutto a plissè soleil.
C’era qualcuno, da cui le sarte si fornivano allora, che preparava il plissè a parte: le sarte fornivano il taglio, in misura, calcolata con esattezza, e poi la parte plissettata veniva assemblata al resto. E c’erano anche le piccole ditte artigiane a cui dare la stoffa necessaria per realizzare la cintura di un abito.
Ricordo bene come mi stava quel vestito e come, camminando si apriva il plissè, i colori emettevano luce. Il magenta sfavillante dell’ordito picchiava forte sul colore più arancione della trama e il sole rendeva il tutto plausibile. In quel tempo una designer geniale, Lora Lamm, iniziava a usare coppie di coloriture per le affiche che creava a la Rinascente. Da qualche parte Ken Scott creava tessuti con coloriture inaudite. I miei cassetti sono sempre pieni di quei colori e di altri abbinamenti ‘pericolosi’. L’abbinamento è un segnale, non sono in molti a saperlo e a saperlo usare; ma il coraggio per abbinare i colori a volte è una vera e propria sfida culturale.
Prima della Via Lattea
La scena si apre su una sfilata di Armani. Siamo in via Borgonuovo e tutto è bianco: il colore dei grandi pannelli fluttuanti creano quinte suggestive che saranno il fondale della sfilata. Non era un ambiente che frequentavo normalmente, anche se modelle e fotografi – grandi, grandissimi fotografi; belle e famosissime modelle – facevano parte della mia vita professionale.
L’invito alla sfilata mi era arrivato direttamente da Giorgio Armani, dopo un incontro a cinque – con Leonardo Mondadori, Gianpaolo Fabris, Armani e Ilaria Marvelli – al Saint Andrews.
L’idea di incontrare Armani me l’aveva suggerita Fabris, il cui monitor di ricerche analizzava il mercato anche per conto del designer stilista.
Allora, con Leonardo, eravamo alla ricerca di un testimonial significativo per far leggere di più un pubblico a cui volevamo far leggere i nostri libri. Fabris aveva organizzato la colazione per farci conoscere.
Così era nato l’invito alla sfilata. Quella sera avevo conosciuto anche Gillo Dorfles: vestito di quasi bianco, era il più elegante tra tutti; avevo letto “Kitsch”, avevo vissuto a lungo tra i designer che più ammiravo. Dorfles era testimone e attore di un momento sorgivo. Era vecchio, bello, e sprizzava intelligenza.
Questa mattina al risveglio, mi è tornato in mente quell’incontro; motore del ricordo è la morte – quella di Dorfles, dopo una vita lunghissima e fertile -, ma soprattutto, un articolo di “Internazionale” sull’invecchiamento. L’articolo finisce in modo così macabro e raccapricciante che ho voltato rapidamente la pagina per non rileggere l’ultimo paragrafo e non perdere di vista il senso della vita quotidiana.
Nel dormiveglia, chissà perché, insieme alla sfilata di Armani – forse per via del bianco? – mi è venuto in mente anche il dolce millefoglie: quello con la crema tra gli strati e lo zucchero al velo.
La millefoglie è un dolce della mia infanzia: mi piaceva molto e, nel ricordo, mi pare che fosse difficile da mangiare, e che mi piacesse anche per quel motivo. Tra gli stati di pasta croccante che si sfaldavano e si sbriciolavano c’era la crema pasticcera che fuoriusciva quando la forchetta li premeva tagliando il pezzetto di dolce, e il più lieve sospiro di impazienza (o uno sbuffo di risata) sollevava una nuvoletta bianca dallo zucchero al velo che ricopriva la pasta. Mangiare la pasta sfoglia era un esercizio di equilibrio, ma il premio era sublime. Un pensiero da un’educazione cattolica?
Oppure l’avvio di un nuovo esercizio di equilibrio, in cui ricollocare ricordi e futuro, mentre cammino sotto il cielo velato, prima della Via Lattea.
