Lavoro, paesaggio: un vino. La parola per dirlo.

Raramente ho difficoltà a trovare la parola giusta per raccontare qualcosa che guardo o che sento; le parole mi nascono dentro e quasi tutte vengono da lontano, anche nel tempo: sono figlie della mia storia di lavoro e le nutro continuamente, cercando, ogni volta che sento il bisogno di spiegare, quella che si attagli – come una pianta arrampicata – a quel sentimento a una sua sfumatura, al senso preciso di qualcosa che vorrei comunicare.
Eppure, se mi riferisco al lavoro di pubblicitaria, sono nata con la matita – facevo l’art director -. Il lavoro dell’art prevede un dialogo continuo con un copywriter, il che però non significa affatto che l’uno si occupi di scrivere i testi e l’altro pensi e realizzi la parte visiva. Non succede così, perché entrambi hanno il compito di mettere a punto un messaggio, che sarà poi declinato in varie forme su alcuni o su molti media. E’ un lavoro all’unisono.

La mia storia però inizia un po’ prima, in un altro luogo che può sembrare più astratto dell’agenzia di pubblicità. Il caso mi ha messo in contatto, quando ero ancora giovanissima e stavo iniziando a frequentare l’Accademia di Belle Arti (a Brera, allieva di Achille Funi), con luogo speciale, forse unico in Italia. Era un ufficio diretto da un uomo visionario di cui parlerò un’altra volta; in quell’ufficio ho conosciuto i designer da cui ho imparato che le parole hanno un significato – e questo lo sappiamo tutti – un senso che può cambiare, a seconda di come sono scritte – colori, forme, “caratteri” (che adesso si chiamano font, però provate a immaginare che cosa significhi “carattere”), e altri elementi che ne rendono diverso il significato.
Non tutti lo sanno razionalmente; alcuni usano questi strumenti in modo spontaneo e inconsapevole; poi ci sono i graphic designer che sanno (anche) che forma dare a una parola perché se ne colga perfettamente il senso.
A volte però una parola, anche scritta con lo stile consono, non è sufficiente a raccontare quello che uno sente. Credo che possa dipendere anche dalla ricchezza del vocabolario conosciuto, ma a volte la parola manca proprio perché non si ha qualcosa di precisabile, di concreto, da dire …
… a me succede così e mi chiedo se non sia per questo che ogni tanto mi viene naturale l’impulso di disegnare. Non sento discontinuità tra scrivere (a mano) e disegnare, confesso che mettendo la mano sul foglio mi capita di pensare a una parola e poi mi ritrovo a compitare dei segni che forse traducono meglio quello che ho in mente.

Non so quanto sia stata determinante la mia storia di lavoro, con la conoscenza acquisita dai grandi maestri con cui sono stata in contatto (Bruno Munari, Enzo Mari, Max Huber, Albe Steiner, Lora Lamm, …), o quanto giochi una predisposizione ad usare più ‘modi’ di esprimersi; tuttavia mi sono ritrovata molte volte a cogliere un paesaggio, pensando di scriverne e invece lo stavo disegnando.
Può succedere anche con un lettering, cioè con i “caratteri”(font) usati per chiamare qualcosa.
In questo caso mi riferisco a un vino che ha un nome in etichetta – Rosa – ed è un vino rosato, ovviamente. Ma per quel nome non è stato usato un carattere esistente, bensì delle lettere disegnate ad hoc. Disegnate? Be’, non proprio, perché ogni lettera che compone la parola -Rosa- in realtà è come se fosse scritta. Ogni lettera è fatta con un texture, una sorta di tessitura di segni minuscoli e diversi uno dall’altro.
I segni sono nati da una riflessione quasi inconsapevole, quasi una reazione, al lavoro sulla terra, alle tracce che gli strumenti disegnano sul suolo, creando un racconto, buono per chi lo sa leggere, oppure sente di capirlo e gli piace seguirlo. Non è qualcosa di razionale, ma è quasi automatico, è la voglia di fare quel lavoro, fare quei gesti e lasciare quei segni; o magari addirittura immergervisi e diventare proprio come un campo, un vigneto, un bosco. Oppure essere come il vino nato da  quel lavoro e messo in quella bottiglia. La parola per dirlo bene, lo dice meglio se la scrivi (o la disegni) in modo da far sentire agli altri quello che senti tu.

