Preferisco il bianco

Uno pensa di scrivere ‘cronache’ poi, invece, si accorge che sono ricordi: con molteplici funzioni e aspetti. Tengono compagnia alla psiche, quando inizi a sospettare che si sia un po’ spenta nel trantran della quotidianità paesana, consolano dalla grettezza che occhieggia troppo spesso nei rapporti tra persone, aiutano a sopportare il peso dell’esistenza in tempi così poco stimolanti da renderla poco sopportabile.

Mi viene in mente questo pensiero accarezzando il pesante copriletto bianco, residuo di un corredo di quattro generazioni di donne, che ha iniziato a dissiparsi un autunno di quasi quarant’anni fa, con il fattivo contributo di un baldo cercatore (e trovatore) di funghi che scelse dodici tele di candido lino tessuto a mano dalle suore dell’Assunzione, in seguito cifrate da una bisnonna, per farvi asciugare alcuni chili di porcini sbollentati nell’aceto. I lini in questione, reduci dal trattamento choc avrebbero meritato la cremazione (con spargimento delle ceneri in un giorno di maestrale), invece hanno avuto una fine banale quanto inevitabile.

Sì, è un pensiero che ricorre, quello del corredo che una volta aveva una sua ‘sacralità’ e che ora non significa più niente. Così ho pensato occhieggiando tempo fa un telo di lino chiamato strofinaccio, che per origini, storia e qualità non meriterebbe la funzione di ‘cencio’, come un avanzo qualsiasi di tela qualsiasi. Ma i tempi sono questi.

Il copriletto bianco mi parla di un’altra campagna, un’altra latitudine – anche sentimentale -; pavimenti di legno dappertutto, lavati finemente; pranzi della domenica attorno a una nonna severa e rispettata; una zia, grande (ma avveduta) cercatrice di funghi, che mi amava come una figlia; altri zii, e mia madre che si alzava più tardi per riprendersi da un sonno poco ristoratore. Tutti i letti in tutte le camere erano ricoperti da un telo di piqué bianco, operato, come quello che ricopre ora il mio letto.

Il piqué era anche il tessuto degli abiti estivi delle bimbe – bianco ricamato in blu a punto smock – e una camicia di piqué bianca era indispensabile per sentirsi ‘a posto’ in un giorno estivo particolarmente caldo. Tutto mi ritorna in mente se tengo gli occhi chiusi e passo leggermente la mano sulla copertura candida, in questi giorni in cui l’inverno – che pare ritornato – salutato enfaticamente dalla stampa quotidiana, più che la campagna sembra gelare il cuore.

Il bianco non è semplice da portare, né da pensare; ci arrivi – si pensa – per sottrazione, mentre invece mi hanno insegnato che contiene tutti i colori dello spettro. Bisognerebbe che andassi a rileggere Goethe, per avere conferma di questo insegnamento dalla sua ‘ Teoria dei Colori’. Come dire che il bianco contiene, è complessità, non ‘tabula rasa’.

Una notizia buona (e una così così)

La notizia buona è che “non è diserbo” quello che a me era parso tale … scusate, voi quattro gatti (o cinque) che mi leggete vi sarete magari persi (“ma questa di che sta parlando?”). Ma una notizia buona va data subito, prima che si raffreddi, anche se è giunta mezzanotte. Sì perché la notizia buona è arrivata per telefono poco fa e siamo talmente assaliti da quelle pessime, dalla depressione, dall’idea che tutto in questo momento vada per il peggio (in effetti, però, non pare ci sia tanto da stare allegri …), che quando ti assicurano che una cosa che ti sembrava orrenda non è così, non solo, ma fa anche inorridire molti altri, non puoi che esserne lieta e affrettarti a farlo sapere ai quattro gatti (o cinque) che leggono i tuoi post senili.

