Più vedo, più guardo. Più leggo, più capisco

 

DSCN1939“Sia io, sia Vasilij Ivanovic siamo sempre rimasti colpiti dall’anonimia delle varie componenti di un paesaggio, così pericolosa per lo spirito, dall’impossibilità di non riuscire mai a scoprire dove conduce quel sentiero che … e guarda com’è invitante quel folto d’alberi! Capitava che su un pendio lontano o in uno scorcio intravisto fra le piante comparisse e, diciamo così, restasse immobile per un istante, come l’aria trattenuta nei polmoni, un luogo tanto incantevole – un terrazzamento, un prato, l’espressione perfetta di una bellezza tenera e benevola – da far credere che fosse possibile fermare il treno e andare là, per sempre, da te, amore mio … Ma mille tronchi di faggio già balzavano avanti forsennati, turbinando in una pozza sfrigolante di sole, e di nuovo svaniva l’occasione di raggiungere la felicità”

Anch’io come Vasilij ho imparato il paesaggio nei lunghi viaggi in treno fatti con mia madre che mi esortava a guardare e a ‘vedere’ ciò che guardavo. Sono stati i libri, poi, a darmi gli strumenti per leggere anche le emozioni che provavo e che continuo a sentire nel guardare e vedere il paesaggio, i paesaggi – anche i più consueti -. Ho trovato quel sentire, così ben descritto nei racconti di Vladimir Nabokov, quelli raccolti sotto il titolo “Una Bellezza Russa”; la citazione è tratta dal racconto intitolato “Nuvola, lago, castello” e penso che racconti perfettamente il sentimento di chi guarda (e vede e perciò sente!) il paesaggio in cui noi umani viviamo, camminiamo, e agiamo.

Forse sta crescendo una nuova sensibilità, ma il gusto del paesaggio (il senso estetico di ognuno è davvero influenzato da fattori e circostanze e frequentazioni) che potrebbe accomunare molti, è fortemente incrinato dalla banalizzazione televisiva e dall’arrivismo (anche legittimo in un certo senso) di quelli che, costruendosi una casa, o ristrutturandone una, o arredandola, o piantumando il proprio giardino, sono sospinti e motivati in modo confuso – nelle loro scelte – dall’incapacità di ‘provare emozioni’, se non quelle suscitate dall’idea del possesso e dai soldi. Tutt’ora!

E’ abbastanza inevitabile in un paese povero come il nostro: povero d’idee che non siano legate (ancora) all’idea di successo, soldi, esposizione di ciò che i soldi che uno ha guadagnato consentono di avere. Avere per essere, anzi per apparire, come un po’ sommariamente citava il Renzi Matteo – addobbato Scervino – (meglio essere che apparire, eccetera, si vede che gli avevano parlato di Eric Fromm) in uno dei predicozzi ammanniti all’incolto (nella sua lettura non completamente inesatta dell’italiano medio: altrimenti chi lo voterebbe?!) e un po’ meno all’inclita.

Eppure il paesaggio è un capitale sociale che solo il nostro cattivo gusto collettivo, o le rapine a cui è soggetto in questi frangenti il nostro paese, possono sottrarci. Ed è un bene importante (sarebbe), perché vivere in un bel paesaggio è alla base di una qualità di vita superiore: qualcosa che potremmo anche commercializzare, proponendola a chi non ce l’ha e viene a cercarla da noi  e siccome noi siamo un paese di non lettori, non abbiamo gli strumenti conoscitivi (e di sensibilità) indispensabili a capire e tradurre ciò che capiamo in fatti, comportamenti, modi di sentire.

A questo serve leggere: non per obbligo nemmeno per citare, e non per esibire. Troppa tv brutta, sciatta, banale hanno annichilito la vera crescita dell’Italia.

