Brunello e vecchi cappotti

alex_3Chi è arrivato qui in anni recenti non capisce; chi arriva pensa di essere un conquistador, di avere di che insegnare, da spiegare. Chi arriva è soprattutto convinto di sapere come funzionano le cose.

Decine di anni fa arrivavano quelli che il mito della Toscana l’avevano provato ‘sul campo’, in lunghi viaggi nel weekend pensando di trovare colline che celavano segreti e gente schietta. Quelli che giungevano fino a questo angolo estremo di Toscana bevevano – di solito piemontese o Oltrepò – ma bastava che fosse vino rosso. Per il resto c’erano i sogni che nel divenire concreti si rivelavano faticosi e divertenti. Un’esperienza.

Ora arrivano solo quelli che investono e che nel farlo a volte è come se guidassero un’auto grossa senza occhiali. Lo pensavo mentre mettevo a posto i miei cappotti, chiedendomi perché invece non mi sono mai comprata un piumino.

Sarà per via delle oche, ho pensato, perché tempo fa (o sono anni?) ho letto di quelli di Monclair che vanno in giro per allevamenti strappando alle vigorose bestiole le meglio piume per infilarle nelle scocche dei suddetti piumini e poi fare brutte campagne pubblicitarie per trasformare giacche e gilè in indispensabili compagni di questi inverni stralunati.

Ma no, non credo che siano le oche all’origine della mia resistenza al piumino. Forse io penso solo che “il piumino” sia orribilmente conformista: troppo lucido – va bene per sciare! -, un tessuto che non racconta niente, ti dà un’aria da sciuretta che omologa anche le donne più intelligenti e scafate: insomma, un capo che non rende giustizia a chi lo indossa. Nemmeno agli uomini, con cui però è un po’ meno malevolo.

No, pensavo mentre spazzolavo un vecchio cappotto del Lanificio Colombo che avevo regalato a una figlia freddolosa (o supposta tale) circa vent’anni fa (tornato indietro con un “grazie mamma, ma…”) … no, non è (solo) per le oche, né per quell’aspetto ‘tubolare” che ti dà un caldissimo piumino modaiolo, riflettevo mentre tiravo fuori un altro cappotto, residuo un po’ sdrucito (indossato per innumerevoli inverni)accarezzandolo con gratitudine per la morbidezza conservata negli anni. Forse è per il segnale che il piumino mi manda.

Forse mi disturba la sua pretesa di diventare il compagno di un inverno, al posto di un bel cappotto, quando si sa bene che è proprio con il freddo che i pensieri si annidano nel calduccio per intrecciarsi tra di loro (ecco, proprio come un bel tessuto!) e formare una storia.

Mi veniva in mente osservando la lunghezza di un altro compagno di questi ultimi inverni: perfetto in città, ma forse un po’ lungo? O forse sono io che non ho più lo slancio (né la lunghezza!) per sentirmelo come quando l’ho scelto?

Se fosse un vino … pensavo, ma un piumino mai potrà essere pensato come una cosa viva, come un vino. Il piumino è come il vino fatto da quelli che più che la vigna frequentano la Borsa e  che della terra non sanno niente. Un Brunello si beve indossando un cappotto, ho deciso.

Forse sono solo pensieri da oca e magari questa è la mia resistenza al piumino (che indosserei solo sulla neve dei campi di sci!)?

 

 

Manca il Vino

Per capire come (non) funziona l’informazione in Italia, basta osservare come viene trattata la notizia dei numeri che Morgan Stanley ha dato a proposito di produzione e consumo del vino nel mondo (globalizzato) e le prospettive che ne ha tratto. Che ne ha tratto per lo meno il Corriere della Sera, con il suggestivo articolo di Luciano Ferraro, nel cui titolo appare subito la magica locuzione “bene di lusso” …

