Già eravate al corrente del vino – dei vini, per l’esattezza (mica c’è solo il famoso Brunello di Montalcino!) – forse avete sentito dire del paesaggio (“c’è un salto qualitativo tra il resto della Toscana e questi colli, quando svolti lasciando la Cassia e prendi la strada che scollina – Traversa de’ monti – in direzione di Grosseto…” mi sospirava un famoso copy di un’ancor più famosa agenzia); qualcuno, maliziosamente , può avervi suggerito che qui se la tirano parecchio (ed è meglio sorvolare). Vi avranno parlato di certo delle terme disseminate, qua e là (San Filippo, Petriolo, San Casciano, Bagno Vignoni, Rapolano, Bagnacci, …) dimenticando – o non sapendo – che le acque termali abbondano anche tra i filari delle viti …
Qualcuno vi avrà raccontato le meraviglie dell’Amiata (absit iniuria geotermiae), magari l’avrete pure vista innevata o avrete fatto chilometri nelle faggete silenti e misteriose …
Ma quasi certamente nessuno vi avrà raccontato della visione del mare, che luccica in due o tre punti – tra Montalcino e la frazione di Sant’Angelo in Colle -, un’apparizione capace di raccontare meglio di qualsiasi parola quale sia il contesto psico – geo – immaginifico in cui si trova questo lembo di Toscana.
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Da Nada, tortelli e paesaggi che valgono più assaggi
Ha fatto tutto il caso, che non fa mai niente in modo casuale. Due donne – madre e figlia – che mi ritrovano dopo vent’anni; le relative storie che si intrecciano; la ricerca di un luogo dove sedersi per un pranzo in cui rieditare momenti tristi e ricordi felici, per rileggerli sorridendo; la Maremma e la sua luce; un’albergatrice che prenota “Da Nada” (Pensione-Trattoria-Bar-Gelateria, con terrazza panoramica), a Roccatederighi.
Questa è l’Italia non alla portata di tutti, rara, ho pensato entrando, cogliendo la luce e annusando l’ambiente: la luce è la prima cosa e nonostante sia ottobre inoltrato è avvolgente e speciale, come sotto i platani il quattordici luglio nel sud della Francia; come nell’entroterra della Liguria di ponente, d’estate quando c’era meno cemento; come appena a sud di Roma a febbraio, quando solo lì è primavera inoltrata; come sull’alzaia di un Naviglio, col sole che indora tutto emergendo dall’acqua, dove si è appena tuffato.
Poi, più che parlare o scrivere, bisogna andare e assaggiare, perché non sono Tripadvisor e nemmeno recensisco per mestiere, ma io non vivo più in città da un po’ di anni e sto in un luogo sopraffino, dove paesaggi e vini giocano a ping pong e la cucina ragguardevole non manca: so riconoscerli.
Ma quanto mi colpisce qui la luce, e l’aria che tira in questo piccolo (ma non angusto) luogo che pare l’estensione della sala da pranzo un po’ vecchiotta di una famiglia perbene. E come brillano di luce vera gli occhi dei componenti la famiglia – burbero il babbo e assai pragmatico -: Nada la si scopre alla fine, quando tutti gli altri clienti sono usciti e lei si siede a consolarsi delle fatiche di cucina (ma la sfoglia l’ha tirata con la nuora), becchettando una fetta di crostata (la sua crostata) dividendola con il marito.
Il menu è maremmano e un po’ di piatti sono già finiti; ma i tortelli ci sono e pure una pasta con le verdure che la figlia della mia amica ritrovata (dopo vent’anni) festeggia come fosse domenica (ed è domenica, infatti!). E la camerierina pallida ma suadente, vuole rimpinzarci, ma vuole anche vederci soddisfatte.
Le foto non renderanno l’idea, ma l’idea mi è rimasta dentro e so che se voglio ritrovare quella luce speciale di quell’Italia che i mostri del reame stanno spegnendo, torno da Nada e, se piove o fa scuro, guardo negli occhi questa gente che cucina e accoglie, non a caso, come a casa.
Globalisation
Ricordo ancora il vecchio odore della stazione Centrale, di Milano, quando accompagnavo o andavo a prendere mio padre che andava a Genova. Sapeva di bitume e di vite viaggianti – con vago sentore i formaldeide in sottofondo – un odore inconfondibile, ricco di ricordi. C’era il bar dove tutto costava inspiegabilmente troppo, i borsaioli in agguato, la farmacia sempre aperta, due edicole e il modello dell’Andrea Doria sotto vetro (come a ricordarmi che papà era imbarcato). Ho ancora le foto dei mitici sbarchi di mio padre – a Genova o a Le Havre, o a Southampton, con un Borsalino in testa e il bavero del cappotto alzato dato che veniva quasi sempre da paesi caldi – e finché campo, pensando a mio padre lo vedrò salire o scendere, da un treno, da una nave, da un aereo: l’uomo con la valigia, lo chiamavano gli amici e mia madre.
Ora invece vado spesso alla stazione di Grosseto, dove per sentire gli odori di cui sopra devi spencolarti sulle rotaie e tirare su forte con il naso: allora ti arriva remoto il sentore, che è l’ombra dell’odore d’antan. Però a Grosseto – lo ricordo bene – ho accompagnato per l’ultima volta a un treno mio padre che era venuto a trovarmi durante la mia vacanza toscana; era molto malato, ma piuttosto irriducibile; mi domandavo se ce l’avrebbe fatta a salire sul treno e, giunto a Milano, se sarebbe stato in grado di arrivare a casa. E’ stato il suo ultimo treno, che io sappia, circa trent’anni fa.
Sempre alla stazione di Grosseto, giorni fa ho invece accompagnato Francesca, che andava a Nord. Come trent’anni fa, il treno era in ritardo. Fuori dalla stazione alcuni rom osservavano da lontano i movimenti di un gruppetto di tossici che si davano da fare intorno a una fontanella. Sull’uscio due poliziotti stavano impalati a guardare un paio di immigrati slavi un po’ alterati; con Francesca siamo andate al bar della stazione, che ora si chiama Chef express, ma il servizio è lento. C’è una sola banconista, che fa tutto, dalla somministrazione alla cassa. Conosce il valore della cartamoneta, ma non parla la nostra lingua. E’ un’orientale, carina, con occhi vuoti e priva di espressione; abbiamo capito che aveva capito l’ordinazione quando ci ha messo davanti un caffè e un té. Francesca ha chiesto la chiave della toilette, ma ha dovuto rinunciare perché il gesto di risposta era incomprensibile … Poi è arrivato il treno, in media con il ritardo di sempre e ci siamo avviate ai binari. E’ lì che ho avvertito il lontano ricordo dell’odore di stazione, mortificato però dal potente profumo del detersivo con cui un operaio stava riempiendo un macchinario per lavare i marciapiedi: in tuta gialla, con strisce fluorescenti e la scritta “Cleaning Service”.-