Vento di fine anno

Ritorno alla Costaccia dei Fagnani, in questo pomeriggio di dicembre, con il sole a taglio basso che ripartendo dal recente solstizio ha già un altro gusto. Erano anni che non svoltavo di qua, verso la loro aia ricca di humus; dove la vita – che brulica tra le foglie in terra, i frutti marciti, gli stecchi e un po’ d’insetti in fasi transitive verso le forme che solo gli entomologi conoscono intimamente, con verdi inaspettati di muschio che sfolgorano di colpi di luce che bucano l’immaginazione -, non è solo metafora, è quasi la cronaca di quarantacinque anni (giusti giusti, in questi giorni) dall’acquisto di una casa che è diventata un mondo; debiti, viaggi, muratori, errori, chilometri, riunioni, feste, musica, compleanni, litigate, tradimenti, notti insonni, gatti, cani, amici morti e vivi, sguardi in tralice, discussioni, tradimenti, eleganza, curiosità infinite, tradimenti, alberi, querce vive morte risorte, muri che cadono, operai che non vengono, porte da cambiare, insulti e disconoscimenti, tradimenti, travi da cambiare, scarabei rinoceronte, persiane abusive, finestre aperte, chiuse, riaperte richiuse, scoperte di tesori nascosti in bellavista, tradimenti, anni, mesi, chilometri, estati, fichisecchi, candele, acqua che manca, le lunghe pause degli operai dell’Enel con merenda nel bosco, i vicini, gli ospiti, i poeti, le altre feste, fosse biologiche che rigurgitano, altre fosse biologiche, le visite della poiana, querce che cadono (tre!) e cercano di ammazzarti, notti di cieli stellati, la pompa dell’acqua che non pesca, la luna che sorge dal poggio nel luglio, i vicini che pompano l’acqua, Picchio, Pocchio, gli orti con le buche delle fate, l’annestino, il Pulcino che frantuma i massi col fuoco e con l’acqua, gli ospiti, Gastone che accende il forno, le teglie, i piatti, la musica, i Premostratensi che vengono a pranzo, l’organista Mascheroni, Pasqua, Natale, il cortile da ripulire, il serpente vaccaro, l’eternit da eliminare, l’arpa che arriva da Milano, le marimbe e Ben Omar, i tappeti sulle lastre del cortile, grilli, nacchere, timpani, conchiglie, piantare alberi, piantare fiori, piantarla, Armando e Rosa che vendemmiano, i Fagnani che hanno il dito verde e vengono a darmi una mano, bambino piccolo, bambini piccoli, gli amici dei bambini, amici, gli amici degli amici, prendere il sole, tornare alla grande casa che dall’aia dei Fagnani non si vede, ma se ne ascolta la presenza.
Sta accovacciata sul poggetto in cima alla salita, come un animale non completamente addomesticato – lì, in un altro tempo c’era il mare, il fondo del mare, ora, dal basso, se stai in silenzio puoi sentirla respirare, e guardarla per vedere la sua storia – la strada che porta fin su è vecchia di centinaia d’anni, ci hanno camminato  preti, soldati, contadini, viaggiatori. Attraversa boschi, vigne e radure, attraverso la mia vita.