Essere, non, stampare, incontrare, scendere, risalire
Era quasi Natale, a Milano. Erano forse i primi di dicembre, ma – a Milano – è come se fosse quasi Natale. Le cose da fare si affollano e si accelerano di colpo e le giornate sono fatte di cose da fare: tutte urgenti, tutte insieme. Ero scesa a un piano di sotto; uno di quei luoghi – ce ne sono in ogni tipografia, in ogni luogo in cui si stampi qualcosa – dove ti siedi e tratti, con uomini che hanno incarichi e ruoli diversi, dei costi della stampa. Dei costi, ma soprattutto dei tempi di stampa, che sono sempre (secondo loro) impossibili e soprattutto, sotto Natale, sembra che tutti abbiano da stampare qualcosa.
Il luogo mi è familiare e gli uomini simpatici, ma il risultato della trattativa è che mi faranno “gli impianti”, ma le mie duecento copie dovrò trovare chi me le stampa: ma ho già in mente chi potrebbe, se riesco uscendo di lì a mettermici in contatto subito. Con il mio lavoro sottobraccio esco dall’ufficio della tipografia e subito penso a raggiungere la persona che potrebbe darmi una mano, prendendo un percorso più breve, dal retro; ma subito mi rendo conto che non è una buona idea perché potrei trovarmi tra la porta chiusa della tipografia (è quasi fine orario) e un cul de sac di fronte a me, in un sottopassaggio deserto.
Ma ho le chiavi e ne esco; fuori è la tipica ora della pausa pranzo milanese, affollata di suoni e di gente vociante che cammina veloce per raggiungere qualcuno. Io devo mettermi in contatto con chi potrebbe stamparmi le duecento copie e sto per farlo, ma incontro un po’ di gente che conosco. Una donna che me ne presenta un’altra che vuole parlarmi perché io la metta in contatto con qualcuno – di un’associazione nonprofit – a cui proporsi o proporre un lavoro. Mi farà piacere farlo e sto pensando a come trovare il modo più opportuno, mentre nel vociare continuo e confuso sento – dietro, sopra, da qualche parte – le voci di quelli con cui ero stata riunita poco prima, a discutere di stampa; una voce femminile – milanese e familiare – tra le altre mi dà la netta idea di come risolvere il mio problema, perciò mi giro e la chiamo: “Vigini! Vigini!”, quasi gridando. Ma le voci che si accomiatano si dissolvono e anche la sorella di Giuliano Vigini è andata via, per la sua strada. Allora torno verso le donne da cui ero stata trattenuta, per concludere quella conversazione e accordarmi con loro. Scendo gradini di marciapiedi all’angolo di via Torino, sotto un cielo luminoso e animato da nuvole e voli di piccioni. Devo stare attenta a scendere i gradini sbreccati e ricolmi di rifiuti colorati. Metto i piedi con cautela evitando gli inciampi, per risparmiare distorsioni alle ginocchia.
Devo trovare chi mi stampi le mie duecento copie di librini, che voglio spedire come auguri di Natale; voglio anche trovare il modo di mettere in contatto, quella donna che mi è appena stata presentata, con la persona giusta. Cammino con prudenza sulla spazzatura che è così invasiva da essere protagonista del paesaggio urbano, pensando che finirà che lascerò indietro il mio problema, distratta da quello di un’altra persona che neppure conosco; ma mentre rifletto su quello che mi sembra un mio modo di fare un po’ sciocco, un suono ripetitivo mi fa svegliare. A Milano. E non saprò mai se sono riuscita a stampare in tempo le mie copie.
Sassi
Pensavo (e dicevo) poco fa, a un’amica, che riesco a ricostruire il momento preciso in cui ho deciso di divorziare. Perché ti separi da qualcuno a cui sei legato non solo formalmente quando capisci che quello che ti divide dall’altro è troppo. Troppo grande, troppo profondo, incolmabilmente e insopportabilmente grande e profondo. Quando le diversità non sono più ‘divertenti’ o interessanti, ma appaiono per ciò che sono: il sintomo di obiettivi e traiettorie di vita che ti sono completamente estranee.