Sempre di più, sfogliando e leggendo la stampa del nostro paese si capisce come essa sia lo specchio del nostro decadimento; ci si accorge che abbiamo tracciato una serie di sentieri molto interessanti; abbiamo vantato le nostre peculiarità nazionali – creatività, manualità, buon gusto, istinto per il bello, ingegno e tutti i talenti che sono corollario, aura e cuore del made in Italy – e mentre le vantavamo mettevamo all’incanto la nostra passione, svenduta, in cambio di un’abbuffata di lenticchie (dove questo nobile legume rappresenta la metafora del soldo), nella scia dei capitani di sventura che hanno razziato il paese, scarnificandolo di tutto ciò che era nato dall’ingegno italiano e poi consolidato dal lavoro di milioni di ex contadini inurbati e divenuti operai e tecnici di talento, artigiani e artisti che hanno lavorato sodo – per decenni – che hanno investito nel proprio lavoro creando piccole imprese, benessere per sé e ricchezza smisurata per alcuni cosiddetti imprenditori guastati poi dalla finanza, corrotti dalla politica, assaliti dai manager privati e di stato, completamente fusi nei rapporti incestuosi con partiti e cordate, alla rincorsa dei soldi – per sé – completamente dimentichi dell’interesse del paese …

Perché l’articolo sul vino (che manca) mi dà questo senso di frustrazione? Erano mesi, forse anni, che Angelo Gaja (con acribia andava sottolineando tutti i punti della questione e scrivendone, nelle occasioni perfette), parlava della produzione insufficiente. E mi aspettavo che, andando oltre la constatazione che mancando il vino i prezzi sarebbero saliti, dopo il lancio di Morgan Stanley, il Corriere guardasse un po’ più in là del mero fatto economico.

Per esempio:  che cosa significa questo, per il nostro paese?, quali prospettive, quali orientamenti ci pongono questi dati? E rispetto alla situazione mondiale, i nostri vini che spazio avranno e presso quali pubblici, in quali paesi? Che cosa si può ipotizzare – oltre alle solite formule “fare squadra”, “promuovere sinergie”, eccetera, per affrontare al meglio questo imminente futuro? I nuovi paesi produttori – sia dal versante scientifico-tecnico, che per gli aspetti culturali – che prospettive avranno sul mercato mondiale? Saranno negli stessi nostri segmenti, oppure parleranno di (produrranno) ‘altri’ vini, con altri posizionamenti, altri approcci.

Mi sono posta queste domande e poi ho girato pagina ed ecco che ‘inciampo’ in un altro titolo: ” Famiglia, cibo, musica… siamo così affini all’Italia …”. E’ un coreano dal volto intenso che parla, dalle pagine della cultura. Il mondo gira: abbiamo insegnato a dare valore alla propria storia, ai propri luoghi, tramite i prodotti nati per parlarne (altro non è il made in Italy!!) e mentre ci siamo persi di vista, gli altri hanno imparato a mettere a frutto il proprio talento (e la propria cultura), con la passione che noi abbiamo perso, che si è smarrita per strada; siamo diventati quelli che per comunicare che fanno qualcosa, lo dicono (e basta). Siamo ormai solo parole al vento. Manca il vino e non ci occupiamo della struttura di questa mancanza, ma osserviamo che esso diventa un bene di lusso; quindi qualche altro “politico” diventerà vignaiolo …2013 vendemmia

Il Colore delle Parole

Campari e Calassole parole del campariessere brilli e vederci chiaroleggere per piacere Vivo nella terra del Brunello e quando voglio andare a Milano, bevo un Campari. Il pensiero arriva subito a destinazione, nella mia testa, e non è quello della “Milano da Bere”, che sarà stata effimera ma non era poi così sgradevole (almeno per chi beveva!), ma è quello delle parole – anzi della parola scritta: quella che fa l’uomo differente e meno piatto -; delle parole e dei libri; delle pagine in cui perdersi per poi ritrovarsi diversi, dell’editoria assaltata dal business, dalla finanza, dalla politica (e magari dalla ‘Ndrangheta); parole per dire il proprio dissenso (o la propria volontà), libri per incrementare pensieri e azioni. Editoria per alimentare il bisogno di conoscenza: ingrediente indispensabile per alimentare l’amore.

