Meritarsi la Vecchiaia

Anche se si spendono infinite parole per celebrare la vecchiaia come il momento in cui i pensieri si fanno più profondi, la visione più nitida (ma non la vista!), l’intuito si affina, invecchiare può essere una iattura.
Tutto scorre meglio, e diviene, più felicemente se i compagni di strada sono di qualità.
L’incidente di percorso che mi ha costretta a riposo quasi totale ha lasciato spazio a due libri che mi son letta con un occhio solo. Alla fine del secondo mi sono accorto che questi due memoir – vitali, dinamici e per niente compiaciuti – affondano entrambi lunghe radici a est, come sempre più frequentemente mi succede. (Anche la tela di Lisa Corti viene da est!).

L’occhio vuole la sua parte

Se avete la pelle chiara e magari anche gli occhi chiari e i capelli biondi o rossi, queste poche righe che riesco a scrivere sono dedicate in particolare a voi.
Chi ha le suddette caratteristiche ha probabilmente anche la retina poco pigmentata e – soprattutto – fragile. Se siete anche miopi, abbiate molta cura dei vostri occhi, perché sono esposti – più della media alla rottura e al distacco della retina.
Una delle precauzioni da prendere è quella di bere molta acqua – sempre -; inoltre se avete fatto uno sforzo straordinario, oppure se avete subito un trauma, andate a farvi fare un controllo dall’oculista.
Il sintomo da “guardare” con particolare attenzione è piccolo e insidioso.
Avete presente la scia di un aereo ad alta quota che attraversa il cielo? Ecco un attraversamento luminoso e subitaneo del vostro campo visivo (un piccolo lampo che scompare subito, salvo reiterare, magari dopo qualche ora) può voler dire che la vostra retina si è rotta. Intervenendo subito ambulatorialmente con l’apposito laser, il tutto si risolve in mezz’ora. Altrimenti vi può succedere quello che mi è accaduto domenica scorsa: la retina rotta inizia a distaccarsi e l’epilogo della storia è la perdita della vista, in modo irreversibile.
Io, pur vergognandomi un po’ (era domenica e andavo a rompere le scatole al pronto soccorso) mi son fatta portare in ospedale e – pare – ho scongiurato questo rischio. Tuttavia vi scrivo con un solo occhio, perché l’altro ha voluto la sua parte ed è saldamente bendato.
Perciò vi chiedo scusa per i refusi, ma mi merito un grazie per questo avviso ai vedenti.

Allons Enfants!

Quando nasci l’otto di marzo in Mangiagalli,  con la luna piena e una tempesta magnetica in fase acuta, non puoi che metterti a cantare: avanti andiamo, il mio tempo è ora; andiamo a cambiare il mondo; per questo sono nata, per questo sono qui; fate posto, la notte è finita.

Storia di un vecchio muro.

Guardavo questo muro e vi ho visto – con gli occhi della mia immaginazione – quello che sospinge così tante persone a interessarsi della terra, delle cose di campagna, talvolta a innamorarsi di una vecchia casa rurale, di un contesto che va sparendo, insieme alle superfici coltivabili. .

Qualcuno potrebbe suggerirmi che non sta sparendo niente, che tutto invece si modifica, ma io resto della mia idea, che è un’idea di estetica che sconfina nell’economia.

Avete mai provato a domandarvi perché uno dovrebbe acquistare una casa molto vecchia, spesso malandata, senz’acqua, con un tetto fatto di vecchissimi coppi (massì, diciamoli pure antichi!), in un luogo fuori mano? Invece di costruirsene una nuova nuova, con tutte le cose che servono al loro posto, e spendendo infinitamente meno: insomma una villa, anziché una casa da contadini.

La risposta è nelle storie che i muri vecchi ci raccontano. La passione per i vecchi casali sparsi nelle campagne italiane – in particolare nella Toscana (v. La casa rurale nella Toscana, Renato Biasutti, ancora reperibile in alcune librerie specializzate) – è legata a una diffusa nostalgia per una vita (a cui molti tornano a guardare con interesse e speranza) più ‘umana’.

In un podere, ogni aggiunta, ogni modifica, ogni apertura nuova, ogni finestra murata, ogni tettoia (‘parata’) ha un suo perché, legato alla vita e al lavoro quotidiano, agli animali allevati e al tipo di colture che vi facevano capo. Le vecchie case di campagna portano, stratificati e leggibili, i segni e le testimonianze delle vite passate e ci permettono di leggerne la storia. I materiali usati, il lavoro degli uomini, il tempo che passa, sono i tre ingredienti che danno un carattere a questo pezzo di muro, rendendolo unico e inconfondibile; di questo si va alla ricerca, in tempi di post-globalizzazione!