Non succede solo con le persone, ma anche con le cose e con i luoghi (anche se – ammetto – i luoghi sono determinati da chi li abita). Io trovo insopportabile stare in un luogo dove la gente ti parla per dirti sistematicamente male di qualcun’altro. Il colmo mi è capitato stamattina quando ho salutato una persona che stava lavorando a qualcosa; la cosa a cui stava dietro è di un’altra persona a cui si faceva verosimilmente un favore. Ho pensato perciò alla gentilezza da parte di chi eseguiva quel lavoro, invece chi eseguiva quel lavoro – avvicinandosi – mi ha ‘regalato’ un commento gratuito di inaudita cattiveria, proprio sulla persona a cui stava facendo il lavoro … Credo che divorzierò anche in questo caso.
Lo sanno anche i gatti: è la campagna a tenerci legati ai luoghi; la campagna e qualche abitante gentile. Scopro ogni giorno che la mancanza di gentilezza d’animo è indispensabile alla mia vita. Non solo la gentilezza degli altri, ma anche quella a cui so di essere incline, per educazione ricevuta in famiglia, perché mi fa star bene. Non la gentilezza di chi ti è grato per qualcosa, ma quella gratuita. Se non è gratuita non mi interessa. La grettezza mi spaventa e mi racconta un mondo in cui non vale la pena di vivere.
Salgo in casa e trovo, ben stesi e allineati sul tavolo di marmo, recuperato da un appartamento di via Settala, gli asciugamani di candida fiandra cuciti da mia nonna per il corredo di mia madre. Uno accanto all’altro; sopra di essi, disposti in belle file ci sono i funghi trovati nel bosco sopra casa, sono stati scottati nell’aceto e ora stanno asciugando in attesa di essere messi sottolio. Quando si dice un’idea profondamente diversa e un diverso modo di sentire.
La vita in sogno
Il teatro è tutto rivestito di tarsie in legno pregiato: un bel disegno a losanghe di sapore solidamente borghese, come gli arredamenti di questo periodo. Non c’è moltissima gente, ma è sufficientemente pieno. Il brusio è lieve e non fastidioso; percorro tutto il perimetro esterno – intorno ai due ordini di poltrone – accompagnando un piccolo gruppo di visitatori di riguardo che mi hanno fatto un’improvvisata.
Uno di essi è particolarmente attento all’ambiente, come è sempre stato interessato a tutto quello che ho fatto. Siamo invecchiati entrambi, con consapevolezza. Nel gruppo c’è anche un altro testimone di riunioni e anche di feste in casa di amici di tutti, ma io sono più colpita dalla presenza di chi mi stava accanto un giorno (d’autunno?), nella mia città improvvisamente sconvolta da un crollo di un intero palazzo, in viale Monza. E’ successo in seguito allo scoppio di una bombola, o di una perdita, di gas.
E’ pomeriggio, per fortuna, in orario d’ufficio, perciò molti sono al lavoro e per questo si salvano. Il traffico è sconvolto e c’è un blackout intermittente delle centrali telefoniche sovraccariche: anche il mio cellulare non funziona. Ho una riunione, dovrei rientrare in ufficio e sono in ritardo. L’uomo che mi accompagnava (e che è venuto a trovarmi nel teatro) è partecipe della mia ansia. Finalmente riesco a chiamare la mia segretaria che risponde subito chiamandomi ingegnere e dicendomi che la signora non c’è, che ci sono anche altre persone che l’aspettano.
Riesco a visualizzare la segreteria del mio ufficio, con il divano di Scarpa e il pannello dove ho fatto riprodurre tutti insieme i vecchi simboli delle collane editoriali; la scrivania con l’intrepida Giuditta, con la sua voce gentile e la mania (condivisa) per l’italiano nitido, che scrive impeccabilmente e sa anche riconoscere una trappola mortale, pure se chi la costruisce è un professionista del settore.
La giacca blu di gabardine di quel pomeriggio ora è appesa fuori dall’armadio; è ancora impeccabile ma troppo leggera per essere indossata in questa stagione. La guardo come un reduce di guerra osserva la divisa indossata durante una battaglia impegnativa, da cui è uscito vivo. La indosso scrutando nello specchio i movimenti di quel pomeriggio di fuoco, ricordando che prima di entrare nella sala riunioni l’avevo allacciata, per sentirla ben stretta in vita; e poi gli scoppi, il fumo, la silenziosa rissa mortale.
