Da dove vengo?

 

E se Facebook fosse una sindrome?
Lo penso nel momento in cui mi sveglio e la mente è libera di ricordare chi sono. Nell’impasto di idee e pensieri ritrovo il filo della mia esistenza. Penso a mia madre che partiva per Londra, a sedici anni non ancora compiuti, per andare a fare l’au pair in una famiglia altolocata e beneducata e imparare l’inglese quello vero. Penso a mio padre che volava da Tripoli a Torino, e raggiungeva la famiglia accompagnato da un libico in giacca e cravatta, nella nostra casa milanese. I ricordi sono intatti, ma gli anni trascorsi sono tanti e ora so che biglietti, cartoline e libretti, che testimoniano quello che ricordo e gli danno consistenza, sono preziosi. (Mi viene in mente il grande Nabokov, perché leggendo – e rileggendo – il racconto dei suoi esìli mi ha colpito il legame tra i momenti della vita attraccati a oggetti precisi).
Di certo Facebook ti succhia il cervello.
Le foto, sembra un paradosso, oggi raccontano poco, anche perché ora sono diventate invadenti e sovrabbondanti (con predominanza oscena di pezzi di carne cotta addobbata con l’idea di essere attraente). Ora che tutti afferrano il “telefono” e lo puntano sulla cosa, senza avere un’idea di forme colori né bisogno di pause in un racconto (senza neppure pensare all’effetto che fa a chi guarda), le foto esprimono sempre meno: pochi le usano per raccontare, troppi le usano per vendere senza chiedersi nemmeno come si fa.
Una cosa però la dicono le innumerevoli foto che intasano la rete: raccontano chi siamo e che cosa abbiamo in testa.
Facebook è uno specchio per bistecche e Chris Broadbent esiste solo nei miei ricordi?
Svegliandomi penso alle lettere che arrivavano dalla Libia; ogni giorno una lettera o una cartolina. Le cartoline di Tripoli, molto lucide con le palme, raccontavano una città poco esotica e ben pettinata in cui andare per vivere felici; le lettere erano lunghe e molto spesso contenevano un involucro di carta stagnola che avvolgeva un sottile plico di dollari. Erano i guadagni di mio padre che dirigeva un casinò, che aveva il nome di una gazzella, frequentato da militari inglesi e americani.
Gli oggetti da toccare, per ricordare, ci sono; una piccola agenda color glicine, del 1922, su cui andavo a curiosare da piccola quando riuscivo a impadronirmene, testimone dei gusti di mia madre. Un diario di mio padre, rilegato, con dediche di clienti, grati per la simpatia e l’accoglienza. Un randello di bosso, ordinato a Cuneo da mio padre, per tramortire i clienti troppo invadenti: un randello professionale, il superstite di cinque – durissimi, un po’ nodosi, con cinghia di cuoio ben avvitata per maneggiarli meglio -. Non solo di carta, sono gli oggetti legati a un ricordo.
Facebook è un subdolo attrezzo da compagnia. Bisogna usarlo senza lasciarsi usare, ma è molto difficile.
Mia madre mi ha scritto di rado, forse perché ero sempre con lei; forse perché le riusciva difficile tradurre i sentimenti in parole scritte: lei era donna di colori con un incredibile gusto per abbinarli, senza farsi intimidire da accostamenti inediti. La prima educazione a guardare mi viene da mia madre, di cui ho sempre in mente ‘guarda, Silvana, se non guardi non vedi niente’.
Mio padre scriveva, scriveva e scriveva, quasi ne avesse un bisogno fisico; lo ricordo seduto per ore davanti alla macchina da scrivere, munito di carta carbone (uno strumento meraviglioso ora sconosciuto ai più), carta vergatina per fare le copie, matite, gomme e correttori vari di cui ogni tanto saltano fuori brandelli sbriciolati.
Le lettere e le cartoline a me e a mia madre, no, quelle erano tutte scritte a mano, con una grafia veloce capace di adattarsi allo spazio da riempire che veniva tutto occupato: ed era un segno di immenso affetto e attenzione per noi che leggevamo, io e mia madre, la sua famiglia, che riceveva, avvolti in numerosi fogli scritti quasi quotidianamente – con il racconto della sua vita e i progetti per i suoi periodici ritorni – quei sottili plichi di valuta avvolta nella stagnola per sfuggire a controlli postali e possibili furti.
La posta era sicura, allora; una lettera, indipendentemente dal contenuto era intangibile. Aprire la corrispondenza indirizzata a qualcun’altro impensabile e inaudito. E certo è strano, oggi, immaginare sottili buste di carta air mail, contenenti una discreta quantità di dollari volare dalla Libia a Milano, fino alla nostra casella della posta, aperta e appesa accanto alla guardiola della portineria di via Venini. Al sicuro, come i miei ricordi.
Da lì vengo e anche da più lontano; mi aggrappo a quei ricordi come a un salvagente per non naufragare nel mare di bistecche ben cotte e mal fotografate da apprendisti maldestri che insidiano la mia navigazione con frasi sgrammaticate, che nelle loro intenzioni dovrebbero essere suggestive. Cerco una pattumiera.
Sfuggire al controllo di Facebook è possibile(?).