 

 

 

 

 

Quarant’anni dopo

RSCN0648Esco di casa abbastanza presto – ogni mattina o quasi – per avere il privilegio di un “a tu per tu” con il cielo, la natura e il paesaggio. Quest’ultimo è parecchio cambiato rispetto al 1975, anno in cui mi sono meritata la definizione di “strulla di Milano” per aver acquistato un podere ‘in mezzo al nulla’ (che fa rima con ‘strulla’!), un bel podere giusto qui sotto, poco sotto questo borgo incantato nel tempo.

Sono passati più di quarant’anni da quel tempo ed esattamente quarant’anni dalla nascita delle mie figliole secondogenite (seconda e terzogenita, per essere tecnicamente corretti),la cui nascita è avvenuta a Milano – ieri, quarant’anni fa – .

Un tempo che è volato, ma durante il suo volo sono successe molte cose; non tutto quello che è successo è piacevole, Ma tutto è interessante e significativo, e molte cose andrebbero raccontate, perché la memoria è un dono importante senza il quale ci perdiamo di vista.

Raccontare non vuol dire rimpiangere e nemmeno rivangare (che bello questo verbo così agricolo che mi si piazza nel mezzo della frase e la contestualizza in questa stupenda campagna.

IL luogo per raccontare non è questo: questo è un blog, una località utile per assaggini vari e per saggiare come fluisce l’adrenalina, all’idea di sgranare ricordi di fatti avvenuti, di incontri straordinari, del paesaggio che cambia sotto l’egida (e l’impulso) di una trasformazione mossa dal successo di un vino divenuto così famoso da sopraffare quasi la notorietà del comune in cui diviene … Una trasformazione a cui hanno partecipato le due creature nate quarant’anni fa (le gemelle di Fonterenza) che hanno nel frattempo creato una piccola azienda agricola, messo in giro pel mondo la loro etichetta e la firma – Fonterenza – che racconta una storia. La loro e quella dei luoghi.

Un racconto nel racconto dunque; perché i ‘quattro sassi nel nulla che fa rima con strulla’, cioè il vecchio podere – vecchissimo, e non scriverò ‘antico’ trattandosi di aggettivo strausato anche per le banalità più banali – il vecchio podere, dicevo, non si limita a essere una casa, una costruzione in tutta la sua concretezza, ma è soprattutto una storia, storia di luoghi in cui si incastona perfettamente la storia delle due bambine che i luoghi li amano e li hanno amati, riconoscendone i caratteri originali, cioè quello che molti (troppi) pur non conoscendo affatto il significato dell’espressione, ma comprendendo che può significare qualcosa di notevole, chiamano “Genius loci”.

Il Genius loci va di moda un sacco; in realtà vanno di moda tutte le espressioni che raccontano e significano tutto il patrimonio che la povera Italia annovera e troppo spesso si è lasciata convincere a svendere. Non che quelli che usano queste espressioni le pronuncino con accorata consapevolezza; no lo fanno per via del business. A dire la vera verità c’è un bel po’ di gente che ha capito – alcuni (pochi) da sempre – che un paese che viene chiamato belpaese avrà di certo qualche merito in tal senso, ma sono ancora troppo pochi quelli che si rendono conto di quanto costruire in modo volgare e invadente, o sbancare disinvoltamente una collina significa – in verità – violentare il paesaggio. Cioè quella cosa concreta e virtuale (perché il paesaggio ce l’abbiamo anche nella nostra mente!) di inestimabile valore, ma il cui valore (pure monetizzabile, perché una casa in un bel paesaggio vale molto di più di una casa nel piattume) si deteriora, si consuma, si opacizza, se chi amministra e i sodali de cuius non capiscono che devono tutelare il paesaggio come si tutela un’opera d’arte.

Ecco, quando ho fatto gli auguri di compleanno (40!!!) alle mie gemelle ho pensato, con uno sfrizzico d’orgoglio “be’ però questo loro lo capiscono e se lo capiscono c’entra anche un po’ la loro mamma, cioè io”. Quella che invecchia facendo e pensando, con buona pace dei criticoni.