Mbube

Parola zulu che significa “leone”.
In campagna si cammina solo se si è determinati a camminare; perché amici, servizi, mete varie sono disseminati sul territorio – sparpagliati come dadi gettati sul tavolo verde, come briciole su una tovaglia dopo un banchetto -. Chi vive stipato anche bene, affastellato in un condominio di città, ha tutto a portata di mano e tutto raggiungibile a piedi. Buffo, no?! Uno pensa che l’ecologica campagna sia il luogo più lontano dalla motorizzazione, e invece in campagna tutto è lontanissimo, perciò si usa molto l’auto per muoversi.
Certo si potrebbe usare il cavallo – c’è chi lo fa – o un mulo, o un simpatico ciuco. Ma no, noi usiamo l’auto e l’auto di solito ha un’autoradio (il simpatico ciuco no, in compenso ha carezzevoli orecchie pelose) e io l’autoradio la tengo sempre accesa.
Così ho imparato che in zulu mbube significa leone; è successo ascoltando la storia della canzone tormentone di tanti anni fa (ma tutt’ora popolare) “The lion sleeps tonight”, di cui radio3 in una delle sue rubrichine ha raccontato la genesi.
Pare che gli zulu ogni tanto andassero (vadano?) a caccia dei leoni, soprattutto quando questi diventano invadenti e magari nottetempo fanno puntatine negli orti, o magari diventano molto aggressivi (ma i leoni forse sono aggressivi di carattere, no?). Quando fanno queste spedizioni, gli zulu gridano – forse per darsi coraggio – “ah tu sei il leone?”, ripetendo questo grido più volte in modo ossessivo.
Solomon Linda (un cantante di etnia zulu) ha ripreso quella frase facendone una crasi “wimoweh”, che è diventata una vera e propria ballata zulu, successivamente – e con altri vocalist – trascritta con un testo molto breve e ripetitivo – “The lion sleeps tonight” che nella versione italiana è diventato “Il leone si è addormentato” -.
Tutto questo racconto, che ho riassunto qui sopra, l’ho ascoltato con i documenti sonori che illustravano l’evoluzione di questa canzone – dal canto di caccia originale, alla versione che tutti ben conoscono – mentre tornavo da un ufficio verso casa, in macchina, appunto. Perché, se fossi tornata a dorso di mulo o d’asino, non avrei avuto l’autoradio. Che è il principale vantaggio competitivo dell’auto, rispetto al competitor equino. Si imparano un sacco di cose guidando l’auto, in campagna!

Una Zucca in Paradiso

DSCN1954 DSCN1953DSCN1950DSCN1949DSCN1951Una giornata frenetica, nell’aria che frizza e invia un presagio d’inverno. Parti al mattino: otto gradi scarsi (ma ieri erano sei). Ci scopriamo a sperare nel freddo, anche se i soliti diranno che “siamo passati dall’estate all’inverno”; ma non è vero perché l’estate non è stata estate.
Scopri di essere ancora ‘giovane’ dopo una fila di incontri complicati con varia gente che ti aiuta a costruire qualcosa che ti piace; capisci che la tua testa è una zucca piena di polpa arancione e di semi pronti a germogliare (“sei una zuccona”, mi diceva una suora particolarmente crudele, che a furia di scrollarmi – ero una bambina pacifica e tenace – mi ha fatto cadere di dosso fede e perbenismi, come fossero granelli di polvere e io un tappeto).
La giornata cresce sotto un sole che ti scalda la schiena, mentre bevi un bicchiere che oggi è sempre mezzo pieno. Poi torni a casa e rinunci a fermarti, quando, scollinando, vedi che il mare luccica sopra le montagne. Arrivi nel paese che vibra lievemente di luci e ombre: qualche visitatore guarda stupito e un po’ incredulo tutto intorno: l’infinita gamma del verde si esibisce in toni e fogge più intensi del solito. Il resto son pietre, anzi no! Percorro la via del Paradiso e dalle pietre di un patio, un ortulum misterioso e sempre chiuso, spuntano mani e braccia che ondulano nella brezza; la luce meridiana le fa luccicare e tutto ‘sto sfavillio movimentato mi dà l’idea che la creatura si esprima gorgheggiando. Allora non sono l’unica zucca in circolazione; ecco qui una concorrente che si è stabilita in via del Paradiso e ha già l’aria beata.