Racconto di Natale
Ogni volta che poso gli occhi su un salmone – in una vetrina o ben sistemato e guarnito, su un piatto, servito a tavola – vedo soprattutto il suo colore, ed è il colore del maglione più brutto che io abbia mai indossato. Rivedo le trecce (adesso sarebbero di moda, mi pare), il collo appena alto, la finitura a costine sotto la vita. Ma io ricordo soprattutto il colore: né carne né pesce, mi verrebbe da dire.
Ma quel maglione l’ho indossato per anni, si può dire per tutta la mia adolescenza e anche un po’ oltre. L’ho portato con gonne scurette che attenuavano la sua brutta tinta e non ho mai pensato di ‘mitigarne’ il colore con una sciarpa, anche perché in quegli anni le sciarpe avevano unicamente la funzione di scaldare il collo e non erano ancora divenute un capo d’abbigliamento molto decorativo, talvolta strategico, come oggi.
Ho portato quel maglione durante gli anni del liceo; i primi tempi per affetto, poi per scaramanzia, infine perché – divenuto un po’ logoro (come tutto quello che mi piace indossare) – il maglione color salmone era diventato bellissimo.
Anche una mia compagna di liceo che veniva da Roma ma apparteneva a una grande famiglia di imprenditori milanesi, negli stessi anni, indossava quasi sempre un maglioncino smilzo, azzurro polvere, di buona lana e confezionato a mano. I suoi avevano i beni bloccati e nonostante vivessero in un palazzo di loro proprietà, quasi in centro a Milano, non avevano liquidi… ma se torno con la memoria a quegli anni, ricordo molte ragazze indossare lo stesso capo continuamente; si era nel secondo dopoguerra ed eravamo tutti molto frugali, anche quelli che oggi definiremmo ‘ricchi’.
Il mio maglione color salmone, invece, era un regalo di Natale, di uno dei rari Natali passati con mio padre a casa e non per mare, o oltremare. Ricordo bene il momento in cui l’ho avuto in dono, avendo ai fianchi – quasi a sorreggermi (ma era un effetto ottico) – mio padre e mia madre, rispettivamente a sinistra e alla mia destra. Però non ricordo chi mi ha dato materialmente il maglione. Rammento però che sentivo una tensione speciale, capivo che i miei trattenevano l’emozione, ma solo qualche giorno (due o tre) dopo ho capito che il mio brutto maglione era stato acquistato con gli ultimi soldi rimasti ai miei genitori, dopo quello che allora si chiamava “rovescio di fortuna”, capitato a mio padre che aveva acquistato un negozio il cui proprietario non aveva mai pagato le tasse.
Strano, ma vero, il fisco negli anni cinquanta, in casi come quello, caricava tutto l’importo evaso sull’acquirente; o forse il venditore era irreperibile. Mio padre era completamente rovinato, dopo esser stato per anni un uomo abituato a un discreto benessere. Solo pochi giorni dopo Natale, a mio padre fu offerto un incarico molto ben retribuito e con quei guadagni sarebbe riuscito a pagare quel debito e a mantenermi al liceo.
Mangio salmone molto di rado, ma ogni volta che mi capita è come se mangiassi un pezzo di quel Natale, con le facce attente e un po’ trepidanti dei miei, che avevano osato spendere gli ultimi soldi per non farmi mancare un regalo.
La Rucola Psichedelica
Al primo momento non l’ho riconosciuta; mi sono sentita costretta a essere lì e non ricordo come sono stata invitata. Sono rimasta seduta di fronte a lei per qualche secondo, in silenzio, guardandola. Mi pareva che stessimo per iniziare a pranzare insieme. La scrutavo con attenzione, osservando la pettinatura, l’abito e l’aria preoccupata – anzi non proprio preoccupata, forse più determinata, con lo sguardo duro – . Gli anni passano e quando ti ritrovi di fronte a una persona che non hai visto da più di vent’anni è inevitabile cercare i lineamenti e le espressioni con cui l’hai ricordata per tutto il tempo in cui l’avevi persa di vista.