Chi abita lì sotto la mia vigna?

La mattinata si annunciava pallosissima: ben due professori universitari e tre tecnici di un’azienda specializzatissima. Più giornalista romano de Roma che avrebbe introdotto gli interventi (e chissà che sicumera!). La stanzona era già piena zeppa alle nove – che era sì l’ora d’inizio, ma non vuol dire – tutti o quasi puntualissimi. Poco cazzeggio e alcuni utili convenevoli.

Alle nove e trenta si parte e il viaggio nel vigneto, con digressioni varie, spegne persino i sussurri. Io mi perdo, perché mentre questi parlano, spiegano e raccontano, e poi alla fine tornano da capo per un lieto fine – o quasi – della bio storia, i miei piedi, subito seguiti dalla mia testa stanno calpestando ghiaia, pozzanghere, erba, stralci, il bordo del bosco, la radura pallida di brina e crocchiante, le foglie fradice che si sfanno nella terra, rametti e briciole di resti organici; deiezioni piccine, impronte, fili solitari di erba ingiallita, qualche fiore coraggioso, ghiande semisfatte, le foglie cesellate della quercia venute da lontano, quelle del fico (così profumate che paiono Penhaligon’s), brandelli di corteccia scarnificata dalle intemperie. Poi fango che si incolla nel Vibram, portando con sé pezzettini di vita – questo lo sapevo da sempre! – in una transumanza senza stagioni … Si affaccia nella mia testa un lombrico che fa ciao con una visibile mano; sciamano altri protozoi, qualche coleottero semi addormentato, intuisco funghi che sospirano e batteri che squittiscono sommessamente. E’ la storia naturale, quella imparata dalla prof Grandori, al liceo; uscita dalla teoria e sciorinata in slides commentate da uomini passionali che ci tengono con il fiato sospeso – tra un rischio e una storia d’amore; tra una trappola e un richiamo, per un disordine sessuale dichiarato senza reticenze -.

E’, finalmente, la biodiversità, la natura perfetta che pare imperfetta: insetti a iosa che mi ricordano un altro tempo; quello della mia gioventù cittadina, quando tutto questo mi faceva schifo e mi pareva sporco; quando la terra non esisteva nel mio immaginario, se non nei quadri e negli affreschi – debitamente sublimata, pettinata e divenuta scenario, decoro, ornamento pastellato -.

Il fotogramma si è ribaltato (non è una dissolvenza, è un vero e proprio stacco) va di scena la campagna, quella che ora l’altra metà (abbondante) d’Italia inizia a percepire – ma non chiaramente e non nei suoi ritmi veri – leggendo le pagine dei quotidiani o in tv, con le infinite pippe su cibo, vino e dintorni; tenute, scritte e filmate senza sapere chi abita lì sotto – tra le radici della vigna, ai piedi del fico, sotto il sottobosco, dentro quei buchetti nella terra, tra un filo d’erba quasi blu e un rametto secco che no, invece è la muta di una creatura … Guarda dove metti i piedi e ascolta questi suoni che salgono da lì sotto, se vuoi sentire la voce di chi ci abita e conoscere la sua storia.DSCN9844

De Gatos se trata

 Verso una nuova Gattoterapia, con un pensiero segreto a Sinè e ai suoi gatti.

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Quando ho parlato a Gabo Marquez del poeta cubano che avevo ospitato in Toscana a Fonterenza, e delle poesie che aveva dedicato a ognuno di noi (perfino all’incidente d’auto in cui avremmo potuto morire tutti insieme), mi sono impappinata sul nome, che non riuscivo a ricordare; ma quando gli ho citato la poesia gattofila e cosmicamente triste che Pablo Armando Fernandez aveva scritto, al Gabo si illuminarono gli occhi, riconoscendolo come “el hombre electrico!”, sì, un uomo con occhi elettrico-magnetici!