Topo-logo

DSCN1937DSCN1944Luce d’ottobre, radente, che disegna le asperità delle pietre e riscalda i colori di pomeriggio; di mattina raffredda gli animi e mette di cattivo umore. Una stagione messicana, per quella che è (stata) la mia esperienza, escursioni termiche e cromatiche, dal mattino alla sera, come se si fosse a due latitudini diverse: i due volti della stagione, dopo una vendemmia da cardiopalma, camminando su un filo teso tra scelte opposte. La stagione della pioggia pare finita; l’umidità della terra esce di notte e ci si sveglia al mattino con cortine di nebbie-nuvole che diventano quinte di un teatrino ogni giorno diverso.
Nelle incognite stagionali una sola certezza: questo dev’essere l’anno del topo – anche se la Cina non c’entra un bel niente – anzi l’anno del topino. Un animalino che non fa ribrezzo ma procura infiniti danni a tutto ciò che trova sul suo cammino. Topino, mi chiamava mio padre – topo, topino, topazio – e ricordo bene che io, da bambina qual ero, un po’ mi risentivo, perché i topi mi parevano animali di serie B, e avrei preferito che mi chiamasse, che ne so, passerotto, o comunque qualcosa che premiasse la mia vanità.

A causa di questa invasione di topi qui tutti si lamentano, tutti stanno in guardia – un topino in casa può farvi vedere i sorci verdi – tutti ne parlano, tutti mettono trappole. Nessuno lascia aperta la porta di casa, ma tanto i topi entrano dappertutto, anche nelle case vuote, e rosicchiano tutto ciò che trovano.
Anche Aime, la gatta di Francesca, convinta che cacciare i topi sia un lavoro, con orari precisi, si esibisce generosamente ad orario fisso: al mattino mi porta una di queste creaturine vive sull’uscio di casa, e poi inizia un ballo dimostrativo che può diventare una specie di sarabanda, con il povero topo che cerca scampo sempre più lentamente. La prima volta che è successo ho recuperato il topo vivo e l’ho portato fuori mano, in campagna. Poi ho capito che la mia era una vera intrusione in qualcosa che non mi appartiene .. Qui siamo in campagna, mica siamo a Topolinia …

Da Nada, tortelli e paesaggi che valgono più assaggi

Ha fatto tutto il caso, che non fa mai niente in modo casuale. Due donne – madre e figlia – che mi ritrovano dopo vent’anni; le relative storie che si intrecciano; la ricerca di un luogo dove sedersi per un pranzo in cui rieditare momenti tristi e ricordi felici, per rileggerli sorridendo; la Maremma e la sua luce; un’albergatrice che prenota “Da Nada” (Pensione-Trattoria-Bar-Gelateria, con terrazza panoramica), a Roccatederighi.

Questa è l’Italia non alla portata di tutti, rara, ho pensato entrando, cogliendo la luce e annusando l’ambiente: la luce è la prima cosa e nonostante sia ottobre inoltrato è avvolgente e speciale, come sotto i platani il quattordici luglio nel sud della Francia; come nell’entroterra della Liguria di ponente, d’estate quando c’era meno cemento; come appena a sud di Roma a febbraio, quando solo lì è primavera inoltrata; come sull’alzaia di un Naviglio, col sole che indora tutto emergendo dall’acqua, dove si è appena tuffato.

Poi, più che parlare o scrivere, bisogna andare e assaggiare, perché non sono Tripadvisor e nemmeno recensisco per mestiere, ma io non vivo più in città da un po’ di anni e sto in un luogo sopraffino, dove paesaggi e vini giocano a ping pong e la cucina ragguardevole non manca: so riconoscerli.

