Un Miliardo di Caccole

La hostess Lufthansa non riusciva a trattenere una risata, dopo aver guardato i due biglietti che le avevo messo sul bancone del check in. Eravamo in due – io e il giornalista che mi portavo dietro, come si usa tra amministratori e politici, perché documentasse scrivendone le glorie dell’ente che rappresentavo – due biglietti per un volo veloce a Francoforte, dove andavo a ricevere un premio per una guida al territorio di mia competenza.

Quindi, un po’ piccata, un po’ spazientita dall’aria quasi insolente di quel tipetto, le ho chiesto la ragione della sua ilarità e lei non si è fatta per niente pregare. “Scusi ma dove ha acquistato questi biglietti”, mi fa rispondendomi con un’altra domanda; io non sono da meno e controbatto con un’altra domanda chiedendole “perché?”. “E’ che non ho mai visto pagare milleduecento e rotti euro per un biglietto in economica, Roma Francoforte”, mi risponde finalmente, con aria divertita e un po’ provocatoria.

Mi prende per una babbea, anzi sono una babbea; non ho nemmeno guardato il biglietto quando mi è stato consegnato dall’agenzia . Sono andata ogni anno a Francoforte per la Buchmesse e spesso ci sono andata in giornata, come mi accingevo a fare anche quel giorno. Non ho mai avuto bisogno di controllare il prezzo del biglietto con cui volavo quando lavoravo in azienda, perché le politiche aziendali erano chiare in proposito e gli acquisti effettuati (in ogni campo) le seguivano alla lettera. Questa volta, invece, sono proprio scivolata su una merda; una brutta cosa capitata a una babbea che va di fretta.

Una babbea che va di fretta ha anche la necessità di non diventare lo zimbello di una hostess con l’inclinazione alla critica, soprattutto a una hostess di nazionalità tedesca – con la cattiva fama di spendaccioni superficiali di cui godiamo nei dintorni della Foresta Nera – perciò abbozzo e grugnisco qualcosa di incomprensibile e, spero, di distaccato e signorile (il giornalista che mi accompagna era rimasto in disparte, per mia fortuna, ma non credo che avrebbe trovato interessante scoprire questo altarino).

Più che scivolare sull’escremento di cui sopra, mi sento come se fossi fatta della stessa materia; mi maledico e tra me e me maledico la dabbenaggine con cui ho chiesto di acquistare il biglietto (con urgenza, un giorno per l’altro), senza sottolineare che doveva costare il meno possibile e soprattutto senza controllarlo. A mia parziale discolpa posso portare l’idea – allora mi pareva ovvia – che avendo un incarico pubblico, tutta la catena gerarchica e organizzativa aveva il comune anelito al risparmio e alla buona gestione dei soldi, che in quel caso erano dei cittadini. O almeno io pensavo che doveva essere così!

Anche perché usare i soldi dei cittadini per pagare cinque volte il dovuto due biglietti il cui importo non era appesantito da alcuna urgenza mi sarebbe sembrato una faccenda lunare, nel senso che non sarebbe stata di questa terra. Avevo visto tutte le rappresentazioni di Tangentopoli, ne avevo conosciuto personalmente ogni protagonista o quasi. Vivevo in una provincia in cui – proprio come Pangloss – tutto e tutti parevano ripetermi (a me milanese e incolta) che tutto lì scorreva in modo sostenibile e democratico, in quella che era la terra migliore possibile.

Forse nemmeno quel babbeo di Pangloss avrebbe avuto il coraggio di perseverare nel suo ottimismo un po’ cieco e un po’ stupido, se si fosse trovato nella stessa situazione, ma allora io non ero nelle condizioni di immaginarlo nemmeno lontanamente. Perciò la cosa migliore da farsi era quella di misurarsi con questo “episodio” increscioso al mio ritorno da quel premio (che attestava una volta di più quanto fosse virtuoso e intelligente il contesto in cui mi ritrovavo).

