Sul mare luccica: è Montalcino

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Già eravate al corrente del vino – dei vini, per l’esattezza (mica c’è solo il famoso Brunello di Montalcino!) – forse avete sentito dire del paesaggio (“c’è un salto qualitativo tra il resto della Toscana e questi colli, quando svolti lasciando la Cassia e prendi la strada che scollina – Traversa de’ monti – in direzione di Grosseto…” mi sospirava un famoso copy di un’ancor più famosa agenzia); qualcuno, maliziosamente , può avervi suggerito che qui se la tirano parecchio (ed è meglio sorvolare). Vi avranno parlato di certo delle terme disseminate, qua e là (San Filippo, Petriolo, San Casciano, Bagno Vignoni, Rapolano, Bagnacci, …) dimenticando – o non sapendo – che le acque termali abbondano anche tra i filari delle viti …
Qualcuno vi avrà raccontato le meraviglie dell’Amiata (absit iniuria geotermiae), magari l’avrete pure vista innevata o avrete fatto chilometri nelle faggete silenti e misteriose …
Ma quasi certamente nessuno vi avrà raccontato della visione del mare, che luccica in due o tre punti – tra Montalcino e la frazione di Sant’Angelo in Colle -, un’apparizione capace di raccontare meglio di qualsiasi parola quale sia il contesto psico – geo – immaginifico in cui si trova questo lembo di Toscana.

FURORE

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Rileggo spesso i libri già letti; la seconda lettura è come quando torni a cibarti con una specialità che ti aveva appagato, che ti ha lasciato un ricordo attraente – proprio come succede quando vai in vacanza nel luogo perfetto o ceni nel ristorante dove sai che ritornerai, perché niente ti ha deluso, anzi ti è rimasto un ricordo tale che hai sempre voglia di ritornarci.
Lo stesso accade con i libri; ma se c’è un libro che non rileggerei volentieri è proprio “Furore”, per la sua carica di disperazione, perché ti fa toccare con mano com’è la vita senza diritti, che cosa succede quando la terra finisce nelle grinfie dei poteri distanti dalla gente, quando i conflitti sociali erano spersonalizzati come il cuore di un tornado che tutto spazza via.
Eppure bisognerà che lo rilegga, per rinfrescarmi la memoria e trovare l’energia e la lucidità per controbattere – insieme a tutti quelli che lo stanno facendo – l’allucinante progetto che minaccia i comuni – popolazione, attività agricole, turismo, paesaggio, economia – del comprensorio Amiata – Val d’Orcia – Maremma.