Ma quanto mi colpisce qui la luce, e l’aria che tira in questo piccolo (ma non angusto) luogo che pare l’estensione della sala da pranzo un po’ vecchiotta di una famiglia perbene. E come brillano di luce vera gli occhi dei componenti la famiglia – burbero il babbo e assai pragmatico -: Nada la si scopre alla fine, quando tutti gli altri clienti sono usciti e lei si siede a consolarsi delle fatiche di cucina (ma la sfoglia l’ha tirata con la nuora), becchettando una fetta di crostata (la sua crostata) dividendola con il marito.

Il menu è maremmano e un po’ di piatti sono già finiti; ma i tortelli ci sono e pure una pasta con le verdure che la figlia della mia amica ritrovata (dopo vent’anni) festeggia come fosse domenica (ed è domenica, infatti!). E la camerierina pallida ma suadente,  vuole rimpinzarci, ma vuole anche vederci soddisfatte.

Le foto non renderanno l’idea, ma l’idea mi è rimasta dentro e so che se voglio ritrovare quella luce speciale di quell’Italia  che i mostri del reame stanno spegnendo, torno da Nada e,DSCN1927DSCN1916DSCN1922DSCN1914DSCN1926 se piove o fa scuro, guardo negli occhi questa gente che cucina e accoglie, non a caso, come a casa.

 

Mi mangio un libro

“Mi mangio ‘sto libro” sembra comunicarmi, con squittii, mugolii, versi un po’ canterellanti, la piccola nipote a cui faccio un po’ da balia asciutta, per un paio d’ore. Per evitare che si annoi, appena sveglia, e che piagnucoli facendo sapere a tutti che sono una che i piccini li ama ma non li sa intrattenere comme il faut, estraggo un libro dallo scaffale nella camera in cui dormiva e le mostro la copertina di un bel rosa carico – narrativa di serie ‘A’ -, la collana è degli Oscar Mondadori e ricordo quando la lanciammo.
Le apro il libro sotto il naso (nasino), piego il volume chiuso tra il dito medio e il pollice e lascio che le pagine scorrano come in una sfogliatura accelerata: le piace e io rieseguo. Ma la terza volta che ci provo è di troppo, si tuffa a capo in giù tra le pagine e lecca la costola del volume, poi tenta di morderlo, ma è bello spesso, è un romanzone dall’avviamento lento … poi ci si appassiona.
Mentre lei fruga freneticamente tra le pagine, tentando di assaggiarle, mi viene in mente mia madre che quando compii cinque anni mi regalò un libro bellissimo che tutt’ora rileggo a pezzetti, ogni tanto; e ogni volta ci ritrovo qualcosa di sorprendente. L’altra nipotina, che sta lontano da qui e la vedo più raramente, quando sta qualche ora con me, mi mette un suo libro in mano, lo apre, mette un dito su una parola e lo fa scorrere, poi chiede a modo suo, con un grammelot infantile, di leggere la parola indicata, quindi si procede per tutta la storia, con quel piccolo dito impertinente che saltella da una parola all’altra, chiedendo di sapere di conoscere il significato di quei segni, che mano a mano e un giorno dopo l’altro acquistano significato (e forse qualcuno di loro avrà un senso particolare, magari associato a un momento, a un suono o a una luce particolare). Per crescere, niente è meglio che mangiarsi un bel libro e magari berci sopra un po’ di musica!

La versione di Bramante

Vado a trovare i Ciolfi che vendemmiano, al podere SanLorenzo- Da qualche anno ci faccio volentieri un’incursione, ritrovando il nonno di Luciano – Bramante – e il suo senso del lavoro (novantanove anni quest’anno). Chi pensa, come me (e come recita la Costituzione all’articolo 1) che la Repubblica è fondata sul lavoro, dovrebbe venire a vedere Bramante, al tempo della vendemmia.

Perché Bramante l’ho conosciuto quarant’anni fa, quando venivo a comprare la legna per le stufe di Fonterenza, nelle mie incursioni in Toscana, da Milano, e poi l’ho ritrovato come nonno di un vignaiolo che apprezzo molto e che ce la mette tutta – lui e la sua famiglia – con una tenacia e un ottimismo che mettono di buonumore.