Più vedo, più guardo. Più leggo, più capisco

 

DSCN1939“Sia io, sia Vasilij Ivanovic siamo sempre rimasti colpiti dall’anonimia delle varie componenti di un paesaggio, così pericolosa per lo spirito, dall’impossibilità di non riuscire mai a scoprire dove conduce quel sentiero che … e guarda com’è invitante quel folto d’alberi! Capitava che su un pendio lontano o in uno scorcio intravisto fra le piante comparisse e, diciamo così, restasse immobile per un istante, come l’aria trattenuta nei polmoni, un luogo tanto incantevole – un terrazzamento, un prato, l’espressione perfetta di una bellezza tenera e benevola – da far credere che fosse possibile fermare il treno e andare là, per sempre, da te, amore mio … Ma mille tronchi di faggio già balzavano avanti forsennati, turbinando in una pozza sfrigolante di sole, e di nuovo svaniva l’occasione di raggiungere la felicità”

Anch’io come Vasilij ho imparato il paesaggio nei lunghi viaggi in treno fatti con mia madre che mi esortava a guardare e a ‘vedere’ ciò che guardavo. Sono stati i libri, poi, a darmi gli strumenti per leggere anche le emozioni che provavo e che continuo a sentire nel guardare e vedere il paesaggio, i paesaggi – anche i più consueti -. Ho trovato quel sentire, così ben descritto nei racconti di Vladimir Nabokov, quelli raccolti sotto il titolo “Una Bellezza Russa”; la citazione è tratta dal racconto intitolato “Nuvola, lago, castello” e penso che racconti perfettamente il sentimento di chi guarda (e vede e perciò sente!) il paesaggio in cui noi umani viviamo, camminiamo, e agiamo.

Forse sta crescendo una nuova sensibilità, ma il gusto del paesaggio (il senso estetico di ognuno è davvero influenzato da fattori e circostanze e frequentazioni) che potrebbe accomunare molti, è fortemente incrinato dalla banalizzazione televisiva e dall’arrivismo (anche legittimo in un certo senso) di quelli che, costruendosi una casa, o ristrutturandone una, o arredandola, o piantumando il proprio giardino, sono sospinti e motivati in modo confuso – nelle loro scelte – dall’incapacità di ‘provare emozioni’, se non quelle suscitate dall’idea del possesso e dai soldi. Tutt’ora!

E’ abbastanza inevitabile in un paese povero come il nostro: povero d’idee che non siano legate (ancora) all’idea di successo, soldi, esposizione di ciò che i soldi che uno ha guadagnato consentono di avere. Avere per essere, anzi per apparire, come un po’ sommariamente citava il Renzi Matteo – addobbato Scervino – (meglio essere che apparire, eccetera, si vede che gli avevano parlato di Eric Fromm) in uno dei predicozzi ammanniti all’incolto (nella sua lettura non completamente inesatta dell’italiano medio: altrimenti chi lo voterebbe?!) e un po’ meno all’inclita.

Eppure il paesaggio è un capitale sociale che solo il nostro cattivo gusto collettivo, o le rapine a cui è soggetto in questi frangenti il nostro paese, possono sottrarci. Ed è un bene importante (sarebbe), perché vivere in un bel paesaggio è alla base di una qualità di vita superiore: qualcosa che potremmo anche commercializzare, proponendola a chi non ce l’ha e viene a cercarla da noi  e siccome noi siamo un paese di non lettori, non abbiamo gli strumenti conoscitivi (e di sensibilità) indispensabili a capire e tradurre ciò che capiamo in fatti, comportamenti, modi di sentire.

A questo serve leggere: non per obbligo nemmeno per citare, e non per esibire. Troppa tv brutta, sciatta, banale hanno annichilito la vera crescita dell’Italia.