 

 

Mulini a vento

“E’ tipico, ed è anche a chilometro zero, è ecologico e sostenibile. Lo trovi in una bottega, al centro del borgo antico, dove la filiera è corta e tutto giunge dal podere e dalle fattorie (o dalle cascine) dove lavorano i contadini, che coltivano l’orto e i loro doni della terra li tengono nella loro madia per darli poi a te. Sono prodotti fatti in casa, praticamente dalla mamma; è tutto casalingo, è tutto naturale, è tutto fatto come una volta, ed è anche ecologico, inoltre il sapore viene da un sapere antico, o meglio dagli antichi saperi, per finire sulla tua tavola, con l’amore con cui sono prodotti, senza dimenticare la filiera corta.”

La finta riscoperta della terra prese le mosse dal Mulino Bianco -linea nata dall’ingegno di un pubblicitario per ‘rinnovare’ i bilanci di un grande pastificio – che ci ha proposto, due generazioni fa, buoni prodotti (industriali) dal gusto innovativo che coglievano quello che allora era appena un refolo: la riscoperta della terra e la nostalgia della ruralità; luoghi da cui il nostro paese era appena scappato – di corsa per andare in fabbrica -, e da cui le classi più semplici ancora stavano fuggendo.

Una storia che tutti i pubblicitari conoscono bene, un marchio che ora viene declinato in altri modi, secondo logiche dell’azienda a cui esso appartiene. Una storia che ha ‘sdoganato’ la terra e la campagna, che prima erano luoghi di marginalità, di fatica, di scomodità, di negazione di tutto ciò che era moderno e piacevole.

Una storia che oggi dimostra – se mai ce ne fosse bisogno – la pochezza del sottobosco di saprofiti che non l’hanno capita, come non hanno capito minimamente che “le cose buone di una volta” o te le propone l’industria (che non bisogna demonizzare se non si traveste), o bisogna che siano autentiche. Altrimenti, facendole il verso, distruggono ciò che resta della verità della terra.

A Milano, c’era a quei tempi il vecchino col canestro – pani di burro rigorosamente senza marchio, uova fresche, formaggi e formaggelle, il grana, e qualche filo di paglia (‘rimasto appiccicato’) – che girava per gli uffici più ricchi offrendo i prodotti di cascina a un prezzo che era circa il triplo di quello normale. Dopo anni si scoprì che il vecchio si approvvigionava alla “Cascina Rosina”; i prodotti erano buoni, ma il prezzo era galatticamente gonfiato.

Ora ho un po’ nostalgia del vecchietto furbissimo, che aveva capito che aria tirava, filo di paglia incluso, quando vedo gli exploits dei suoi succedanei sempliciotti che propongono la finta campagna, i finti contadini, la terra finta, con parole rubate che contengono solo aria fritta, cercando di fare affari alle spalle di quelli che con la terra ci campano e degli altri che hanno capito che la terra è la cosa più concreta che c’è.

 

Parco Archeologico

Andate mai a teatro? Allora avete presente la parte del leone che hanno le luci nello scuotere il nostro immaginario, nel farci solo intuire o invece spiattellare drammi, storie, situazioni angosciose o pura gioia. Così può succedere a chi coltiva l’alba come un momento di rivelazioni, di apparizioni, di magia, proprio come a teatro.
La luce insolve e crea – anche quello che non c’è – ti mostra e ti nasconde, ti lascia intuire il futuro, magari ponendolo ‘in buona luce’. L’alba è un racconto che si ripete ogni giorno, ogni giorno in modo disuguale rispetto a quello che l’ha preceduto.
Mai lo stesso colore, mai lo stesso indugiare; mentre le giornate cambiano, cambia anche il tempo meteorologico, scorrono le stagioni, le piante e la terra procedono con il loro ritmo e tutti e tre questi fattori producono – insieme – ogni giorno uno scenario diverso, su cui si rappresenta una nuova commedia, o un dramma, o una tragedia, o magari una pochade.
Avant’ieri la luce ha sfiorato alcuni resti; i resti di un’opera incompiuta tuttavia capace di incidere nel contesto, e di raccontare una storia. Una testimonianza di ciò che riesce (anche) a fare la politica, quando si dimentica di sè stessa. Una testimonianza per i posteri, un documento che diverrà archeologico e racconterà, a chi non c’è ancora, ciò che noi non siamo stati: intelligenti e lungimiranti. Per tacer del resto.