Problemi Centrali

disegnando val d'Orcia

La storia si ripete, sempre allo stesso modo. Stai un bel posto; un luogo rimasto com’era perché eravamo troppo poveri per pensare a qualcosa che non fosse la pura sopravvivenza. Quelli intorno – vicini e lontani – più ricchi di noi venivano a vedere il paesaggio che allora non si chiamava nemmeno così, perché era un concetto sconosciuto; in realtà ci venivano perché gli sembrava di scorgere, nella nostra vita semplice, povera e così diversa dalla loro, un’idea di vita diversa, che nemmeno loro capivano bene che cosa volesse dire; però venire qui li faceva stare bene, attutiva quel senso del lunedì in cui riprendevano a lavorare e gli sembrava di essere in guerra (e guerra era, ma loro non se ne accorgevano fino in fondo: era più che altro una sensazione). In realtà, quello che gli dava un senso di benessere e di speranza, era il paesaggio, la natura, la terra – la nostra madre, di cui ci si dimentica, per una ragione o per l’altra: avidità o ignoranza, o entrambe -, era quel senso di stare in un grembo ancestrale che ti protegge dall’ignoto, dal sangue delle battaglie che si combattono nel mondo, dal rischio di disperdere il proprio sé nel cosmo buio e orrorifico. Anche tu, che ci stai, in questo posto, ti senti bene nel tuo (lasciamelo chiamare così) paesaggio. Ci stavi così naturalmente bene, che non te ne sei mai accorto. Nel tempo, i rari visitatori, di passaggio, di contemplazione, di commercio come i venditori itineranti, si sono infoltiti. All’inizio non trovavano nemmeno da dormire, era quasi un’avventura, ma un’avventura i cui rischi erano limitati alla possibilità di assaggiare le cose semplici che si cucinavano in casa o di dormire in una camera senza bagno: di respirare un’aria così diversa che sembrava di stare in un altro tempo. Le voci corrono, si sa, di bocca in bocca e con gli anni è venuta sempre più gente e da sempre più lontano. Gente con molti soldi, altri con molte idee, altri solo con la voglia di provare una vita più semplice e più ricca di emozioni, anche se meno ricca di soldi. Anche a te sono cambiate un po’ le cose in testa: se tutta ‘sta gente viene qui ci sarà pure una ragione, hai cominciato a pensare. E hai anche cominciato a guardare con altri occhi questo tuo nido natìo, che hai sempre visto e a cui eri così abituato … La storia però non la fa uno solo, si fa insieme e la guidano magari altri che si basano sui numeri crescenti di persone che si spostano o che spostano interessi e denari, e fanno i loro conti. Quello che avevi cominciato a riconoscere come paesaggio – e avevi appena iniziato ad affezionartici – muta profondamente. Tu che sei andato a scuola potresti osservare a questo punto che i paesaggi sono sempre cambiati – lo sapeva bene Renato Biasutti, che li ha classificati, quasi un secolo fa -; il cambiamento è nella natura delle cose. Tutto cambia e noi che al cambiamento ci siamo dentro, anche noi cambiamo. Sì è vero, però dipende come, quanto, e perché (e a che prezzo). C’è sempre un prezzo da pagare e questo tu lo sai, anche se ovviamente non ci pensi continuamente. Quello che ti preme è essere un po’ più come quelli che tu guardavi con rispetto e un po’ di timore e non essere sempre guardato da loro come una via di mezzo tra uno fortunato (perché sta qui, e un poveraccio). Poveraccio non perché non hai soldi abbastanza (ce n’hai anche per toglierti qualche sfizio che un tempo manco ti immaginavi), ma perché ti sembra che quelli che arrivano da fuori la sappiano sempre più lunga di te. Infatti è proprio così. Il figlio del tuo vicino è entrato in politica, per quello, e lui con quelli ci sa fare. Contratti, impegni, finanziamenti, crescita, sviluppo, affari; e poi crescita sostenibile, prodotti a chilometro zero, etica dello sviluppo, globale, locale, glocale. Le parole sono tante e affascinanti. Prendi territorio, per esempio …  se si contassero (e lo fanno) le volte che viene scritta e pronunciata questa parola, ti stupiresti della sua frequenza nei discorsi della politica. E’ solo perché hanno scoperto che si può vendere e ci si possono fare affari. E non c’è niente di male a fare affari, finché non si arriva ai “derivati”, quella parola che abbiamo incominciato a conoscere quando abbiamo cominciato a capire che la festa era finita. E’ anche la parola che ci  può aiutare a capire perché paghiamo tutto così più caro di quanto, in realtà, potrebbe (dovrebbe) costare, a cominciare dal petrolio. Per farla breve un po’ sommariamente, è la finanza, anzi sono i costi che ci vengono imposti dalla finanza. Be’ la finanza si scanni pure, ma tu te ne stai nel tuo nido protettivo, guardi dalla finestra e vedi quel bel paesaggio (sì un po’ cambiato da quando eri piccolo, ma sempre molto rassicurante, nella sua familiarità armoniosa, con le colline e ancora molti boschi e la strada che segue il terreno con grazia) e poi esci e ci vai a camminare dentro, coltivi il tuo uliveto e la tua vigna, hai una bella proprietà e ti basta andare un paio di volte all’anno in mezzo al mondo e quando torni hai ancora più voglia di restare qui dove stai … anzi, andare in giro ti conferma che il tuo luogo è molto bello e hai cominciato a capire perché arrivano da tutto il mondo a vederlo, e a mangiare e ad assaggiare tutto quello che tu e gli altri avete cominciato a vendere e a sviluppare: perché per te lo sviluppo è questo, è fatto sulla tua misura. In fondo “a misura d’uomo” è un concetto nato e cresciuto dalle tue parti. La Cappella de’ Pazzi è a Firenze, mica a Mosca o a Singapore, e nemmeno a Filadelfia. E il Rinascimento cos’altro ha voluto dire se non “sviluppo”? Uno sviluppo sostenibile, perché ha voluto dire abbandonare concetti vecchi e anche un po’ cupi, per ripartire con una serie di nuovi criteri. Caro mio, se mi hai seguito fin qui devo darti una notizia: stiamo ripartendo di nuovo, perché la festa è finita davvero. Ora però non si capisce bene dove si va a parare, né se ci sarà ancora qualcosa per te, per me – per noi – alla fine di questo capitolo. Non voglio essere pessimista, però bisogna che tu sappia che se vuoi che ti rimanga qualcosa del tuo nido rassicurante, se vuoi ancora sorridere – tra qualche anno – guardando fuori dalla finestra, bisogna che ti prepari a essere molto attento a quello che ti succede intorno, devi sapere che niente più sarà gratis, non potrai dare più niente per scontato e non sarà facile far capire a quelli che pensano di diventare molto ricchi, che non possono espropriarti dei tuoi sogni.

