La Grecia ha – avrebbe – molto da insegnarci, con i suoi miti che ci segnalano implacabilmente tutte le situazioni a rischio che noi tralasciamo. “Noi” sta al posto, sì certo, della politica o degli intellettuali, o volta a volta di chi presiede singoli comparti o attività o settori (della vita pubblica, delle problematiche che si affacciano nelle nostre esistenze); ma il “noi” contiene ciascuno di noi tutti – cominciando dalla sottoscritta – che come si dice a Milano (oppure si diceva), dormiamo all’umido (modo di dire chiarissimo, mi pare).
Per questo il Cavallo di Troia mi sembra, oggi, una metafora da tenere d’occhio.
Mi è venuto in mente, parlando con Lorenza (mia concittadina in questo minuscolo paese), mentre commentavo l’abbigliamento e i costumi dei tunisini che hanno ‘colonizzato’ questa frazioncina del comune di Montalcino in cui abitiamo.
Sono tutti operai agricoli, contrariamente ai primi immigrati albanesi e macedoni (e kossovari) che si erano trasferiti da queste parti in cerca di lavoro, molti più anni fa e che si sono orientati verso altre attività (ma alcuni di loro sono anche ritornati al loro paese d’origine).
Qualche tunisino ha avuto la nazionalità italiana ed essi ora fanno parte del paesaggio umano nostrano; ma qualche punto d’attenzione c’è, anzi mi pare che ne siano sorti dei nuovi …
Se quindici anni fa le loro spose e figlie assomigliavano in tutto e per tutto alle nostre giovani donne, da dieci e più anni a questa parte esse sono tutte velate. Niente di male, niente di che aversene a male: un velo in testa non ci turba. L’osservazione riguarda solo il fatto che ‘prima no ora invece tutte velate’ e questo deve logicamente corrispondere a un cambiamento di qualcosa: che cosa?
Da due o tre anni, gli immigrati di fede islamica hanno costituito una piccola moschea e questo è più che naturale, come lo sarebbe per un cattolico in un paese islamico, il desiderio di avere un luogo in cui praticare il proprio culto.
Da qualche sera ho osservato che gli uomini (le donne stanno in casa, ovviamente, e questo sì invece, come donna mi irrita) smessi i panni del lavoro vestono tutti o quasi la djellabah o galabyah, cioè la tunica della tradizione araba (?), con maniche lunghe e di colore bianco. Forse perché siamo in periodo di ramadan; ma gli anni scorsi, durante il ramadan, non ho mai notato questa osservanza, che mi pare stia divenendo molto più praticata e stretta (anche se non so quanto sia sentita). Tutto questo cambiamento è iniziato più di dieci anni fa, in concomitanza dell’arrivo – e permanenza periodica in paese – di un uomo (un imam?) che veste sempre alla foggia araba, porta il copricapo religioso, ha la barba lunga e fluente (ma non i baffi).
Mentre scrivo, e mi rendo conto di farlo con accenti critici, di queste ‘novità’ paesane (che però collimano con identici fenomeni qua e là in occidente), rifletto sull’effetto che può fare quello che riporto. Immagino le alzate di spalle, o d’altra parte anche quelli che trovano conferma a un loro modo di pensare un po’ fascistoide. Nulla di tutto ciò mi passa per la mente, ma soprattutto mi viene in mente in Cavallo di Troia, coadiuvata anche dal pensiero degli sbarchi quotidiani di quelli che io immagino siano – più che i protagonisti di una diaspora drammatica, più che migranti coatti che hanno messo da parte migliaia di dollari a testa per pagarsi un viaggio impossibile – scudi umani, ostaggi di qualcuno che sta organizzando qualcosa di ancora sconosciuto e inimmaginabile; anche se non si può dimenticare quello che sta succedendo in troppi paesi del sud del mondo (ma anche a est non scherzano affatto).
