Il Vello d’oro

Il bimbo dorme; la sua fisionomia ha qualcosa di familiare, con una lieve nota esotica. Sono giorni – forse settimane  – che mi capita di seguire le immagini che lo ritraggono. Non l’ho mai incontrato, ma mi accorgo che quasi ogni giorno leggo le sue notizie, quelle dei suoi progressi, dai primi, primissimi, passi, ormai parecchi mesi fa. La testa appoggiata sul cuscino – il piccino è immerso in un sonno profondo e sereno – mostra il profilo, un naso che diventerà interessante e la piccola bocca socchiusa. Mi colpisce la forma dell’orecchio, che in questa posizione si legge bene anche nelle sue proporzioni rispetto alla testa. Mando un commento sul disegno dell’orecchio e l’impressione che mi suscita. Dà un’impressione di vitalità inconsueta, di bella energia; mi viene in mente mia nonna (o forse era mia madre) che mi diceva che la forma dell’orecchio racconta molto di noi. Niente di esoterico, piuttosto si tratta della saggezza di chi è vissuto a lungo e ha visto molti volti imparando a osservarli e a metterli in relazione con comportamenti e malattie. Mia nonna aveva anche curato e guarito, nel modo dei semplici, parenti, amici e conoscenti, e poi anche estranei, perché aveva un buon istinto: c’era la terribile ‘spagnola’ e tutt’intorno morivano tutti. Le cure della nonna le ho ritrovate nei ricordi di Fosco Maraini – in una sua bella e intensa autobiografia, scritta nei suoi ultimi anni -, identiche a come me le narrava la nonna, attribuendole a una vecchia maremmana da lui conosciuta in gioventù. Centinaia di chilometri dai luoghi della mia famiglia, ma negli stessi anni.

Dal bimbo, invece, mi separano migliaia di chilometri, ma a lui mi legano fili diversi: conoscevo bene sua nonna, tanto da poterla chiamare amica, anche se ci si vedeva poco. Suo padre ha lavorato dove ha lavorato anche mio figlio ed entrambi hanno lasciato per ragioni analoghe. Il bimbo porta il nome di un mitico cacciatore. La preda era quel vello d’oro che aveva il potere di curare le ferite. Da quelle mie forse sto guarendo, e potrei ridisegnare a memoria l’orecchio del giovane cacciatore lontano.

Inganni e incertezze

“Penso che sia molto più interessante vivere senza sapere piuttosto che avere risposte che potrebbero essere sbagliate … non mi spaventa il fatto di non sapere le cose, di essere perso in un universo misterioso senza avere alcuno scopo – che poi è il modo in cui stanno le cose, per quello che so”. E’ proprio curioso che a scriverlo sia stato un genio della fisica, addirittura un Premio Nobel, uno scienziato che non aveva pregiudizi né ritegno a sconfinare in territori estranei alla sua materia e al suo sapere.

Ma diventa comprensibile che l’abbia scritto – il fisico Richard Feynman – un fisico dei quanti. Questo suo pensiero mi rimbalza nella mente, chiacchierando con un’amica che mi ricorda che le particelle della materia sono diverse, a seconda di chi le osserva. Non è davvero un pensiero da bar, anche se siamo due vecchie signore al bar del paese, e probabilmente io sto citando questa cosa delle particelle in modo – non solo colloquiale – molto approssimativo. Pare strano che tutti abbiano la quantistica a fior di labbra, magari in modo semplice, ma ne sento parlare da un po’ di tempo in qua, talvolta anche in modo serio: c’è chi la studia, provenendo anche da percorsi molto lontani, o anche solo per passione.

E’ un interesse scientifico che riesco a capire, perché mi evoca un’elasticità mentale che aiuta  in questi tempi di incertezza di tutto e di totale mancanza di sicurezze. Si vacilla come se mancassero punti certi a cui riferirsi; addirittura, mentre lo scrivo, mi affiora un residuo di sogni recenti che forse avevano a che fare con questo sentimento … quasi mi blocco, mentre insolve il flash dei ricordi. Miracoli della quantistica, potrei pensare. Come quando osservo un soggetto che vorrei disegnare e la luce me lo trasforma sotto gli occhi? I punti di domanda sono d’obbligo, perché “tutte le teorie che abbiamo sembra si possano riscrivere in molti modi, e guardare da un gran numero di punti di vista fisici.”. E’ di nuovo un pensiero di Feynman, trovato aprendo a caso il bel libro (Adelphi) che ne riporta le numerosissime battute e i pensieri che ha condiviso in innumerevoli conferenze.

