Lavoro, paesaggio: un vino. La parola per dirlo.

Raramente ho difficoltà a trovare la parola giusta per raccontare qualcosa che guardo o che sento; le parole mi nascono dentro e quasi tutte vengono da lontano, anche nel tempo: sono figlie della mia storia di lavoro e le nutro continuamente, cercando, ogni volta che sento il bisogno di spiegare, quella che si attagli – come una pianta arrampicata – a quel sentimento a una sua sfumatura, al senso preciso di qualcosa che vorrei comunicare.
Eppure, se mi riferisco al lavoro di pubblicitaria, sono nata con la matita – facevo l’art director -. Il lavoro dell’art prevede un dialogo continuo con un copywriter, il che però non significa affatto che l’uno si occupi di scrivere i testi e l’altro pensi e realizzi la parte visiva. Non succede così, perché entrambi hanno il compito di mettere a punto un messaggio, che sarà poi declinato in varie forme su alcuni o su molti media. E’ un lavoro all’unisono.

La mia storia però inizia un po’ prima, in un altro luogo che può sembrare più astratto dell’agenzia di pubblicità. Il caso mi ha messo in contatto, quando ero ancora giovanissima e stavo iniziando a frequentare l’Accademia di Belle Arti (a Brera, allieva di Achille Funi), con luogo speciale, forse unico in Italia. Era un ufficio diretto da un uomo visionario di cui parlerò un’altra volta; in quell’ufficio ho conosciuto i designer da cui ho imparato che le parole hanno un significato – e questo lo sappiamo tutti – un senso che può cambiare, a seconda di come sono scritte – colori, forme, “caratteri” (che adesso si chiamano font, però provate a immaginare che cosa significhi “carattere”), e altri elementi che ne rendono diverso il significato.
Non tutti lo sanno razionalmente; alcuni usano questi strumenti in modo spontaneo e inconsapevole; poi ci sono i graphic designer che sanno (anche) che forma dare a una parola perché se ne colga perfettamente il senso.
A volte però una parola, anche scritta con lo stile consono, non è sufficiente a raccontare quello che uno sente. Credo che possa dipendere anche dalla ricchezza del vocabolario conosciuto, ma a volte la parola manca proprio perché non si ha qualcosa di precisabile, di concreto, da dire …
… a me succede così e mi chiedo se non sia per questo che ogni tanto mi viene naturale l’impulso di disegnare. Non sento discontinuità tra scrivere (a mano) e disegnare, confesso che mettendo la mano sul foglio mi capita di pensare a una parola e poi mi ritrovo a compitare dei segni che forse traducono meglio quello che ho in mente.

Non so quanto sia stata determinante la mia storia di lavoro, con la conoscenza acquisita dai grandi maestri con cui sono stata in contatto (Bruno Munari, Enzo Mari, Max Huber, Albe Steiner, Lora Lamm, …), o quanto giochi una predisposizione ad usare più ‘modi’ di esprimersi; tuttavia mi sono ritrovata molte volte a cogliere un paesaggio, pensando di scriverne e invece lo stavo disegnando.
Può succedere anche con un lettering, cioè con i “caratteri”(font) usati per chiamare qualcosa.
In questo caso mi riferisco a un vino che ha un nome in etichetta – Rosa – ed è un vino rosato, ovviamente. Ma per quel nome non è stato usato un carattere esistente, bensì delle lettere disegnate ad hoc. Disegnate? Be’, non proprio, perché ogni lettera che compone la parola -Rosa- in realtà è come se fosse scritta. Ogni lettera è fatta con un texture, una sorta di tessitura di segni minuscoli e diversi uno dall’altro.
I segni sono nati da una riflessione quasi inconsapevole, quasi una reazione, al lavoro sulla terra, alle tracce che gli strumenti disegnano sul suolo, creando un racconto, buono per chi lo sa leggere, oppure sente di capirlo e gli piace seguirlo. Non è qualcosa di razionale, ma è quasi automatico, è la voglia di fare quel lavoro, fare quei gesti e lasciare quei segni; o magari addirittura immergervisi e diventare proprio come un campo, un vigneto, un bosco. Oppure essere come il vino nato da  quel lavoro e messo in quella bottiglia. La parola per dirlo bene, lo dice meglio se la scrivi (o la disegni) in modo da far sentire agli altri quello che senti tu.