“Si me preguntan: donde està El Dorado? / podrìa responder: Està en el antifaz de Bastet, deidad de los felinos. / y en las siemprevivas, / en una calle alegre entre la flor del agua / y el verano …     e poi  …  Es Zaida entre la yerba / juguetando / a ser la gata eterna / de la luna, / a ser su rìo / que corre / y lento va al encuentro / del gato azul / que colme sus quimeras.

Ho sempre pensato che l’inizio e la chiusa di questa poesia racchiudano la vita vissuta dai gatti, anche quella che essi vivono conto terzi, cioè la nostra vita. Anche se non sono in grado di razionalizzare questo pensiero … Questi versi mi ritornano in mente ogni volta che guardo un gatto e ne osservo comportamenti ed espressioni. E la poesia di Pablo Armando mi è tornata in mente quando ieri ho pubblicato sul mio profilo FB le foto del gattone ‘in carica’ a Fonterenza, il podere che ha emozionato le nostre vite e quelle di molti che ho conosciuto. Di tutti quelli che hanno percepito l’atmosfera speciale e il magnetismo del luogo.

I gatti, che hanno abitato il podere anche più intensamente degli umani fino a intridersi dello spirito del luogo e impersonarlo, sono stati una presenza continua, con sovrapposizioni caotiche (ricordo nidiate frenetiche e invasive, oltre alle mamme gatte, come Frisby, che hanno figliato per anni, spargendo la loro prole nei boschi e nei dintorni, fino a colonizzare parzialmente il vicino paese di Sant’Angelo in Colle). Una quindicina di anni fa c’è anche stato un gatto guercio, di pelo lungo e grigio, che aveva l’abitudine di arrampicarsi addosso ai visitatori, con effusioni imbarazzanti. Poi una pattuglia di gatti ninja, battaglieri e corpulenti, che bussavano sfacciatamente alla piccola finestra che dà sul tetto a nord chiedendo cibo e minacciando ritorsioni con zampate unghiute.

Per diciassette anni è venuto in visita da Milano gatto Abril, cacciatore di topi e ahimè pure di uccelletti, fino a morire vecchio e afflitto da numerosissimi orribili acciacchi ed essere sepolto in un luogo che al momento non svelo. Presenza costante, sentinella del mattino, ombra bianca dotata di poteri speciali, consigliere e consolatore, con un miagolio apparentemente buttato lì commentava un pensiero pensato a occhi chiusi, che magari uno non osava neppure dire a se stesso; ma lui, dotato di telepatia, sapeva. Poi c’è (ancora ne avverto la presenza silenziosa e felpata) Matilde, che ho sempre – nel mio immaginario – associata al realismo magico e alla poetica della Cronica de una muerte anunciada: nera, magra, lustra di pelo, sinuosa, aveva il vezzo camminando sul tetto, di voltarsi a guardarti allontanandosi da te, per poi arrampicarsi sui regoli delle finestre, per chiedere di entrare, magari infastidita (o impaurita ) dai cani che l’hanno inseguita innumerevoli volte in un’interpretazione esagitata e furibonda di entrambi i generi (canino e gattesco). E ora c’è Tom che sta studiando da gatto di famiglia e si lascia fare carezze pesanti da una bimba piccola e curiosa, in attesa di essere acquisito nelle vesti di custode di un suo imminente animalismo.

E mano a mano che ne scrivo – Gatti di Fonterenza – mi appare come un pamphlet (saranno stati una cinquantina, i mici,  finora?), pieno di episodi, screzi, avventure, buffonate, tenerezze e magie. De gatos se trata …