Con lei ci ho messo un po’ a riconoscerla: infine ho ritrovato i tratti, che un tempo mi erano familiari, ma non c’è traccia alcuna dell’espressione di un tempo. Una volta P. era bellissima, non appariscente, alta e con un corpo snello ma forte, forse ereditato dalla madre che era bracciante agricola: un’alchimia di caratteri ben mescolati, come succede per certe creature in apparenza eteree, che poi ritrovi a sfilare in passerella; giovani donne con l’aria assorta come se stessero covando un sogno impossibile. Lei invece ha sempre avuto un’espressione di scontentezza che le lasciava una ruga tra le sopracciglia, ma senza incidere nell’armonia dei lineamenti, nella sua bellezza notevole.
Non ho capito perché abbia voluto vedermi e soprattutto perché abbia scelto di confessare di aver ucciso; anzi, non credo che confessare sia l’espressione giusta, credo che abbia voluto coinvolgermi o implicarmi. Inoltre non ha usato proprio un’espressione chiara, per dirmelo. Ho pensato che sia successo per soldi, anche se non mi era mai sembrato che ne avesse bisogno, ma non so quando l’omicidio è stato commesso, e nemmeno chi è stato ucciso e come è avvenuto … Forse ha ucciso il marito?
Mi sono resa conto che non volevo sapere niente di niente e che il disagio iniziale si stava trasformando in paura, mentre proprio davanti a me lei si era messa a scavare e tutto a un tratto sembra che voglia tirar giù un intero pezzo di muro. La parete è ricoperta di piccole piastrelle come quelle di Bisazza, ma un po’ più grandi: lei ha incominciato a tirarne via due, facendo leva con un attrezzo che mi sembra troppo piccolo per un lavoro così impegnativo. Riportare alla luce un corpo non è una cosa da niente, e poi che farne? Ho provato a protestare, non so se riuscirò ad andarmene, se lei me lo permetterà.
La mia vita improvvisamente è stata sconvolta da questo incontro; mi sento travolta dalla situazione in cui sono scivolata quasi per caso, per distrazione, per incuria o per una mia negligenza …
Mi salva una spada che preme nella schiena: un dolore acuto, breve e profondo, ma sopportabile. Controllo se riesco a respirare e mi accorgo che va bene. Tutto a posto.
Sono stata nella vigna delle mie figlie, prima che iniziasse la vendemmia “vera”, quella più impegnativa da punto di vista delle attese e della suspense. Passano e ripassano, diradano, ‘buttano giù’ come dicono i vignaioli e a me continua a sembrare eccessivo. E’ un processo lungo, punteggiato dal tempo che fa, dalle variazioni della temperatura e dell’umidità.
Sono andata a vedere l’uva che sarebbe stata protagonista della vendemmia più impegnativa e ne ho approfittato per cercare un po’ di rucola al naturale per corroborare la mia insalata. Ma non l’ho vista: sono così abituata a quella che trovi dall’ortolano, in mazzetti, che non riuscivo a distinguerla. Anche perché la visione della terra, intesa come ‘ground’ elaborato, fatto di micro presenze, sassolini, stecchi, insetti, i minerali che danno colori diversi alla sostanza che chiamiamo terra e che è in realtà una miscellanea organica e inorganica, piena di vita, e di vite che interagiscono tra di loro, è così emozionante. Ti passa un film sotto gli occhi, se ti metti a guardare. E ogni erba ha una sua forma (e una sua personalità!). La rucola assume forme diverse e mia figlia me la indica, aiutandomi a coglierla. Io scelgo con cautela – con le erbe non si scherza! – e mi aiuta l’odore forte (fortissimo) di questa insalata.
