Il Tasso che interessa è quello d’interesse

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Se mi metto a cercare in rete la traduzione di “tasso”, inciampo immediatamente nella voce “rate”; voce che non mi molla più e mi viene declinata in mille modi di dire, tutti legati strettamente al mondo della finanza. Ma io invece cercavo la traduzione di “tasso”, inteso come meles meles, della famiglia dei mustelidi, e prima di trovare la parola inglese – “badger” – che traduce correttamente l’oggetto del mio interesse sono costretta a un percorso così lungo da indurmi un pensiero – forse banale, ma non certo scontato – che mi fa sorridere un po’ amaramente.

Se invece di cercare on line la traduzione, avessi fatto la ricerca consultando uno dei corposi volumi che ormai impilo, in casa, creando torri di carta nostalgiche, le cose si sarebbero svolte molto più correttamente – dal mio punto di vista – e avrei trovato facilmente le diverse accezioni della parola in questione.

Vivo in campagna e come tutti i viventi contemporanei conosco e subisco il ‘tasso d’interesse’, ma ho anche l’opportunità straordinaria di incontrare il tasso, animale interessante e (per chi è vissuto lungamente in città) quasi esotico.

Quest’anno ho anche incontrato ben due latrine di tasso, cioè dei buchi nel terreno che il mandiboluto animale scava per depositarvi le sue feci; e siccome nella mia camminata mattutina, tornando verso casa compio spesso lo stesso percorso, ne posso anche osservare l’interessante evoluzione. Sono certa che uno di questi giorni (o di queste sere) incontrerò pure l’animale e mi terrò a rispettosa distanza, perché il tasso – inteso come meles meles, o  anglofonicamente badger – è schivo, come tutti gli animali selvatici, ma anche poco cordiale.

Ma a proposito della parola, del suo significato e dei viaggi che una parola compie, intorno al mondo ma anche nella nostra mente e nei vissuti collettivi, facevo stamane una considerazione. Dicono che il mondo che io conosco – quello di carta e di parole sulla carta – sia finito; finito io non so, ma certo è molto cambiato (esito però a definirlo un’evoluzione). Penso spesso, con un certo candore, che l’ingresso della tecnologia – in questo caso il mondo digitale (con un po’ di pressapochismo) – sia un arricchimento, una comodità in più; ogni tanto invece devo prendere atto che è proprio un cambiamento di sguardo, talvolta universale.

Il ‘tasso’ che defeca nei buchi che scava ai margini di radure (tornando sempre lì a farla, dicono gli etologi) interessa ben poco, perché è qualcosa di infimo, rispetto all’altro tasso, quello d’interesse, o d’ascolto, o di qualcos’altro. E’ sempre una percentuale e mai un animale. Forse perché la natura è ancora qualcosa di scontato, di preesistente – uno scenario ininfluente in cui vivere -: la natura è tutt’ora l’ultimo dei pensieri nel mondo governato dalla finanza. E dal tasso d’interesse.

Da “Tenuta” a “Podere”: che cosa si dice per piacere!

Viviamo in tempi impietosi: non piace ciò che è bello o piacevole, ma di solito piace ciò che è ricco e si manifesta senza fare sconti; però c’è un limite a questi fenomeni e consiste nelle opinioni che si creano, mutano, evolvono e non sempre si riesce a orientare. La comunicazione dilaga e si intreccia con informazioni, soprattutto on line, in modo tale che è solo parzialmente controllabile, e le opinioni si formano su misteriose convergenze di sensibilità o di allergie. E da noi non si è ancora acquisita l’abitudine (e messa in conto la spesa) di studiare preventivamente il mercato e ciò che lo muove, nemmeno di andare a vedere perché i consumatori comprano una merce, se lo fanno convinti, se sono soddisfatti, se pensano di tornare a farlo o se sono in una fase di latenza. Chi avrebbe tutto l’interesse a farlo, arriva sempre con un po’ di ritardo ad accorgersi di quello che i sociologi chiamano “il cambiamento”;   non sapendo o dimenticando che “il cambiamento” è un fenomeno mobile – dura dalla notte dei tempi e finirà con la nostra specie -.