Insomma: che cosa sta succedendo (globalmente pensando)? E poi invece mi chiedo anche: quando il nostro giovane (e gasatissimo) presidente del consiglio parlerà di se stesso e della propria compagine come “generazione Ulisse”???
Sempre a proposito di Omero, dell’Iliade, della Grecia, del Cavallo di Troia: un mito davvero sottovalutato.
il noi ha molte sfaccettature, può essere usato per escludere a fini razzisti, può essere l’emblema della solidarietà oppure anche essere l’espressione di chi condivide un legittimo interesse con altri. I nostri immigrati, ovunque andassero, ambivano a diventare noi con quelli che già abitavano lì, e spesso gli veniva impedito. Era brutto, immorale e stupido e la storia lo ha dimostrato. Ora sono parte di loro, e sono diventati una risorsa per le terre che li hanno accolti. Questi nuovi arrivati vogliono diventare noi? Credo che la domanda da porsi sia questa, e non sento nessuno farla. Quando vedo l’imam di Sant’Angelo penso alla sua giovane moglie in piena estate con il volto totalmente coperto tranne una feritoia, guanti e calze nere e mantella nera che copre ogni forma e ogni millimetro di pelle. Io non ho paura di nessuna religione e di nessuna razza, ben vengano, ma ho molta paura dell’alieno che vive qui ma non mi vuole conoscere e non vuole che io lo conosca. Come può chi è portatore di questa mentalità diventare noi con noi? Non è politicamente corretto dirlo, ma io questo problema lo vedo solo con i mussulmani di certi paesi e quasi mai con negri, asiatici, sudafricani ed europei. Sono razzista per questo?
Ma no, non mi pare che tu sia razzista; non più di quanto lo sia io, se razzismo vuole dire dare per scontato che tutti abbiano il diritto di stare sulla terra su cui stanno, rispettandone le regole, ma avere riserve più marcate per i comportamenti che lasciano dubbi, quando provengono da persone che hanno usi e storia diversi dai nostri (avendocele anche per i cosiddetti ‘nostri’, quando si comportano allo stesso modo: vedi il tizio poco raccomandabile che qui ha messo le mani addosso a un’americana pensando di farci del sesso).
Ma il razzismo intollerabile è quello nei confronti dei poveri, per le religioni diverse da quella locale, per i colori della pelle diversi dal nostro.
Un venticinque anni fa ero in visita a Glurns (Glorenza) una cittadina bellissima; stavo con i miei tre figli e con due ragazzi della loro età molto meridionali d’aspetto e di sostanza. Si sono avvicinati tre giovanotti del luogo che mi hanno aggredita a parole “mamma italiana con bambini terroni” e ho dovuto spiegare loro che i mia nonna veniva da Zurigo e per me i terroni erano loro … Ma a parte queste buffonate, ci sono riserve (es. nei confronti dei fondamentalismi) che non mi paiono razzismo. Ma ad esempio, nel paesello, uno che è figlio di una calabrese lo chiamano Negus, … e qui casca l’asino …
No, quello lo chiamano negus perché suo nonno fu soprannominato negus dopo aver fatto la guerra d’Abissinia. La mamma calabrese non c’entra, e il razzismo nemmeno.
Così me l’hanno venduta in paese ..
Quel soprannome Negus (o più esattamente Negusse) sta nell’elenco dei soprannomi “storici” fatto dal Raffaelli. Il più antico è quello dei Caporali, detti Chiodi dal ‘500.
Chiodi?! Cioè?
Mario Caporali detto Chiodo. Fino a un secolo fa lo avrebbero registrato così anche all’anagafe. Se gli mandi una lettera indirizzata a Mario di Chiodo, 53024 Montalcino, scommetti che gli arriva?
Sì, ma chiodi?!
Chiodi perché un singolo Caporali è un Chiodo, ma la gens dei Caporali nel suo insieme è quella dei Chiodi.
PS certe cose purtroppo si dimenticano, pensa che Marco Mantengoli non sapeva che loro sono i Gattini!