Robin e Vladimir

Mi domando quanto e come si modificherà la sensibilità (forse anche l’intelligenza) della generazione nata in questi anni; dimostra una spiccata versatilità nell’uso di tablet e affini tecnicalità, un senso del ‘digitale’ che pare escluda (paradossalmente) l’uso delle dita così come lo conosciamo noi. Mi accorgo quanto conti (e incida in profondità) la mia manualità – scrivere, disegnare, ritagliare, incollare e mescolare tra di loro queste attività manuali –  nel guardare vedendo in modo personale ciò che osservo. Poi capisco anche che certe letture – certi autori – mi ‘stirano’ la psiche, cioè lo sguardo, cioè la manualità che a sua volta sgomitola quello che matura e gioca nella mia testa. Capisco che pensieri e lineee sul foglio, parole che scrivo, parole che leggo sono come una rete in cui si impigliano le immagini che colgo nell’ultimo oro delle foglie di sangiovese, il bagliore magenta di altre foglie che si stagliano sul nero di un bosco di lecci, l’orlo delle nuvole che ricama lo sfondo dietro l’ailanto spoglio, e così via.

Quest’anno forse per il clima e il meteo, ma forse ho anche l’occhio influenzato dalla lettura appassionante dei racconti di Nabokov: così vedo (guardo) le foglie caduche e le loro mirabili coloriture che mi sembrano più fotogeniche, più disegnabili, più raccontabili degli altri autunni. Mi viene in mente che forse con gli anni ho affinato lo sguardo, oppure capisco che il tempo passa quindi ‘guardo’ più da assetata … ma in realtà so bene che la lettura di quel formidabile raccontatore di paesaggi, soprattutto di quelli della nostalgia, che è Vladimir Nabokov, a cui mi sento così affine per modo di sentire (non certo di raccontare: lui è un genio poeta), mi accende la vista, mi ‘costringe’ a sentire mentre guardo e mi fa venire un’intensa voglia di disegnare. Proprio come un assetato ha voglia di un bicchiere d’acqua.

Così mi ritrovo a guardare fuori dalla finestra di Fonterenza, con la piccola Isola in braccio – la schiena premuta contro il mio petto e l’odore di lattante pulito e caldo che mi riempie la fronte – e fuori tra i rami del ciliegio si fa strada una macchia color ruggine intenso, appare e scompare sul filo delle movenze del pettirosso che non sa di essere osservato. Lo indico alla piccina, sussurrandole all’orecchio: lei si agita e picchia la manotta sul vetro e di rosso restano solo le foglie … Robin Hood è tornato nei suoi anfratti.RSCN2288DSCN2277

Onda su Onda

Episodio 05 Sant’Angelo in Colle
https://vimeo.com/93391065
psw: grandmas

Eccolo lì il paesello, la sua gente, le vigne e le vecchie case. E poi Fonterenza e i suoi abitanti e un format che ci ha catturati e ci manda in onda per il mondo … Un giovane di talento – grande talento! – Donal Skehan, uno pieno di energia e di vera curiosità, con una affettività spiccata che usa in modo abile e intelligente, ha fatto un giro d’Italia con un occhio ai luoghi (ha grande senso estetico), un altro alla cucina (è bravo e in crescita di popolarità), un terzo occhio (sarò un caso?) alle donne più vecchie – le nonne! – usandole come testimonial dell’attualità delle tradizioni culinarie (e non solo).

Con una storia semplice e ripetitiva – un format, appunto – scopre un posto, un piccolo paese, e i suoi abitanti; con un copione che viene sceneggiato di volta in volta, con la tecnica dell’istantaneità, su misura delle circostanze e delle storie personali. Un format che fa il giro (televisivo) del mondo, riproponendo la cucina casalinga (pre-made in Italy), per niente folk e un po’ pop. E in questo luogo canta pure la grandezza di un terroir … Enjoy Sant’Angelo in Colle.

Da “Tenuta” a “Podere”: che cosa si dice per piacere!