Quest’anno Bramante non ce la fa a muoversi tra i filari con secchi e cassette diventati troppo pesanti per lui. Allora si dà da fare attorno alla diraspatrice, con un forcone che a me pare francamente anche più pesante. Ma lui si sentirebbe umiliato a stare senza far niente. “La vita è bella – mi fa – ma a questa età ci vedo meno e ci sento meno; non è bello capire che si sta facendo un ragionamento e non sentire bene”. E’ sereno “perché non mi manca niente e in casa mi rispettano”; ma la vita da puro spettatore non gli andrebbe a genio. Ognuno deve darsi da fare, contribuire ad andare avanti. Questo è il suo sguardo, il suo pensiero èDSCN1894 un’edizione speciale del senso della vita

Nonnità

Non c’è niente che ti dia l’idea del tempo che è passato (da quando? Non so!) quanto avere nipoti. Io davvero non mi ci vedevo, soprattutto osservando chi mi circonda, più da vicino; inoltre ho un bel numero di amici – soli o in coppia – senza figli; alcuni un po’ tristemente, altri perfettamente in sé e in equilibrio.
Ma la “nonnità” che sia vissuta intensamente, magari a supporto di necessità di genitori che lavorano, o da nonna indipendente – con una sua esistenza più o meno interessante, attiva, intensa – mi pare sempre un po’ caricaturata, come se l’essere nonna, manco bisnonna come succede a qualcuno, fosse una condizione un po’ forzata.
Anche se trovo positivo il tempo che passa – essere per esempio fuori dalla rat race – e divertenti i capelli bianchi, che mi esimono da eccessive manifestazioni di attenzione verso gli altri (i vecchi sono sempre un po’ rincoglioniti, almeno secondo Renzi; le vecchie ancora di più!), la presenza delle mie due deliziose nipotine mi trova un po’ goffa, come se non avessi individuato ancora la ‘misura giusta’, indovinata la gestualità, calibrato i miei sentimenti e le mie emozioni.
Attribuisco queste ‘esitazioni sentimentali’ al tempo che stiamo vivendo. Infatti la rabbia che provo nei confronti delle ipocrisie istituzionalizzate, la pervicacia nella scelta delle soluzioni più miopi e lontane dai bisogni della gente, l’evidente arroganza degli ignoranti, mi manda l’adrenalina a mille e vorrei stare sugli ‘spalti’ a combattere, con le parole, con il ragionamento, con le suggestioni che a un vecchio vengono direttamente dall’avere già visto quel film.
Trovare la misura giusta per essere la nonna delle mie due nipotine e allo stesso tempo continuare a manifestare i miei pensieri (e le mie attività) è forse solo un fatto temporaneo, un aggiustamento a un abito bespoke che deve ‘cadere bene’.
Nel frattempo mi consolo leggendo nei gesti e nel comportamento delle mie due delizie prodromi di un’augurabile grande energia in corso di accumulazione.
Faranno bene e già mi ritrovo di più nell’immaginare un loro battagliero futuro (non dissimilmente dai loro coetanei: questi giovanissimi avranno filo da torcere); la vita è una battaglia da affrontare con coraggio, energia, passione e – possibilmente – talento. Pensando a questo immagino di trasmettere loro un po’ del mio corredo, quello che mi hanno lasciato i miei genitori e che imparo a apprezzare sempre di più. Forse questo dà un senso interessante alla mia nonnità.

FAST

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Sta diventando un tema importante, il digiuno, ed è una pratica sempre più diffusa, nelle sue molteplici varianti – in origine legate a pratiche religiose -. Ora, appena passato Yom Kippur, quando gli ebrei digiunano (anche dall’acqua) per venticinque ore, è stato pubblicato un articolo con una serie di testimonianze (tutti testimonial di donne) su come viene vissuto, oggi in occidente, questo ‘rito’ così (chi se lo sarebbe immaginato) diffuso.