A Milano abbiamo incominciato a mangiare rucola negli anni sessanta, in due o tre ristoranti toscani; l’uso di quest’erba è poi dilagato rapidamente; c’è stato un periodo in cui non c’era piatto senza rucola. Abbiamo iniziato con il “carpaccio” (allora solo di carne) e poi l’abbiamo anche messa nelle insalate, abbiamo guarnito gli arrosti, il pesce, (la pasta e i ripieni) e via a tutta rucola, per finire sulla pizza, dove mantiene ancora oggi un ruolo costante. Ma questa rucola di campo raccolta nella vigna mi rimanda a quelle che forse sono state le sue possibili qualità ‘primitive’ (chissà). Un’erba che fa sognare sogni un po’ stralunati, che porta a galla sentimenti e dolori, riflessioni e pensieri e storie di cui non ci si ricordava nemmeno più. Ai tempi dei tempi questa rucola avrebbe avuto un ruolo ‘psichedelico’, e una poetica conseguente, altro che “carpaccio”! Questa rucola muove i sogni più che condire la pizza.
Lettera a Simone
Caro Simone, questo post è dedicato a te. Tra le foto alle mie spalle, nel ritratto che mi hanno fatto in quello che era il mio ufficio prima che facessi “carriera” (a te non ho bisogno di spiegare le virgolette), ce ne dev’essere anche una di te bambino – perché allora eravate bimbi e io facevo parte dei genitori democratici del Trotter -. Questa foto mi piace molto, la trovo interessante, perché racconta più che un tempo un mondo: basta guardare i due telefoni sulla scrivania per accorgersene. E poi c’è il Gabo, ritratto nel suo paesaggio fantastico, e riconosco anche la copertina di un manuale pubblicato da Advertising Age. Non ho dimenticato niente di quella scrivania ante carriera, perché facevo un lavoro molto divertente; in quel preciso periodo stavamo lanciando una collana di libri d’azione dedicata a un pubblico maschile appassionato del genere: fu un flop memorabile. Infatti quel genere di maschi non legge, o forse dovrei scrivere ‘non leggeva’, perché mi riferisco alle ricerche di mercato di allora. Però le cose, a quel proposito, non sono migliorate con gli anni, anzi.
Ho imparato da tempo che quelli che leggono sono meglio degli altri; non perché sono più buoni o gentili, ma perché conoscono il significato delle parole e delle frasi che uno dice e sono in grado di interpretarle e reagire comportandosi di conseguenza: ogni giorno ho modo di constatarlo. Ma forse dovrei correggere questa riflessione e scrivere che ‘quelli che leggono sono più fortunati degli altri’, perché hanno più modo di capire – ammesso che di questi tempi sia una fortuna. Ogni tanto però io penso di avere letto troppo; sì, lo so non è mai troppo, però a me succede di passare da un ‘registro’ all’altro, forse con un certo compiacimento, o forse sarebbe più corretto dire che facendolo provo un piacere tutto personale, difficilmente condivisibile con quelli che stanno qui intorno; per questo – nonostante la terra mi emozioni profondamente – il luogo in cui vivo mi sta sempre più stretto.
E’ qualcosa che mi fa sentire distante dagli altri. Allo stesso tempo mi rifiuto di far parte di un paesaggio umano distante dal mio modo di sentire. Credo che la radice di questo sentimento – abbastanza imperscrutabile – stia tutta in una scala di ‘valori’ (ma si usa ancora questa parola?) che mi si è formata in testa, vivendo. Non che io sia già morta, anche se qualche volta faccio finta di esserlo.
Caro Simone, quando Gianmaria mi ha scritto che tu leggi queste cronache e ogni tanto le commenti con lui, il suo messaggio (cioè anche il tuo) mi ha colto nel mezzo di una riflessione che potrebbe cambiare la mia vita, o meglio: il mio modo di vivere. Mi interessano (e mi riguardano) le notizie che mi arrivano su di te e sugli ex-bambini che ho guardato crescere. Mi interessano e mi riguardano le vostre scelte e i vostri sentimenti. Quando vi penso è come guardare in uno specchio; è troppo difficile scrivere l’effetto che mi fa, ma credo sia utile chiarirti che è balsamico. Ti sembrerà incredibile, ma invecchiando senza nostalgie e con un forte desiderio di futuro, l’idea di conoscerti ancora è fortemente energetica. Quindi questo post, caro Simone, è dedicato a te (ma anche un po’ a me).