Viviamo in tempi impietosi: non piace ciò che è bello o piacevole, ma di solito piace ciò che è ricco e si manifesta senza fare sconti; però c’è un limite a questi fenomeni e consiste nelle opinioni che si creano, mutano, evolvono e non sempre si riesce a orientare. La comunicazione dilaga e si intreccia con informazioni, soprattutto on line, in modo tale che è solo parzialmente controllabile, e le opinioni si formano su misteriose convergenze di sensibilità o di allergie. E da noi non si è ancora acquisita l’abitudine (e messa in conto la spesa) di studiare preventivamente il mercato e ciò che lo muove, nemmeno di andare a vedere perché i consumatori comprano una merce, se lo fanno convinti, se sono soddisfatti, se pensano di tornare a farlo o se sono in una fase di latenza. Chi avrebbe tutto l’interesse a farlo, arriva sempre con un po’ di ritardo ad accorgersi di quello che i sociologi chiamano “il cambiamento”;   non sapendo o dimenticando che “il cambiamento” è un fenomeno mobile – dura dalla notte dei tempi e finirà con la nostra specie -.

Nulla è fermo, insomma, nemmeno nel vivace mondo del vino, abitato da gente che mima l’affetto per la campagna e per la ‘veritas‘ che ‘in vino‘ dovrebbe appunto trovarsi. Ma il mondo del vino, rispetto ai fenomeni relativi al “cambiamento” nell’accezione socio-psico è particolarmente in ritardo. Sembra ieri che andavano per la maggiore (ed esclusivamente) lo stile blasone di famiglia/tradizione…; altrettanto recente (mi pare) è l’attenzione del mercato per l’imprenditore di tutt’altro settore o il politico, super-ricco, che si compra una super tenuta e ostenta super enologo, super ettari, super impianti, super tecnologie, super avveniristicamente. Il tutto sciorinato sulla stampa fedele in modo tale da mettere ettolitri di distanza tra sé e quelli che erano lì a produrre vino magari da un secolo o due (mi viene in mente la moglie di uno, che ho avuto occasione di incontrare mentre dichiarava “io sono la padrona” e pareva uscita davvero da “Il padrone delle ferriere” di ottocentesca memoria).

Ci sono però anche imprenditori intelligenti che praticano lo stile più aggiornato dell’understatement, e c’è un fenomeno nuovissimo che ho notato e mi ha incuriosito: una specie di mimesi, di travestimento, in cui mi sono imbattuta in questo mondo simpatico, dove di solito ci si limita ai pantaloni di velluto a coste, indossati più che altro con ironia, per dire “guarda che qui siamo in campagna”.

Si tratta del nome “Podere”, usato ostentatamente (un vero e proprio messaggio) in luogo di “Tenuta”, nome più consono e adeguato a certe dimensioni (e intenzioni) aziendali, soprattutto quando si posseggono vere e proprie imprese agricole importanti e strutturate (e non si ha un passato da contadino). In questo nuovo naming c’è molto, a mio avviso. A me, incontrandolo, è parso una vera e proprio pelle d’agnello indossata quale travestimento, per mimetizzarsi in un certo gregge (che esiste da mo’, ma di cui si ha una percezione tardiva) e mettersi a belare insieme agli altri. L’ho individuato come un segnale a cui se ne aggiungeranno altri, un modo ‘innovativo’ di presentarsi al mercato.  Mi ha fatto venire in mente una barzelletta surreale, i cui protagonisti sono i chinotti, e che vi racconterò un’altra volta.

 

 

La terza quercia

 

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Non ho idea del rumore – avrà fatto un tunff sordo e pesante – e nemmeno del perché sia successo. Però è la terza quercia che cade, ed è quella che cadendo ha fatto più scompiglio; e ha dato maggior dispiacere. Un dolore che all’inizio ho avvertito poco, sollevata dal rischio corso da Francesca che ha evitato per un soffio di pochi secondi di restare sotto al tronco (era proprio lì, nell’auto  facendo marcia indietro); sollevata dal fatto che il tetto non sia caduto in testa a Margherita – in casa ha visto una folata di polvere e calcinacci volare sotto il naso -, emozionata dallo spettacolo dell’immensa chioma riversa sulla casa, quasi in un saluto d’addio, dopo qualche secolo di ombra e cinguettii. Ma ora la vedo ammucchiata, come resti di una persona, come una compagna di vita stramazzata di colpo. E la mancanza comincia a farsi sentire; cambiano i rumori circostanti, è cambiata la luce e durerà il passare di tutte le stagioni il cambiamento.