E dai racconti emergono ovviamente le appartenenze religiose, anche di chi religioso non è, ma i due aspetti che mi hanno colpito sono l’idea di purificare la mente (più che il corpo) e il ‘bisogno’ di privarsi del cibo per poterne apprezzare fino in fondo l’importanza. Mi domando, ma la domanda questa volta rimarrà senza risposta, se questo apprezzamento riguarda il nutrirsi, o tocca anche il lato gastronomico (cioè un po’ più edonistico) o addirittura aspetti salutistici, che però – da quello che ho letto – sembrano davvero remoti.

So bene che da sempre il digiuno viene praticato in diverse forme (penso al Ramadan, di nuovo a Yom Kippur, ai digiuni buddisti, al dimenticato venerdì di magro o alle quaresime dei cattolici), ma dalle testimonianze odierne che ho appena letto, trapela il bisogno di ‘ripulirsi interiormente’ e di fare un gesto che avvicina con pudore alle tribolazioni da cui siamo circondati. Il digiuno è un buon calmante e induce alla spiritualità. Pensare di riprendere la vecchia abitudine di digiunare un giorno alla settimana mi sembra una cosa buona.

Aggiornamento

Se stai nel centro storico di un vecchissimo paese – cioè praticamente nella sua parte più suggestiva ed emozionante – ti aspetti di riviverne gli echi, quelli dei vecchi abitanti (magari alcuni li hai conosciuti), rivedere con l’immaginazione i ritmi di vita di un tempo (vita operosa e semplice, ma piuttosto povera); da ‘straniera’ pensi di compiacerti del clima di ruralità alla toscana, di confrontarti con il sarcasmo – la categoria dello humor più frequentata dai toscani – e di acquisire il ritmo – operoso e defatigante, ma sereno, delle giornate in una simile isola felice.
Invece isis – la sigla del fanatismo sunnita – ha scelto questo tempo – già di per sé complesso e difficile – per lanciare la sua campagna puzzolente di petrolio e irrorata di sangue.
“Goditi l’isola felice, di questi tempi è una rarità”, mi pare di sentire una voce (magari la mia stessa) che suggerisce di cogliere l’attimo, perché non si sa davvero se nella rivoluzione meteo e in quella sociopolitica ci sarà posto per un barlume di speranza. Anche se quello là ha recitato che la memoria senza speranza è … (non mi ricordo più, comunque è una sciocchezza) .
Certe cose non possono essere dette da tutti: sulla bocca di alcuni appaiono come delle bolle di sapone mal riuscite.
Ma per tornare a sentimenti e sensazioni che si possono sentire nel vecchissimo paese, (c’è anche la vendemmia in corso), niente assomiglia a quello che mi ero immaginata, a parte le pietre, in apparenza immutate.
Il villaggio è abitato da una maggioranza araba- tunisina che negli anni si è riallineata all’islam gradualmente sempre più stretto e osservante. Le donne hanno adottato il foulard ed escono poco, durante il ramadan gli uomini di sera si mettono la djellaba e si radunano tra di loro, proprio come se fossero nel loro villaggio.
Con il manifestarsi del fondamentalismo demenzial-sunnita, si è ricreato un diaframma tra noi e loro. che si consolida divenendo vagamente ostile, da parte nostra, e irridente, dalla loro.
L’idea che si fa strada non è quella della paura o del panico, ma è qualcosa di più complicato … l’ immagine di quel delinquente vestito di nero – che nella mia mente si duplica e confonde con le deiezioni di un cane malato, domina il nostro immaginario, e non si può non pensare che quello lì – ex uomo o già merda che sia – DSCN1589 ha o ha avuto una madre e che cosa sua madre può provare per lui – spavento, disgusto, schifo, orrore.
Sono questi pensieri che frenano tutti gli altri; poi il tempo e le temperature, la stupidità degli uomini che non hanno ancora capito (o fingono) dov’è sparito il lavoro, mentre sul fondo Lucio Dalla canta “caro amico ti scrivo …”