 

La bellezza non basta mai

DSCN5758Arrivano quassù dopo una gran pedalata nel paesaggio, oppure – più banalmente – in auto; talvolta a piedi; mi aspetto che, prima o poi, giungano a cavallo in minuscole carovane. La meta è nel viaggio, è poter dire “son salito lassù”, un caffè è l’esile premio di una scelta non banale. Oppure – ben più sontuoso – un bicchiere di vino, ma da gustare a piedi nudi (le signore) affacciati sul paesaggio che chiama – anche se sei seduto in uno dei due allegri ed eleganti ristoranti che accolgono il viandante (meglio se acchittato shabby chic); il paesaggio che ti costringe ad alzarti e non limitare la visita e la vista alle bontà che il luogo offre.

Attenzione! Il buono c’è perché c’è tanta bellezza qui intorno; e non tutti hanno capito fino in fondo che la bellezza è indispensabile: all’umore, alla salute dell’anima e pure a quella del corpo. Si sale quassù per nutrirsi di bellezza e va da sé che poi ci si sieda per chiudere il cerchio, tra bellezza e bontà. “Credimi”, mi dice l’ospite gentile e attento “giro molto per luoghi non banali, ma qui c’è davvero qualcosa di speciale”.DSCN5764Se lo capissero tutti – penso, mentre lui parla e prende appunti con il tablet – sarebbe un miracolo, anzi un terno al lotto. Ma sull’idea che siano margaritas ante porcos, mi bevo un caffè e guardo il paesaggio: la bellezza non basta mai, se poi è anche così buona e generosa, figuriamoci!

 

Insalata era nell’orto

Chi vive in città non ha elementi per mitizzare il lavoro della terra – produrre cibo e bellezza, sostanzialmente – ; poi quando ti ci avvicini, ti accorgi dei suoi molteplici significati, incluso quello – indimenticabile – del paesaggio. Forse di quest’ultimo dato, noi di città siamo più consapevoli di chi nel paesaggio è vissuto da sempre, e perciò lo trova (doppiamente) naturale.

Poi, quando vieni a stare in campagna, ti riappropri dei sapori delle cose. Io che vivo in una delle campagne più famose del vino, sono tornata a gustarlo (il vino) doppiamente, sia perché tra i duecentocinquanta circa Brunello e Rosso posso scegliere quello che mi somiglia di più, sia perché conosco (e ammiro!) il lavoro della vigna, pur non avendolo praticato.

Penso che per apprezzare fino in fondo il vino e l’olio e gli altri alimenti di cui la terra e gli uomini sono capaci, bisogna avere la conoscenza del lavoro necessario a produrli. E un pomodoro – è quasi banale affermarlo – è tanto più buono se te lo dà l’uomo che ha seminato, innaffiato e zappato, per ottenerlo. E a proposito di semina, ho ancora ricordi di semi messi al sole, per farli asciugare, perché saranno messi nella terra l’anno successivo a quello in cui si è consumato il frutto da cui provengono.

Ma tutto questo non piace all’Europa, che sta studiando una legge per proibire l’uso di semi non acquistati (dagli amici degli amici, I assume) dalle aziende produttrici (ma non è madre natura a produrre i semi?), non solo per prodotti che saranno messi in commercio, ma anche per l’uso nel proprio privatissimo orticello, nel frutteto, nel piccolo campo personale.

Mi sembra che le multinazionali, dopo aver esperito altri settori, abbiano messo gli occhi sul ‘food’, consapevoli che l’informazione sempre più capillare e diffusa sta mettendo ogni cittadino in condizione di scegliere che cosa e come consumare – a partire dal cibo -.

Forse avremo ragioni meno poetiche per canticchiare “maramao” cui non mancava l’insalata (“era nell’orto”), domandandoci “perché sei morto?”, o forse, di questa canzoncina un po’ sciocchina, i produttori di sementi (ma non è Madre Natura a detenere il copyright?) faranno un jingle per uno spot che vende i semi di qualche brand amico degli amici della UE.DSCN5576DSCN5578DSCN5584

Dieta Mediterranea

Sant’Angelo in Colle, 23 novembre 2011, 9:30 am. Un dio benevolo ha inventato la toscanità, ne ha fatto un mosaico e ha sistemato le tessere più succulente tra Montalcino e la terra maremmana. Gianfranco ha apparecchiato, poi Pino l’elettricista, Mario il ciclista, Jolie la californiana, Ferruccio Ricci, le gemelle di Fonterenza e Marcello di Collemattoni (il Brunello è proprio il suo) si sono seduti.