Un anno fa, quasi preciso, arrivava il Morino giù per la strada dei frontisti e mi fa “uhm questa quercia la vedo male …”. Il Morino è caduto prima lui, della quercia, anche lui di colpo e repentinamente. Se l’aldilà degli alberi è il fuoco, ne avrà da raccontare questa bestiona, a chi siederà intorno a quel focolare. Sarà pura poesia, mentre a noi tocca affrontare il prosaico.

Conserve di ricordi

Il vecchio podere ha vissuto stagioni tra loro assai diverse. Rispetto ai suoi coetanei e anche ai poderi più recenti ha conservato i suoi caratteri, e il suo carattere. Due aspetti diversi – il secondo più intimo e avvertito solo da persone particolari, il primo più immediatamente accessibile -. Tutto sembra sia avvenuto casualmente, dal giorno ormai lontano in cui l’abbiamo visto per la prima volta, tenuti per mano da un amico innamorato della Toscana e soprattutto di queste colline – al confine tra Maremma e senese, allora parecchio selvagge e quasi sconosciute -. In verità, ha contato molto la percezione che ogni sasso, ogni pezzo d’intonaco, ogni mezzana sdrucita non fosse lì per caso, ma ricordasse presenze di uomini e donne, durante cinque secoli – tant’è l’età in cui si è venuta stratificando la casa – in cui vi si sono avvicendate famiglie di contadini e di mezzadri. “Senz’acqua, senza luce – così mi viene, parafrasando – ma piena di memorie  e di pensieri.”

Che sia un luogo speciale lo intuiscono anche quelli che ci arrivano da lontano e da altre culture, colpiti dalla bellezza generale della zona, talvolta un po’ manierata – tutta ferro battuto, filari di cipressi, con gli arbusti giusti al posto giusto, ben pettinati e intenti a rappresentare la Toscana, come i toscani (e gli immigrati di lusso) pensano debba essere, per essere all’altezza di un qualcosa che si è decisamente perduto di vista.

Perché quel qualcosa (e per favore non chiamiamolo genius loci, fingendo di sapere che cos’è!), più che di archi, scale, giardini rustici, travi a vista e coppi, è fatto di storie e pensieri, e sentimenti, e lavoro di campagna, di cui chi sa leggere a volte può trovare traccia in questi vecchi poderi. E sono quelle tracce a volte impossibili da cancellare altre volte così sfuggenti che sembrano frutto di un’illusione soggettiva, che quando le incontri – più che riconoscerle ti sembra di sentirle – possono diventare qualcosa di speciale, che ispira nuove idee, amori, lavori e vite (raramente tranquille).

Quando ho conosciuto il vecchio podere e sospettato una storia intensa, si faceva fatica a trovare una camera per la notte. Erano tempi in cui l’inverno era così freddo che – con una battuta – pensavo di essere arrivata in val d’Aosta; ma le estati erano così torride che pareva di vivere in prossimità di un incendio continuo. Guai a me se penso ‘altri tempi’, perché le conserve di ricordi sono quasi più saporite degli originali.

Ora, che le camere per dormire si trovano e purtroppo spesso ti porgono lo stile d’antan non sempre ben imitato, le crepe vere si rivalutano e i ricordi pure. Bisognerà conservarli in modo adeguato, perché non solo non devono inacidire, ma serviranno pure a far sapere che alle tue spalle c’è qualcosa di vero, anzi davanti a me.DSCN6233 DSCN6229DSCN6226