Una sera con Furore

A cosa serve leggere libri – in particolare i romanzi -? Mi rispondevo mentalmente da sola lo scorso giovedì sera, mentre mi tornava in mente la trama di “Furore”, (ovvero The grapes of Wrath, tradotto impropriamente come ‘grappoli di odio’) …Mi rispondevo mentalmente, ricordando la situazione da cui prende le mosse il romanzo di Steinbeck e accostandola all’assemblea gremita – ma tranquilla (tranquilla, ma non supina) – a cui stavo partecipando, e riflettevo sugli eterogenei interessi che riguardavano sia i partecipanti presenti, sia i molti soggetti coinvolti assenti. Che cosa c’entra la lettura di libri con le centrali geotemiche che la regione prevede di installare tra Amiata e Montalcino?

E a che serve leggere i romanzi? A capire meglio e a vivere come proprie le esperienze degli altri; o a riconoscere le situazioni e le loro dinamiche, anche quando sono meno palesi, forse . Chi ha l’abitudine all’informazione non sempre utilizza quella che gli viene dai romanzi che ha letto. Questi solo apparentemente ci rappresentano una finzione; perché chi scrive romanzi ci mette sempre un pezzetto della propria storia o di quelle che ha visto accadergli intorno. Perché le storie degli uomini si inseguono, sospinte da pulsioni identiche, e a saper distinguere ci sono anche i buoni e i cattivi. L’altra sera proprio Furore mi tornava alla memoria, una lettura giovanile che mi aveva turbato nel profondo; mi aveva angosciata l’idea di quelle famiglie spossessate, costrette a lasciare una vita e andare via senza speranza e senza futuro. 

Di certo il contesto in cui mi trovavo non aveva le tinte drammatiche di quel romanzo (che peraltro non è pura fantasia, bensì una storia che ci riporta ai tempi della grande crisi negli Stati Uniti); ma continuava a farmelo tornare in mente e dati i tempi che stiamo attraversando mi sono chiesta se qualcosa lì sospeso a mezz’aria, o dietro agli occhi attenti di quelli che ascoltavano senza un mormorio o un gesto di polemica, mi aveva suscitato il ricordo di quel libro così lontano.

Non rileggerò subito Furore, ma lo cerco e me lo tengo a portata di mano. E’ una lettura scomoda e pesante, fatta di questi tempi, ma è persino un libro con un lieto fine, anche se non per tutti i protagonisti della storia. E sono convinta che rileggere quel libro – corposo e apparentemente inattuale – aumenterà la mia capacità di capire.

Annegare in un bicchier d’acqua, con una fetta di salame in mano

La chiamano “bomba d’acqua”, perché ormai ciò che conta è la parola – che fa audience -: perché i fatti li abbiamo ormai dimenticati, da tempo; non i fatti staordinari (che ormai si chiamano ordinariamente eventi, come se fossero attività spettacolari costruite per richiamare l’attenzione di un pubblico), tipo alluvioni, smottamenti, crolli, frane, sprofondamenti, eruzioni, allagamenti, terremoti, maremoti; ma penso proprio a tutte le attività quotidiane di manutenzione di un paese – il fare, appunto – che dovrebbe metterci al riparo dalle catastrofi da cui siamo quotidianamente colpiti. Riparare, pulire, rimettere in sesto, aggiustare, risistemare, restaurare, riordinare, ricollegare, consolidare: sono diventati verbi troppo umili per piacere a un mondo di cui leggiamo le gesta, qualche volta i gestacci, sui giornali o (chi ce l’ha e la guarda) in televisione.

Mentre la gente normale si accinge a rivoltare il cappotto (chi ce l’ha ancora), seguendo involontariamente le linee guida della decrescita (in)felice – così come ce l’ha ammanita il buon professore Latouche -, il milione circa di individui che vivono spensieratamente questa stagione di retroversioni, facendo affari d’oro alle spalle di un paese che pare un animale moribondo assalito da saprofiti, elabora progetti fantasiosi che solo tre anni fa sarebbero stati catalogati come assurdità impensabili.

Apprendo che pare si stia considerando di aprire un Eataly nel complesso del Santa Maria della Scala a Siena, dove i prodi amministratori senesi (e dintorni) non sono finora mai riusciti ad accordarsi per un progetto museale adeguato alla grandezza morale e spirituale del luogo. Se questa notizia sfiorasse anche solo da lontano la verità delle cose, sarebbe un rilancio singolare del pellegrinaggio sulla Via Francigena. 

I nuovi pellegrini (la parola intesa nell’accezione lombarda) verrebbero comunicati con l’opportuna fetta di finocchiona (fatta con maiali importati dagli allevamenti intensivi tedeschi), mentre il paese (la provincia di Siena come parte di un tutto) affoga in un bicchier d’acqua piovana DSCN8785