La Mercedes che non so dove sia

Quando, anni fa, a un tale con cui stavo chiacchierando di lavoro avevo mostrato un’affichette che illustrava i libri di Garcia Marquez, mentre gli stavo raccontando il primo incontro con il grande scrittore, cogliendomi di sorpresa, questi mi chiese “e chi è ‘sto Garcia Marquez?”. Io avevo risposto che era un signore con una moglie che si chiamava Mercedes ma non era un’auto. Era una battuta, venuta lì per lì, una forma di esasperazione trattenuta, per la sua non conoscenza di un personaggio che aveva acceso l’immaginazione di almeno due generazioni di lettori, e non solo; una battuta solo a metà, perché forse lui è rimasto con l’idea dell’auto e io non me la sono sentita di impegnarmi raccontandogli di Macondo, della casa di calle Fuego a Città del Messico, dei racconti raminghi, né del premio Nobel. Tagliai corto poi, non ricordo bene come. Nel frattempo Gabo è morto e ora la Mercedes, quella che non era un’auto – quella a cui veniva dedicato ogni libro in pubblicazione (“para Mecedes por supuesto”) – lo ha raggiunto in un immaginario magico almeno quanto quello che Garcia Marquez aveva saputo raccontarci con i libri.
Ma quasi dappertutto e anche nei luoghi dove vive quell’uomo che mi fece la sorprendente domanda, la Mercedes è solo e sempre stata un’auto che sfreccia per strada e pochissimi, sentendo questo nome, sospetterebbero oggi che si possa trattare di una donna.
Io invece, fino agli anni del liceo quando ho sentito dire  Mercedes ho sempre pensato all’amica che abitava sul mio stesso pianerottolo di casa, la figlia dei vicini più grande di me di tre anni, che nonostante la differenza d’età – rilevante in quella stagione della vita – è stata ideatrice e complice di terribili marachelle, ma anche organizzatrice di balli e commedie con cui abbiamo intrattenuto i vicini di casa (con me protagonista “in scena” e lei nel ruolo di regista). Mai avevo sentito citare Maria de la Mercedes, né avrei sospettato che quel nome fosse traducibile come mercede in quanto perdono, o pagamento. Quanto alle auto, ce n’erano talmente poche in circolazione ed erano così lontane dal mio mondo di ragazzina, che non sapevo nemmeno che ce ne fossero di varie ‘marche’. Per dire come fosse diverso da quello contemporaneo il paesaggio cittadino di quel tempo, devo ricordare le botteghe con i cassetti dal frontalino in vetro per mostrare il contenuto, la pasta alimentare sciolta, devo ricordarmi dello zucchero venduto nella carta blu (carta-da-zucchero) che veniva anche applicata, umida, sui lividi che ci procuravamo noi ragazzini cadendo e giocando, devo pensare al latte venduto in bottiglie di vetro spesso, a rendere, con il coperchietto argenteo su cui era impressa la data di scadenza.
(Solo molti anni dopo, quel nome ha acquisito la consistenza di un’auto, forse addirittura ascoltando Janis Joplin cantare Mercedes Benz; ma la mia amica dell’adolescenza era ormai un ricordo lontano, travolto da nuovi incontri e altre storie).
Con la Mercedes ci si vedeva tutti i giorni; avevamo orari e compiti di scuola un po’ diversi – lei alle medie e io ancora alle elementari dalle suore. Io avevo una gran passione per il ballo e lei possedeva un grammofono; i suoi genitori erano ricchi, ma moderatamente, come si usava allora, senza auto né accessori lussuosi. Suo padre aveva una fabbrica di occhiali da sole, e sono convinta che potrebbe anche tornarmi in mente il nome. L’agiatezza si concretizzava nelle vacanze al mare in albergo, e nell’appartamento con un locale in più – quello che ora chiamiamo soggiorno – che aveva un balcone in pietra affacciantesi su via Venini; e da quel balcone, un giorno, la Mercedes mi convinse a sputare mentre passava una signora con cappello ad ala larga e un’ondeggiante gonna godè. L’idea era che lo sputo finisse sull’ala del cappello, ma io sbagliando i tempi e sbavando con qualche esitazione andai a colpire proprio la gonna: la donna – ricordo ancora lo sgomento che mi prese – alzando di scatto la testa ci colse sul fatto e salì inviperita fino al secondo piano. Ci andò bene perché eravamo sole in casa, i genitori erano via e io pulii diligentemente la gonna, che mi sembrava elegantissima, sotto gli occhi inferociti della vittima a cui chiesi umilmente scusa. Quella volta la Mercedes fece la parte dello chaperon a cui ero sfuggita di mano, ma ci sono state molte altre occasioni di complicità con quell’amica più grande, che però poi frequentai a intermittenza, perché crescendo io facevo anche altre amicizie e soprattutto mi si delineava un percorso diverso da quello suo; lei intanto si allontanava, tanto che non ricordo nemmeno che scuola frequentasse alle superiori. A un certo punto suo padre morì d’infarto – lo ricordo disteso, sul letto matrimoniale, ma non ho memoria di lacrime della mia amica, né di un clima di lutto, quasi come se quella morte fosse stata naturale e pienamente accettata. Da quel lutto passo repentinamente, quasi non ci sia stato niente in mezzo, a un matrimonio della Mercedes con il ricco proprietario della filanda di Roubaix, un matrimonio lontano invisibile e forse combinato, in un luogo molto a nord, e mi rimane il ricordo di sua madre che, ormai sola, veniva a prendere il tè da noi e a mia madre raccontava che la Mercedes ora viveva in un’importante famiglia, dove la madre del marito aveva sempre con sé un gran mazzo di chiavi che aprivano (e chiudevano, a me veniva in mente) tutte le porte di casa, armadi e dispense inclusi.
Sul nostro stesso piano, in via Venini, abitava un medico ortopedico con l’hobby della scultura: aveva ritratto la mia amica modellandone una testa in terracotta; era il suo dono di matrimonio. La testa, molto somigliante all’originale e la scritta alla base – Mercedes -, mi sono tornate in mente diverse volte – il ricordo si intreccia con altri di anni diversi e meno lontani, quasi ne fosse il capostipite.
Consultando testi che raccontano la storia dell’industria in Europa, ho letto che la filanda Motte a Roubaix è stata la più grande e importante di Francia e, vittima della crisi industriale di quel settore, ha chiuso l’attività nel 1981. Restaurati e recuperati successivamente, gli edifici della filanda ospitano dal 1991 gli Archives Nationales du monde du Travail; le foto dei luoghi mostrano un complesso enorme, monumentale, e mi chiedo se da qualche parte vi sia rimasto un pezzetto della vita della Mercedes con cui ho ballato e giocato in via Venini, prima di capire che sarei andata via di lì.