La vera storia di un addio

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Ci si immagina che chi, come me, non ha fede, non sia toccato dal destino di un luogo ad alto contenuto spirituale, come l’abbazia di Sant’Antimo, che da oltre un mese è al centro di incontri, commenti, versioni diverse.

Ma Sant’Antimo, e la piccola comunità di canonici premostratensi che l’hanno abitata da poche decine d’anni a questa parte, sono (stati) anche per la gente come me, fino a poche settimane fa una presenza speciale, nitida e irradiante, come il saio quasi candido indossato da quei monaci. Troppo carismatica per passare inosservata, la comunità di questi canonici è anche stata per lunghi anni, da queste parti, l’unico tocco di autentica eleganza (se l’eleganza è la capacità di esserci senza apparire, in senso ostentativo, ma lasciando un segno distintivo). Gli uomini angelicati dal saio bianco sono anche stati i testimoni del cambiamento che ha toccato i versanti delle colline, con la crescita di presenze – doviziose, anche se non sempre altrettanto carismatiche – insieme alla crescita di vigneti divenuti famosi, fino alla capacità, ormai acquisita da tutti, di pronunciare la parola ‘bellezza’ (pur dandole un senso economico). I canonici regolari premostratensi sono stati il contrappasso del vino e del suo opulento edonismo, ma sono (anche) divenuti con il tempo un complemento (un completamento, un cerchio che si chiude), pur non essendo astemi. Ora vanno via, lasciando desolata – con quella che è stata definita, dal Corriere della Sera, una fuga -, “per una guerra di proprietà di alcuni locali”, tutta una comunità che in vario modo contava su di loro; e so che il dispiacere è forte.

Lascio però ai giornalisti il compito di offrirci le varie versioni di una verità che pare un Rashomon della val d’Orcia, ma senza Kurosawa alla regia. Mi limito a pensare che forse, paradossalmente, questa non sarà (solo) una fine, ma è (anche) l’inizio. Di qualcosa di nuovo, perché le cose cambiano.

 

Una sera con Furore

A cosa serve leggere libri – in particolare i romanzi -? Mi rispondevo mentalmente da sola lo scorso giovedì sera, mentre mi tornava in mente la trama di “Furore”, (ovvero The grapes of Wrath, tradotto impropriamente come ‘grappoli di odio’) …Mi rispondevo mentalmente, ricordando la situazione da cui prende le mosse il romanzo di Steinbeck e accostandola all’assemblea gremita – ma tranquilla (tranquilla, ma non supina) – a cui stavo partecipando, e riflettevo sugli eterogenei interessi che riguardavano sia i partecipanti presenti, sia i molti soggetti coinvolti assenti. Che cosa c’entra la lettura di libri con le centrali geotemiche che la regione prevede di installare tra Amiata e Montalcino?

E a che serve leggere i romanzi? A capire meglio e a vivere come proprie le esperienze degli altri; o a riconoscere le situazioni e le loro dinamiche, anche quando sono meno palesi, forse . Chi ha l’abitudine all’informazione non sempre utilizza quella che gli viene dai romanzi che ha letto. Questi solo apparentemente ci rappresentano una finzione; perché chi scrive romanzi ci mette sempre un pezzetto della propria storia o di quelle che ha visto accadergli intorno. Perché le storie degli uomini si inseguono, sospinte da pulsioni identiche, e a saper distinguere ci sono anche i buoni e i cattivi. L’altra sera proprio Furore mi tornava alla memoria, una lettura giovanile che mi aveva turbato nel profondo; mi aveva angosciata l’idea di quelle famiglie spossessate, costrette a lasciare una vita e andare via senza speranza e senza futuro. 

Di certo il contesto in cui mi trovavo non aveva le tinte drammatiche di quel romanzo (che peraltro non è pura fantasia, bensì una storia che ci riporta ai tempi della grande crisi negli Stati Uniti); ma continuava a farmelo tornare in mente e dati i tempi che stiamo attraversando mi sono chiesta se qualcosa lì sospeso a mezz’aria, o dietro agli occhi attenti di quelli che ascoltavano senza un mormorio o un gesto di polemica, mi aveva suscitato il ricordo di quel libro così lontano.

Non rileggerò subito Furore, ma lo cerco e me lo tengo a portata di mano. E’ una lettura scomoda e pesante, fatta di questi tempi, ma è persino un libro con un lieto fine, anche se non per tutti i protagonisti della storia. E sono convinta che rileggere quel libro – corposo e apparentemente inattuale – aumenterà la mia capacità di capire.