Dunque ripeto, tanto per essere chiara e farlo sapere a tutti: sull’amato pratino dello Scalo, popolato di pratoline, pratino molto grazioso di cui ho scritto alcuni giorni fa, in un giorno di pioggia, nessuno ha sversato del diserbo (né chi lo accudisce, né altri di nascosto) e le chiazze che ci hanno allarmato (non ero la sola) dipendono da un fisiologico ricambio dell’erba: la vecchia muore – mi hanno spiegato, mi illudo senza allusioni – e talvolta lascia dei resti giallastri. La seconda parte della notizia buona è che chi me l’ha comunicato mi ha fatto sapere di odiare il diserbo e disprezzare tale pratica … e mi ha convinta.

Poi – ehm ehm – ci sarebbe quella che ho annunciato come la notizia così così, perché non saprei come catalogarla altrimenti, cercando di non farmi altri nemici (che non sempre si limitano a portarti onore), ed è la seguente: nessuno, davvero nessuno, ha smentito la presenza dell’F35 – nel meraviglioso pratino delle pratoline in cui ho temuto che avessero sversato la robaccia -, che ho chiaramente citato nello stesso post.DSCN9181. Il che vuol dire delle due cose l’una: o l’F35 non è stato rimosso, o a nessuno interessa che stia lì!

Girogirotondo

Le ho portato un mazzetto di matite colorate, sapendo che il bell’effetto veniva dal colore esterno delle matite, più che dalla mina colorata; penso che quello che ti colpisce nella prima infanzia, lascia nella tua memoria un segno speciale. I colori di quelle matite hanno tonalità speciali: sanno di frutta, di mattino d’estate quando l’aria è ancora fresca, sanno di albicocche appena colte …

Ho incominciato, sotto i suoi occhi attenti, a disegnare una spirale di color ciclamino, canticchiando girogirotondo; mi sono resa conto che la spirale cresceva quasi perfetta, sul foglio bianco, ed era molto apprezzata dalla piccolina che si è messa a cantare imitando perfettamente l’intonazione e farfugliando le parole; poi si è guardata le mani e mi ha preso la matita, impugnandola come fosse una spatola.

Poi si è messa a disegnare una spirale, a modo suo, alzando di poco il tono della voce, mentre continuava a cantare: guardavo il modo improprio in cui teneva la matita e mi è venuto da dirle guarda!, non così, la matita si tiene così, mostrandole come. In quell’istante mi ha colpito il ricordo di una maestra che mostrava come si tiene una matita a me bambina e, insieme, mi è tornato – come se fosse accaduto un’ora prima – il senso di frustrazione da cui ero stata invasa allora, pensando che non ne sai mai stata capace.fiore come pensieri

Il Futuro nell’Orto

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DSCN6019 E’ il luogo in cui facevo merenda, da bambina, con una chioccia che veniva a farmi visita, circondata dalla sua nidiata pigolante – pane burro e miele di lavanda -, una merenda ricca, un po’ datata, da figlia unica e nipote privilegiata da una sventolata di zii.

Questo è il mio ricordo infantile dell’orto, e quando mi ritrovo nel verde coltivato – alle vigne ormai ho fatto l’abitudine – il ricordo si confonde con un sentimento decisamente più attuale: la sensazione precisa che nel verde degli orti ci sia una gran vitalità; la sensazione che nel verde dell’orto ci sia la risposta a tutto ciò che conta.

Le obiezioni sono più che scontate, soprattutto leggendo e ascoltando le (non)notizie che assediano questa estate deforme. Entri nell’orto e guardi: puoi vedere quante declinazioni e coniugazioni di verde; puoi guardare e vedere le forme di infiniti frutti, obbedienti a un lavoro modernissimo. Non c’è niente lasciato al caso, nell’orto; tutte le azioni sono concatenate tra di loro e si susseguono nel seguire la stagione. L’orto è senza fine, è dialogo continuo; tu fai e la terra risponde. E’ il regno del verde, dei ricordi delle infanzie fortunate. E’ il luogo centrale di un futuro commestibile.