Al mio ritorno da questo breve ma increscioso viaggio – sentendomi più che mai compresa in quello che facevo – avevo chiesto udienza a colui che rappresentava il mio punto (sommo) di riferimento, la cui identità è, per così dire, secondaria, nell’economia di questa cronaca. Non posso però dimenticare che lui mi ricevette saldamente seduto (anche se, pensandoci bene, questa posizione lo avrebbe dovuto mettere in lieve imbarazzo, costringendolo a guardarmi dal sotto in su) e scaccolandosi, com’era frequente che facesse, incurante dell’effetto che quel gesto – a suo modo rivoluzionario – poteva produrre sui non addetti ai lavori.

Lo scaccolamento, le grattatine in zone del corpo che i cinesi non riuscirebbero nemmeno a immaginare, l’assenza totale di uso di mondo (espressione che in talune zone è completamente sconosciuta), la totale sordità alla ‘modernità’ intesa come la tensione a tradurre in futuro un patrimonio che dovrebbe essere percepito come prezioso, sono caratteristiche che ho spesso osservato convivere con un senso dell’autarchia quasi feroce, addirittura autolesionista. Quest’ultimo a Siena lo chiamano “il cane e l’aglio”, o qualcosa del genere, per spiegare che anche se al cane l’aglio non piace, gli monta la guardia, per impedire che altri lo mangino (e dev’essere qualcosa che comunque con Berlusconi non ha funzionato …).

Ho dunque incontrato quel tipo importante – lo scaccolatore impunito – e gli ho riversato sulla scrivania tutto il mio sconforto, condito da un’aria (esclusivamente mia) scandalizzata e dall’idea che uno dei tanti controllori potenzialmente interessati a scoprire magagne e malversazioni, privilegi e mastruzze, avrebbe potuto – chissà – mandare a fondo un partito, o un’amministrazione pubblica, o giù di lì.

E’ passato un bel po’ di tempo da quella storia e ora mi torna in mente sempre più di frequente. Perché allora l’avevo collegata a una situazione limitata – nei soggetti e nel tempo – restringendola a magagne d’ufficio, in cui il mio destino personale mi aveva in seguito impedito di svolgere i debiti (e dovuti) controlli. Ma alla luce di quello che leggo ogni giorno, e di cui i cittadini tutti vengono quotidianamente messi al corrente, è un episodio che trovo insopportabile e di cui mi vergogno.

Mi vergogno, prima di tutto, della mia cecità; poi mi vergogno perché dopo l’incontro con chi ‘di dovere’, che non sortì altro se non una caccola da quel naso (diligentemente appallottolata e lasciata cadere sul pregiato tappeto sottostante) avrei dovuto insistere. Infine, mi vergogno perché solo oggi – da vera babbea – mi rendo conto che molta parte di quelli che lavorano in, o per, un ente pubblico, agiscono approfittandosene, avendo azzerato il confine – assai labile, mi pare – tra leggerezza o distrazione e il furto e l’appropriazione indebita.

Furto e appropriazione indebita sono due reati, in origine, ma ogni tanto mi pare che siano divenuti – trasformandosi anche tramite le parole con cui vengono definiti – una caratteristica di tanti mondi, anche del lavoro e delle imprese (o di ciò che ne resta) private, fino a diventare parte integrante di un sistema che ci obbliga alla “furbizia” o quanto meno a non credere a ciò che vediamo, ma a immaginare ciò che esso nasconde. Solo recentemente ho capito il valore reale di quei due biglietti – pagati cinque volte il prezzo dovuto, con i soldi delle tasse pagate dai cittadini -; ho moltiplicato quel furto per milioni di acquisti – dalla sanità (!) ai viaggi di politici e amministratori, dalle invalidità agli affitti di immobili, dalla costruzione di strade e infrastrutture alle situazioni pensionistiche legalizzate ad hoc, e a … non so più che cosa – e come risultato ho capito. Miliardi di euro dati ad amici o ai loro esattori, non solo tramite grandi commesse, ma soprattutto e sistematicamente, come gesto quotidiano. Miliardi di caccole.

Guardare indietro per guardare avanti

Venticinque anni fa come oggi, più o meno a quest’ora, ero ospite a pranzo – colazione di lavoro, come si dice a Milano, per smitizzare l’espressione e metterla un po’ a dieta – dalla Bice in Borgospesso. Il mio anfitrione aveva lasciato le sue guardie del corpo fuori, in via Borgospesso e mi aveva portato un bel flacone di Eau de Cologne Imperiale di Guerlain in dono (un litro).

