La giornata è iniziata abbastanza presto, aprendo “Colorama”, un libro acquistato mesi fa sul filo di un’intuizione che mi aspettavo andasse delusa, invece eccomi qui a leggere, con pazienza e interesse, pagine e pagine che mi dicono a volte cose che pensavo, altre che immaginavo, altre che mi spiegano qualcosa che stava in un angolo della mia mente. Mi impunto su due date che riguardano un signore chiamato Chevreul, che lavorava alle manifatture Gobelins nel 1824; nascita e morte di costui non mi convincono e penso ci sia un refuso (1786-1889!), poi controllerò, ma non so ancora dove. Perché il nome di costui, nel libro, viene dopo quello di Goethe e della sua “Teoria dei Colori”. Goethe lo conosciamo tutti (o quasi), Chevreul invece è un chimico che dirige quelle manifatture rinomate e si collega a Goethe perché razionalizza la nomenclatura dei colori e la possibilità di riconoscerli, partendo proprio da quella teoria.
Colorama è un bellissimo libro; non so trovare un altro modo, meno banale, per dire quanto ricco di notizie, spunti, informazioni, legami che vanno in profondità. Penso che sono molte, tra le persone che conosco, quelle che con la sua lettura arricchirebbero i propri pensieri, o la propria professione, o il proprio sguardo sugli altri.
Rimando la verifica anagrafica e passo al capitolo successivo: “Blu Bovary”. Per una di quelle strane associazioni che a volte fanno partire immagini che si fondono una nell’altra, leggo il titolo e mi viene in mente Matteo Renzi, anche se ha davvero proprio poco a che fare con la figura della Principessa de Broglie che è raffigurata nel libro – vestita di un sobrio e sontuoso abito blu (che io chiamerei bleu roi) – per illustrare il significato di quel colore nella tormentata esistenza di Emma Bovary. Ma torna Renzi e mi pare che la sua immagine si sovrapponga di continuo nel mio vagare nel blu, perché nel suo vestiario il blu abbonda; direi che il blu pavone (appena un po’ più acceso dei blu d’ordinanza ministeriale) è decisamente protagonista. Su Colorama ho letto le associazioni al colore blu – “Ombra, Scuro, Debolezza, Lontananza, Alcalino, Attrazione, Privazione” – e mi viene in mente che si potrebbe tentare un oroscopo. Di certo Rob Brezsny ce la farebbe e tirerebbe fuori qualcosa di brillante.
Questa mattina ho dovuto abbandonare il libro per andare all’appuntamento con la mia fisioterapista, e mentre mi ci recavo – guidando in mezzo alla campagna – mi ritornava in mente il blu di quel vestito, quello della Principessa de Broglie, in un quadro che mi pare sia di Ingres. E’ un colore così denso che ti ci potresti tuffare, come un inchiostro con cui scrivere, un colore per evocare ricordi. Era il 1971, stavo sdraiata sul letto, in via Sismondi; la camera l’avevo dipinta io, di blu – tutto era di quel blu -, sul letto dondolava piano un’enorme sfera candida di carta giapponese; fuori c’era il silenzio di una domenica pomeriggio; come quando è primavera a Milano, tutto era tiepido e luminoso, la porta-finestra aperta sul balcone.Tutto era molto più tiepido dell’aria di questo marzo che pare una primavera precoce (nonostante l’inverno che vuole le sue rivincite), ma la suggestione del colore è forte, più forte di questo clima incerto. Allora il suono secco, come di un ramo che si spezza, aveva rotto il silenzio mentre sulla parete blu, di fronte a me, nel blu si apriva una stella bianca, un disegno smagliante e irregolare, al cui centro luccicava qualcosa di scuro.
In una stanza buia, tre secoli prima, Isaac Newton aveva catturato con un prisma un sottile raggio di luce e, scomponendolo in un arcobaleno, l’aveva proiettato sulla parete di fronte, colorandola di tutti i colori.
Qui, un cretino imitando le brigate rosse, aveva squarciato la mia parete blu con una carabina calibro ventidue.
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Preferisco il bianco
Uno pensa di scrivere ‘cronache’ poi, invece, si accorge che sono ricordi: con molteplici funzioni e aspetti. Tengono compagnia alla psiche, quando inizi a sospettare che si sia un po’ spenta nel trantran della quotidianità paesana, consolano dalla grettezza che occhieggia troppo spesso nei rapporti tra persone, aiutano a sopportare il peso dell’esistenza in tempi così poco stimolanti da renderla poco sopportabile.
Mi viene in mente questo pensiero accarezzando il pesante copriletto bianco, residuo di un corredo di quattro generazioni di donne, che ha iniziato a dissiparsi un autunno di quasi quarant’anni fa, con il fattivo contributo di un baldo cercatore (e trovatore) di funghi che scelse dodici tele di candido lino tessuto a mano dalle suore dell’Assunzione, in seguito cifrate da una bisnonna, per farvi asciugare alcuni chili di porcini sbollentati nell’aceto. I lini in questione, reduci dal trattamento choc avrebbero meritato la cremazione (con spargimento delle ceneri in un giorno di maestrale), invece hanno avuto una fine banale quanto inevitabile.
Sì, è un pensiero che ricorre, quello del corredo che una volta aveva una sua ‘sacralità’ e che ora non significa più niente. Così ho pensato occhieggiando tempo fa un telo di lino chiamato strofinaccio, che per origini, storia e qualità non meriterebbe la funzione di ‘cencio’, come un avanzo qualsiasi di tela qualsiasi. Ma i tempi sono questi.
Il copriletto bianco mi parla di un’altra campagna, un’altra latitudine – anche sentimentale -; pavimenti di legno dappertutto, lavati finemente; pranzi della domenica attorno a una nonna severa e rispettata; una zia, grande (ma avveduta) cercatrice di funghi, che mi amava come una figlia; altri zii, e mia madre che si alzava più tardi per riprendersi da un sonno poco ristoratore. Tutti i letti in tutte le camere erano ricoperti da un telo di piqué bianco, operato, come quello che ricopre ora il mio letto.
Il piqué era anche il tessuto degli abiti estivi delle bimbe – bianco ricamato in blu a punto smock – e una camicia di piqué bianca era indispensabile per sentirsi ‘a posto’ in un giorno estivo particolarmente caldo. Tutto mi ritorna in mente se tengo gli occhi chiusi e passo leggermente la mano sulla copertura candida, in questi giorni in cui l’inverno – che pare ritornato – salutato enfaticamente dalla stampa quotidiana, più che la campagna sembra gelare il cuore.
Il bianco non è semplice da portare, né da pensare; ci arrivi – si pensa – per sottrazione, mentre invece mi hanno insegnato che contiene tutti i colori dello spettro. Bisognerebbe che andassi a rileggere Goethe, per avere conferma di questo insegnamento dalla sua ‘ Teoria dei Colori’. Come dire che il bianco contiene, è complessità, non ‘tabula rasa’.