Chocolate crossing

L’impatto è così forte, repentino, esteso, da lasciarmi senza fiato. Ma non priva di consapevolezza. E’ stato come se la nebulosa di pensieri che si stavano addensando nella mia testa fosse così sgradevole da farmi perdere le misure della realtà e piombare in terra, come un salame – dicevano quando ero piccola – sei caduta come un salame. E il mio primo pensiero è andato all’appuntamento di lunedì mattina, dopodomani, con impegni precisi (tutto che funzionava come un orologio, nonostante tutto). Tutti i miei pensieri sono rimasti contusi, mentre tre o quattro uomini ciondolavano sul marciapiede di fronte, davanti al circolo Arci, guardandosi bene dall’avvicinarsi – chissà mai che dovessero chinarsi e aiutare ‘una di fora’, passata al team dei vecchi, con l’aggravante di pensare -. E’ un nero intorno alla trentina ad avvicinarsi chiedendomi se mi sono fatta male e se può fare qualcosa. Osservo la giacca in pelle color cacao – un bomber? un chiodo?, mi domando – mentre ascolto le reazioni del mio corpo … il ginocchio destro polarizza la mia attenzione e mi pare il punto più preoccupante, anche ricordando i suoi precedenti . Del ghiaccio, subito, per favore … ah l’arnica per bocca ci vorrebbe; arriva una donna che riconosco, è la barista dell’Arci, e intanto mi domando che fine ha fatto il nero col chiodo (o il bomber) e come mai non torna con un po’ di ghiaccio. E’ a lei che serve il ghiaccio?, mi chiede la barista: io sono ancora seduta sul marciapiede, intanto si è fermata un’auto e una ragazza gentile, con accento dell’est mi promette di rimanere finché mi alzo. Capisco che la barista non si è fidata della richiesta del nero (si sa mai: da loro c’è la guerra, c’è l’Ebola e comunque non capiscono la nostra lingua e nemmeno il nostro modo di fare). Comunque il nero rispunta dal bar, i tipi che ciondolavano si sono percettibilmente avvicinati, forse per capire se ci sarà spettacolo e di che genere, la ragazza dell’est mi strattona piano per convincermi ad alzarmi. Il nero è pragmatico: mi consegna il ghiaccio chiuso in uno shopper bianco, io mi ci tampono il ginocchio mentre sento che mi spunta un bernoccolo in testa; la ragazza dell’est mi consegna le chiavi dell’auto che mi erano sfuggite cadendo.

Mentre i tipi dell’Arci si dondolano con aria assente, mi chiedo se qualcuno mi ha spinta, per cadere così di colpo; ringrazio la ragazza dell’est e mi rimetto faticosamente in piedi. Mi guardo le scarpe che ho acquistato un paio di anni fa a Saint Vincent e capisco che è tempo di buttarle via, anche se paiono ancora buone: sono loro che mi hanno tradita. Penso a quello che mi aveva detto la signora che me le aveva vendute, mettendomi in guardia. Forse le scarpe hanno una vita propria? Credo che solo Nabokov saprebbe descrivere questa scena, cogliendone la dinamica in profondità, con quel modo di guardare fino in fondo l’evolversi delle situazioni, ma solo Marquez sarebbe in grado di rispondere ai pensieri di quelle scarpe e scriverci un racconto.

DSCN6279

Globalisation

Ricordo ancora il vecchio odore della stazione Centrale, di Milano, quando accompagnavo o andavo a prendere mio padre che andava a Genova. Sapeva di bitume e di vite viaggianti – con vago sentore i formaldeide in sottofondo – un odore inconfondibile, ricco di ricordi. C’era il bar dove tutto costava inspiegabilmente troppo, i borsaioli in agguato, la farmacia sempre aperta, due edicole e il modello dell’Andrea Doria sotto vetro (come a ricordarmi che papà era imbarcato). Ho ancora le foto dei mitici sbarchi di mio padre – a Genova o a Le Havre, o a Southampton, con un Borsalino in testa e il bavero del cappotto alzato dato che veniva quasi sempre da paesi caldi – e finché campo, pensando a mio padre lo vedrò salire o scendere, da un treno, da una nave, da un aereo: l’uomo con la valigia, lo chiamavano gli amici e mia madre.

Ora invece vado spesso alla stazione di Grosseto, dove per sentire gli odori di cui sopra devi spencolarti sulle rotaie e tirare su forte con il naso: allora ti arriva remoto il sentore, che è l’ombra dell’odore d’antan. Però a Grosseto – lo ricordo bene – ho accompagnato per l’ultima volta a un treno mio padre che era venuto a trovarmi durante la mia vacanza toscana; era molto malato, ma piuttosto irriducibile; mi domandavo se ce l’avrebbe fatta a salire sul treno e, giunto a Milano, se sarebbe stato in grado di arrivare a casa. E’ stato il suo ultimo treno, che io sappia, circa trent’anni fa.