La scena me la ricordo come se la dovessi ricostruire in un improbabile diorama per il museo della Milano di Tangentopoli. Ma i giudici, che scavavano a nostra insaputa nella variegata merda metropolitana, ancora non si sognavano che la sostanza puzzolente che essi maneggiavano fosse come l’ailanto.

L’ailanto è un albero ormai diffuso in Europa, dalle caratteristiche infestanti (più lo tagli, più si riproduce, come la Medusa); è anche bello – proprio come il mondo laccato dalla corruzione di cui scrivono i quotidiani in articoli la cui obsolescenza ricorda le infinite forme di demenza che si suppone affliggano i vecchi. Invece affliggono l’intero paese.

Il mio anfitrione di quel giorno, oggi, è in galera, e confesso che mi dispiace un po’, ma pare abbia avuto qualche parte nella rappresentazione della multiforme corruzione italiana.

Quel giorno, invece, cogliendo il mio suggerimento molto lombardo, ordinò per entrambi risotto con l’osso buco e gremolada regolamentare: da bere – con mio scandalo autentico (peggio di una tangente, quella era addirittura una secante!) – Dom Perignon “millesimato”!!!

L’intento credo fosse sincero, però io avevo tenuto l’invito per me – non si sa mai –  e solo molti anni dopo ho cominciato a raccontarlo agli amici e agli amici degli amici (in accezione lombarda). L’intento era quello di dimostrarmi attenzione, quella che si merita una dalle cui mani passava – da parecchi anni – l’intero ‘expenditure’ della comunicazione di un grande gruppo. Passava, l’expenditure, e nemmeno un micro-corpuscolo ne restava nelle suddette mani: miracolo all’Italiana? No, a me – ma anche all’AD del gruppo in questione – sembrava normale, anche se oggi non lo sarebbe affatto.

Devo osservare che venticinque anni fa, nonostante l’avvento più che giustificato di Tangentopoli, poteva ancora succedere che qualcuno maneggiando l’equivalente di un paio di centinaia di milioni di euro non se ne appropriasse, né in toto né in parte. E che magari non ci pensasse nemmeno ad appropriarsene …

Ma era la somma che mi capitava di gestire, pubblicitariamente parlando, non la mia persona, a interessare il mio anfitrione, peraltro molto religioso. Nonostante io vestissi un elegante tailleur blu di sartoria (un inno alla sobrietà), con un paio di pendenti di corallo, lavorati da un artigiano di Gaeta e finiti – cinque anni dopo – nel bottino di un rapinatore di amabili signore. Ma il pranzo fu delizioso e ancora oggi, ripensandolo, mi sento quel delizioso ossobuco sciogliersi in bocca.

Mi è tornato in mente quel mio pranzetto di compleanno di venticinque anni fa, perché questi sono anniversari in cui si fa un po’ un bilancio e allora ci si guarda indietro – non per vedere chi ci sta dietro alle spalle, che pure sarebbe prudente, di questi tempi – per capire anche come andare avanti. Non tanto per trovare la forza, ma piuttosto per individuare una direzione in cui procedere …

E allora non posso non ricordare le parole guardinghe con cui mi venne proposto un cambiamento davvero radicale, nel mio lavoro e forse anche nella mia intera vita, a fronte di un assegno “su cui scrivi tu la cifra”. Dopo venticinque anni in cui ho vissuto una vita piuttosto divertente, di certo molto interessante, seppure con alcuni momenti addirittura drammatici, sono ancora qui a chiedermi se davvero ho fatto bene a dare una risposta un po’ ingenua (certamente non corrispondente al mio ruolo) che declinava l’autentica fortuna che mi stava rotolando nel piatto, quale ulteriore contorno alla magnifica cucina del rinomato ristorante … Strana cosa, i compleanni: strana e un po’ magica, talvolta.