La Scoperta del Paesaggio

Lo dicevo io che prima o poi il paesaggio sarebbe diventato il protagonista di questa Italia strana, che invece di avere cura di se stessa e presidiare le sue bellezze, ha cominciato nel secondo dopoguerra a (far) costruire raffinerie; non certo il massimo da affiancare ai lasciti di popoli e generazioni che nel Belpaese hanno stratificato testimonianze artistiche da Unesco, durante i secoli.
Sono bastati pochi decenni e un paio di generazioni di politica del ciarpame per ossidare i segni lasciati nei secoli dal lavoro dei contadini, degli artigiani e dei grandi artisti, ma niente paura; ora la politica si è accorta del paesaggio e vuole tutelarlo.
Spero però che l’esempio dell’ attenzione a questo bene delicato e misconosciuto non sia quello che mi giunge per mail dal comune di San Quirico, il cui sindaco mi sembra persona molto rispettabile.
Perché pare che vi sia un contenzioso con la McDonald, che si è inventata un hamburger la cui protagonista è la Chianina (povera Chianina: finire in un Mac). Che cosa ha combinato la McDonald? Ha ambientato il McItaly fatto con chianina, in un paesaggio bucolico, che riprende (a me non pare manco troppo fedelmente) un paesaggio toscano famoso, quello in cui, sul confine tra Montalcino e SanQuirico, fanno bellissima presenza i cipressi di un roccolo largamente usato dalle Poste Italiane, da alcuni agriturismi marchigiani, e da molti altri ..da un bel po’ di tempo a questa parte.

Reazione (leggo) dell’amministrazione comunale: “se ne guardino bene, dall’usare quel paesaggio famoso”, a meno che la MacDonald, scriva chiaramente che il paesaggio, usato quale sfondo al terrificante paninazzo, è quello di San Quirico d’Orcia. In altre parole si dà il destro alla McDonald di usare le bellezze di un paesaggio unico, purché se ne approfitti fino in fondo, apponendo anche una didascalia che autorizza quell’accoppiata un po’ innaturale.

Sull’uso (e gli abusi) relativi al mitico roccolo di cipressi, la Mc Donald è l’ultima arrivata, mentre le poste italiane hanno fatto campagna, per più di un anno, inondandoci della foto che riproduce i cipressi, fino a farci morire di noia. Anche se – d’accordo – le poste italiane (pur scalchignanti) – sono più decenti, dal punto di vista dell’accoppiamento con un paesaggio così emblematico.

Ma perché mai, mi domando poi, si dovrebbe scrivere, sotto una foto di un panorama, il nome del comune in cui ‘sto panorama è situato? Non mi pare che sia una condizione che tutela il paesaggio, che è di tutti. Mi sembra invece che la tutela del paesaggio sia tutta nelle scelte che determinano dove, quanto, come e se COSTRUIRE, consumando colline a pianure, boschi e coltivi. E nell’insegnare ai cittadini, soprattutto nei giovani, che il paesaggio – fonte di benessere spirituale e attrazione per il visitatore – è patrimonio loro: perciò essi ne sono i primi fruitori e devono esserne i custodi.

La Mc Donald non mi piace, non mi piacciono le sue scelte di marketing, che mi ricordano i saprofiti; l’idea di una bella chianina bianca che finisce da morta in un Mac, mi raccapriccia e mi riempie di tristezza, ma se tutti i sindaci d’Italia decidessero che per fotografare o filmare il paesaggio occorre un’autorizzazione, vorrebbe dire che nessuno più potrà ambientare un servizio di moda, o un reportage, o una commedia o un film, in Italia. Vorrebbe dire soprattutto che ci si è dimenticati che il paesaggio e il territorio sono di tutti, sono un bene comune.

Independence Day

DSCN5935DSCN5936DSCN5931Nel clima infelice di slittamento generale, ogni tanto mi capita di tornare nei luoghi che hanno lasciato traccia nei miei ricordi, dove ho guardato e sentito; dove ho provato emozioni e ho capito che vivevo in un paese straordinario. Confusa dall’emozione, mi accorgo di aver usato l’imperfetto del modo indicativo; forse perché non si può non provare acuto dolore e piangere vedendo e toccando quanto l’ignoranza, l’indifferenza al bello, la rapacità, l’incapacità di capire, l’assenza idee, facciano crollare anche le testimonianze lasciate da quelli venuti prima di noi; uomini che camminavano per conoscere. Ora l’istinto di sopravvivenza suggerirebbe di restaurare ciò che resta di loro, per mantenere aperta la strada della conoscenza, per salvare la nostra memoria. Ma dalla cabina di regia dicono che abbiamo altri impegni.