Sempre alla stazione di Grosseto, giorni fa ho invece accompagnato Francesca, che andava a Nord. Come trent’anni fa, il treno era in ritardo. Fuori dalla stazione alcuni rom osservavano da lontano i movimenti di un gruppetto di tossici che si davano da fare intorno a una fontanella. Sull’uscio due poliziotti stavano impalati a guardare un paio di immigrati slavi un po’ alterati; con Francesca siamo andate al bar della stazione, che ora si chiama Chef express, ma il servizio è lento. C’è una sola banconista, che fa tutto, dalla somministrazione alla cassa. Conosce il valore della cartamoneta, ma non parla la nostra lingua. E’ un’orientale, carina, con occhi vuoti e priva di espressione; abbiamo capito che aveva capito l’ordinazione quando ci ha messo davanti un caffè e un té. Francesca ha chiesto la chiave della toilette, ma ha dovuto rinunciare perché il gesto di risposta era incomprensibile … Poi è arrivato il treno, in media con il ritardo di sempre e ci siamo avviate ai binari. E’ lì che ho avvertito il lontano ricordo dell’odore di stazione, mortificato però dal potente profumo del detersivo con cui un operaio stava riempiendo un macchinario per lavare i marciapiedi: in tuta gialla, con strisce fluorescenti e la scritta “Cleaning Service”.-

Manca il Vino

Per capire come (non) funziona l’informazione in Italia, basta osservare come viene trattata la notizia dei numeri che Morgan Stanley ha dato a proposito di produzione e consumo del vino nel mondo (globalizzato) e le prospettive che ne ha tratto. Che ne ha tratto per lo meno il Corriere della Sera, con il suggestivo articolo di Luciano Ferraro, nel cui titolo appare subito la magica locuzione “bene di lusso” …

Sempre di più, sfogliando e leggendo la stampa del nostro paese si capisce come essa sia lo specchio del nostro decadimento; ci si accorge che abbiamo tracciato una serie di sentieri molto interessanti; abbiamo vantato le nostre peculiarità nazionali – creatività, manualità, buon gusto, istinto per il bello, ingegno e tutti i talenti che sono corollario, aura e cuore del made in Italy – e mentre le vantavamo mettevamo all’incanto la nostra passione, svenduta, in cambio di un’abbuffata di lenticchie (dove questo nobile legume rappresenta la metafora del soldo), nella scia dei capitani di sventura che hanno razziato il paese, scarnificandolo di tutto ciò che era nato dall’ingegno italiano e poi consolidato dal lavoro di milioni di ex contadini inurbati e divenuti operai e tecnici di talento, artigiani e artisti che hanno lavorato sodo – per decenni – che hanno investito nel proprio lavoro creando piccole imprese, benessere per sé e ricchezza smisurata per alcuni cosiddetti imprenditori guastati poi dalla finanza, corrotti dalla politica, assaliti dai manager privati e di stato, completamente fusi nei rapporti incestuosi con partiti e cordate, alla rincorsa dei soldi – per sé – completamente dimentichi dell’interesse del paese …

Perché l’articolo sul vino (che manca) mi dà questo senso di frustrazione? Erano mesi, forse anni, che Angelo Gaja (con acribia andava sottolineando tutti i punti della questione e scrivendone, nelle occasioni perfette), parlava della produzione insufficiente. E mi aspettavo che, andando oltre la constatazione che mancando il vino i prezzi sarebbero saliti, dopo il lancio di Morgan Stanley, il Corriere guardasse un po’ più in là del mero fatto economico.

Per esempio:  che cosa significa questo, per il nostro paese?, quali prospettive, quali orientamenti ci pongono questi dati? E rispetto alla situazione mondiale, i nostri vini che spazio avranno e presso quali pubblici, in quali paesi? Che cosa si può ipotizzare – oltre alle solite formule “fare squadra”, “promuovere sinergie”, eccetera, per affrontare al meglio questo imminente futuro? I nuovi paesi produttori – sia dal versante scientifico-tecnico, che per gli aspetti culturali – che prospettive avranno sul mercato mondiale? Saranno negli stessi nostri segmenti, oppure parleranno di (produrranno) ‘altri’ vini, con altri posizionamenti, altri approcci.

Mi sono posta queste domande e poi ho girato pagina ed ecco che ‘inciampo’ in un altro titolo: ” Famiglia, cibo, musica… siamo così affini all’Italia …”. E’ un coreano dal volto intenso che parla, dalle pagine della cultura. Il mondo gira: abbiamo insegnato a dare valore alla propria storia, ai propri luoghi, tramite i prodotti nati per parlarne (altro non è il made in Italy!!) e mentre ci siamo persi di vista, gli altri hanno imparato a mettere a frutto il proprio talento (e la propria cultura), con la passione che noi abbiamo perso, che si è smarrita per strada; siamo diventati quelli che per comunicare che fanno qualcosa, lo dicono (e basta). Siamo ormai solo parole al vento. Manca il vino e non ci occupiamo della struttura di questa mancanza, ma osserviamo che esso diventa un bene di lusso; quindi qualche altro “politico” diventerà vignaiolo …2013 vendemmia