L’ultima volta al Derby Club

Ascoltando la radio, ogni volta che tra una notizia di politica e una cronaca culturale sono levitate le note di Renato Sellani sono tornata a sedermi in penombra al Derby, a Milano, in una sera come un’altra, quando il clima, la politica, gli affari e il mondo tutto si smaterializzavano, lasciando solo le immagini dense e fluide, di colori imprendibili, che Sellani ci raccontava.
Ogni volta che provo a visualizzare la ‘cifra’ di Milano, di “quella” Milano, rivedo il profilo di Sellani, seduto al pianoforte che racconta – senza però lasciarsi andare, senza uscire dal disegno della sua armonia -. Eppure volando e invitando noi al volo, sulla città che formicolava di idee e di genialità – aperta al mondo, per dare, per fare, per andare -.
Renato Sellani è stato il sound della mia città, ante Tangentopoli, ante Berlusconi atto secondo, ante ‘Ndrangheta, ante il dopo. Suonerà – lui diceva – insieme a Chopin; io spero insieme a Brahms, più adatto – a mio modo di sentire – al rimpianto per la classe che non è acqua, e purtroppo a volte, non è nemmeno vino.

Restitution Time

RESTITUTION

  1. (nome) a sum of money paid in compensation for loss or injury
  2. (nome) the act of restoring something to its original state
  3. (nome) getting something back again

La radio irrompe nel silenzio della campagna, portando voci e suoni che ci lasciano lo spazio-tempo di visualizzare situazioni, volti, miracoli e disastri. La radio irrompe nei nostri silenzi e nella nostra distrazione e ci costringe a vedere e pensare. Se la voce, se la scelta delle parole, se la sintesi, se il momento (o il tempo) sono giusti, la radio – più di ogni altro mezzo – senza banalizzare con immagini (alle immagini siamo troppo abituati) ci porta dritti dritti al punto.

Questa mattina a radio3 – Prima Pagina -, un programma benemerito, che i giornalisti conduttori tendono ad annacquare (per non irritare troppo i vari padroni dei giornali e il mondo della politica), ha fatto irruzione la voce cantilenante di un veneziano. Un accento – distinguere il veneziano dal veneto! – che ci porta subito accanto a un canale e si sente forte l’odore dell’acqua di laguna; siamo a Venezia, dunque e ci sono le navi mostruose che sovrastano la città e la sua storia, la mettono in mutande e in ginocchio, alla mercé di un qualsiasi turista un po’ fesso (non può che essere un po’ fesso uno che vuole vedere Venezia così!) che la penetra e la sfascia (perché lo spostamento generato da navi gigantesche che passano più volte al giorno non sarà senza conseguenze).

L’accento veneziano non nasconde i sentimenti che squarciano il ritmo consueto di tutti i mali italiani: il MOSE è servito soprattutto a favorire gli interessi di qualcuno che guadagna con un turismo che sfrutta biecamente la città, il MOSE inoltre è stato gestito in modo talmente disonesto che tutta la cordata dei ‘responsabili’ ora è sotto inchiesta e molti sono finiti agli arresti domiciliari. Ma è di tre miliardi di euro il malloppo che manca all’appello, anche se la magistratura indaga, anche se i giornali pubblicano con le consuete oscillazioni, anche se ne parla la radio e si vede in tv.

Il veneziano erompe, con il pensiero dei cittadini onesti, normali. “Questi signori saranno riconosciuti colpevoli, faranno un po’ di carcere o di detenzione ai domiciliari, poi torneranno in circolazione tenendosi il denaro sottratto alla collettività. Ma questo modo di procedere dura da decenni, depredando il nostro paese. Ogni volta si scopre l’ennesimo scandalo, si parla e si scrive, si accusa, si condanna, ma non si sa mai che fine hanno fatto i soldi sottratti; ai cittadini ora interessa solo questo: che venga restituito ciò che è stato rubato”. E il pensiero ovviamente non riguarda solo il MOSE. Perché la somma di tutti i malloppi spariti è una cifra enorme.  

Di certo non sono riuscita a scrivere con la stessa efficacia con cui sono state dette, le frasi che danno corpo al pensiero del signore veneziano, un’idea condivisa da tutti i cittadini esasperati dalle connivenze e dal malaffare, dalla mafiosità pervasiva che inquina il paese, lo immiserisce e lo taglieggia. Restituire il maltolto deve diventare un obiettivo comune da perseguire e da raggiungere. Non interessa tanto il destino dei corrotti, quanto la restituzione del bottino alla collettività derubata.

Per ascoltare questo pensiero, detto molto meglio di come io l’ho scritto, collegarsi a radio3 – primapagina, per sentire in streaming l’efficace intervento del signore di Venezia.