Nulla è fermo, insomma, nemmeno nel vivace mondo del vino, abitato da gente che mima l’affetto per la campagna e per la ‘veritas‘ che ‘in vino‘ dovrebbe appunto trovarsi. Ma il mondo del vino, rispetto ai fenomeni relativi al “cambiamento” nell’accezione socio-psico è particolarmente in ritardo. Sembra ieri che andavano per la maggiore (ed esclusivamente) lo stile blasone di famiglia/tradizione…; altrettanto recente (mi pare) è l’attenzione del mercato per l’imprenditore di tutt’altro settore o il politico, super-ricco, che si compra una super tenuta e ostenta super enologo, super ettari, super impianti, super tecnologie, super avveniristicamente. Il tutto sciorinato sulla stampa fedele in modo tale da mettere ettolitri di distanza tra sé e quelli che erano lì a produrre vino magari da un secolo o due (mi viene in mente la moglie di uno, che ho avuto occasione di incontrare mentre dichiarava “io sono la padrona” e pareva uscita davvero da “Il padrone delle ferriere” di ottocentesca memoria).

Ci sono però anche imprenditori intelligenti che praticano lo stile più aggiornato dell’understatement, e c’è un fenomeno nuovissimo che ho notato e mi ha incuriosito: una specie di mimesi, di travestimento, in cui mi sono imbattuta in questo mondo simpatico, dove di solito ci si limita ai pantaloni di velluto a coste, indossati più che altro con ironia, per dire “guarda che qui siamo in campagna”.

Si tratta del nome “Podere”, usato ostentatamente (un vero e proprio messaggio) in luogo di “Tenuta”, nome più consono e adeguato a certe dimensioni (e intenzioni) aziendali, soprattutto quando si posseggono vere e proprie imprese agricole importanti e strutturate (e non si ha un passato da contadino). In questo nuovo naming c’è molto, a mio avviso. A me, incontrandolo, è parso una vera e proprio pelle d’agnello indossata quale travestimento, per mimetizzarsi in un certo gregge (che esiste da mo’, ma di cui si ha una percezione tardiva) e mettersi a belare insieme agli altri. L’ho individuato come un segnale a cui se ne aggiungeranno altri, un modo ‘innovativo’ di presentarsi al mercato.  Mi ha fatto venire in mente una barzelletta surreale, i cui protagonisti sono i chinotti, e che vi racconterò un’altra volta.

 

 

Altro Tempo

 

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Leggevo ieri un articolo firmato da Massimo Fini che criticando il buio morale di questo periodo affermava la necessità di una ‘crisi vera’- quasi invocandola – per trovarsi di fronte a bisogni primari e attraverso l’urgenza delle necessità più elementari recuperare un senso del vivere e del vivere insieme, che sembra sempre più sfuggire, sfaldarsi e perdere i contorni. 

Ho rimesso al loro posto delle foto della mia infanzia, scattate da mio padre in tempo di guerra; girandole per sistemarle ho riletto le frasi di commento che papà scriveva puntualmente sul retro di ogni foto – ne ho moltissime e i commenti sono una specie di cronaca di quel tempo – e dietro questa foto, in cui evidentemente giocavo alla “piccola lavanderina” c’è scritto un pensiero, che mi veniva attribuito, debitamente virgolettato “posso usare il sapone? siamo in guerra e non se ne trova…”, seguito da una riflessione di mio padre preoccupato per la guerra, e che però un po’ si consolava pensando alla mia età. In quegli anni, mia nonna aveva la mia età di oggi – era forte, ma molto diversa da come sono io, anche fisicamente; era una donna minuta, terribilmente energica e grande lottatrice – e mi chiedo come reagirei io a una guerra o a una carestia, domani.