E’ una lettura che che parla di incertezze, ma induce alla serenità. Credo che il professor Feynman si sia pochissimo interessato dei fatti altrui, in generale, e anche alla politica (sempre in generale). Penso che, invece, si sia lasciato andare all’amore per chi gli era vicino. Sfoglio il libro e trovo alcune foto che mi pare testimonino proprio questa pienezza. I figli, la moglie – anzi le mogli: ne ha avute tre – e un continuo ‘andare in profondità’, come lui stesso scrive. Non ha avuto una vita lunghissima, questo professore, ma, in compagnia dei quanti, deve essere stata una vita assai impegnata e felice. Mi chiedo se la fisica quantistica possa aiutare a essere migliori … Un’amica lontana (non quella con cui ho chiacchierato al bar) sostiene che sia la chiave per riuscirci.

Sassi

Pensavo (e dicevo) poco fa, a un’amica, che riesco a ricostruire il momento preciso in cui ho deciso di divorziare. Perché ti separi da qualcuno a cui sei legato non solo formalmente quando capisci che quello che ti divide dall’altro è troppo. Troppo grande, troppo profondo, incolmabilmente e insopportabilmente grande e profondo. Quando le diversità non sono più ‘divertenti’ o interessanti, ma appaiono per ciò che sono: il sintomo di obiettivi e traiettorie di vita che ti sono completamente estranee.

Non succede solo con le persone, ma anche con le cose e con i luoghi (anche se – ammetto – i luoghi sono determinati da chi li abita). Io trovo insopportabile stare in un luogo dove la gente ti parla per dirti sistematicamente male di qualcun’altro. Il colmo mi è capitato stamattina quando ho salutato una persona che stava lavorando a qualcosa; la cosa a cui stava dietro è di un’altra persona a cui si faceva verosimilmente un favore. Ho pensato perciò alla gentilezza da parte di chi eseguiva quel lavoro, invece chi eseguiva quel lavoro – avvicinandosi – mi ha ‘regalato’ un commento gratuito di inaudita cattiveria, proprio sulla persona a cui stava facendo il lavoro … Credo che divorzierò anche in questo caso.

Lo sanno anche i gatti: è la campagna a tenerci legati ai luoghi; la campagna e qualche abitante gentile. Scopro ogni giorno che la mancanza di gentilezza d’animo è indispensabile alla mia vita. Non solo la gentilezza degli altri, ma anche quella a cui so di essere incline, per educazione ricevuta in famiglia, perché mi fa star bene. Non la gentilezza di chi ti è grato per qualcosa, ma quella gratuita. Se non è gratuita non mi interessa. La grettezza mi spaventa e mi racconta un mondo in cui non vale la pena di vivere.

Salgo in casa e trovo, ben stesi e allineati sul tavolo di marmo, recuperato da un appartamento di via Settala, gli asciugamani di candida fiandra cuciti da mia nonna per il corredo di mia madre. Uno accanto all’altro; sopra di essi, disposti in belle file ci sono i funghi trovati nel bosco sopra casa, sono stati scottati nell’aceto e ora stanno asciugando in attesa di essere messi sottolio. Quando si dice un’idea profondamente diversa e un diverso modo di sentire.

Buonanotte è per sempre

I segnali non erano mancati. Perfino un capriolo che caracollava contromano, alle undici di mattina, che sembrava un cane smarrito. Ma anche qualche lampo nella memoria e una certa urgenza di telefonare (mai ripromettersi di chiamare qualcuno che non senti da anni: chiama e via). Un’urgenza tardiva.

Questi telefoni sono infernali. Inviano suoni ipnotici che ti costringono a guardare lo schermo: così ho capito che era arrivato un altro messaggio. Ho accostato a destra, a metà della discesa sotto Montisi, con un giro largo, per evitare di schiacciare una foglia morta che stava accartocciata in mezzo alla strada. C’era un vento forte, come di mare, e la foglia si muoveva raschiando l’asfalto. Insomma ci ho messo un po’. Poi mi sono fermata, ho aperto il telefono e ho visto il messaggio.

Di Mario mi restano solo un bel collage, un cache-col preso a Lodi nella boutique di un amico, e una campana a vento che veniva dalla California, di quelle che in luogo del battacchio hanno una specie di vela fatta con una lamina di rame: se c’è vento suona e fa un suono attutito e un po’ malinconico.