Per chi Suona le Campane

Venivamo spesso, qualche volta anche solo per il week end; di sicuro non facevamo passare molte feste comandate senza venir giù – armi, bagagli e il fido gatto Abril – a far lavori, incontrare un idraulico, piantare un albero. Un anno a Pasqua nella classe di una delle gemelle avevano organizzato una festa e una madre un po’ stupida aveva pensato bene di regalare un pulcino (vero) a ogni bambino. Così ci era capitata in casa questa creaturina pigolante che si chetava solo dormendo sul collo di Francesca, al riparo dei suoi capelli. Gatto Abril pareva aver dismesso l’istinto primordiale e tollerava quel minuscolo essere invadente, ma si capiva che non sarebbe durato molto. Il viaggio pasquale a Fonterenza poteva essere una buona occasione per piazzare il pulcino in buone mani, presso qualche paesano abituato ad allevare polli e similari. Così fu; il pulcino – nel frattempo aveva acquisito un nome che ora non ricordo – fece quattrocento chilometri in auto, accovacciato sulla testa del gatto, tra le sue orecchie, in una situazione più che mai precaria. Le gemelle avevano acquistato un sacchetto di mangime per polli e arrivati a destinazione avevano liberato il gatto dall’incomodo, infilando il pulcino direttamente nel sacchetto del suo mangime.
Oliviero entrò in scena a quel punto, accettando di ‘tenere’ il pulcino per conto delle due gemelle fiduciose della sua esperienza di allevatore di numerosi animaletti – le capre, i conigli, i piccioni – che esse non mancavano di visitare ogni volta che venivano in campagna.
Il ritorno in campagna per la vacanza estiva fu atteso con impazienza, aggiungendosi ai consueti piaceri agresti l’idea di ritrovare la creatura affidata a Oliviero e magari passarci qualche ora a giocare. La notizia – comunicata alle gemelle da Oliviero, nel più naturale e rilassato dei modi – che il pulcino, divenuto felicemente galletto grazie al copioso mangime e alla buona aria di campagna, era finito in padella, segnò la fine di una certa categoria di illusioni e incrinò per sempre la reputazione di Oliviero quale amico degli animali.
In seguito, fino a tempi recenti, avevo sentito parlare delle sue vicissitudini di salute – era molto ghiotto e la passione per il cibo lo aveva segnato pesantemente –. L’unico movimento fisico che faceva era legato al suo ruolo di campanaro, a cui si dedicava con passione e competenza. Ogni volta che qualcuno sposava o moriva le campane suonavano per mano di Oliviero. In piazza, oggi, alla fine del suo funerale, le campane tacevano.

Futuro con Stile

Non capita tutti i giorni di compiere novant’anni e quando succede a qualcuno particolarmente carismatico, chi gli sta intorno lo festeggia. Anche perché festeggiare un mito che è pure longevo vuole dire festeggiare anche sé stessi, constatando la propria permanenza sul palcoscenico della vita, con successo e benefici collaterali. È, insomma, un po’ come manifestare la propria gratitudine agli dei.
Sarà anche per questo che nelle comunità, nei club, nelle imprese, ovunque vi sia un ‘senior’ molto rappresentativo di qualcosa che significhi molto per tutti, si onorano gli anni di chi ne compie tanti, soprattutto se questi ci arriva superbamente, con la capacità intatta di essere emblematico, il tutto anzi accresciuto dal suo stile, dall’uso di mondo, dalla cultura e dall’affetto proiettato tutto intorno, con elegante lungimiranza.
E non ho esitato manco un attimo, quando Andrea Cappelli mi ha invitato a partecipare al pranzo che stava organizzando in onore dei novant’anni di Franco Biondi Santi; poi però, uscendo da Silene, ho guardato le prime luci della sera, e ho pensato che sarebbe stato bello se un paese e una comunità avessero festeggiato tutti insieme quel compleanno, superando per un momento inevitabili contrapposizioni e traendone un significato comune: l’auspicio di un nuovo sentimento, fosse anche solo l’istinto un po’ cinico (ma lungimirante) di tirar fuori le proprie qualità, con energia, ed emergere, con successo, in un’Italia che non pare più all’altezza.

Invito a Pranzo

Un paese deserto, in una domenica di gennaio che non sembra neanche inverno. Potrebbe sembrare lo specchio di un’Italia che piano piano si sfilaccia e perde i pezzi. Invece, nel cuore del paese, ancora una volta, l’energia è donna. Poche chiacchiere e molta concretezza portano avanti le piccole grandi tradizioni che le ricerche di mercato chiamano “stili di vita”. Cose di cui è urgente avere memoria prima che ce le ripropongano i cinesi. Oggi ce le propone Alba dalle mani svelte e capaci, con la buona farina del Molino Orcia, un pizzico di sale, acqua e un uovo vero (delle sue galline) e il suo sapere. Un vero privilegio sedersi alla sua tavola.

Infine, Incipit

No, in realtà qui non comincia la storia, ma ne finisce una. Domani si terranno i funerali di Carlo Fruttero e a me capita tra le mani “Incipit”, da lui scritto con Franco Lucentini. Per un curioso di libri eccone uno sfizioso, da tenere sottomano, per passare una sera d’inverno – in campagna, ma anche in città – al riparo dalla tele-visione. Comincio a sfogliarlo e rintraccio prima di tutto la dedica affettuosa del duo elegante e amatissimo – Franco L. con indimenticabili camicie prugna e cravatte di lana ton sur ton; Carlo F. spesso in toni ocra-sabbia-salvia, con meravigliose scarpe minimaliste che sembravano inventate per lui – . Un altro mattoncino che si sgretola, lasciando al suo posto un piccolo antro materico capace di diventare sostanza per nuovi pensieri. Leggo su un quotidiano che il funerale sarà piuttosto divertente (ironico) proprio come Carlo Fruttero aveva chiesto che fosse, e non poteva essere altrimenti.
Sfoglio, ancora, e il libro mi si apre a pagina 66, dove si possono leggere due Incipit: n° 207, che tutti riconosceranno e il n°208, del Trattato di Maastricht,1992, che istituisce l’ Unione Europea; per un caso, nella pagina di destra il capitolo termina con l’incipit n°211, della Disobbedienza Civile di Henry D. Thoreau, un autore che amo molto, per lo  sguardo ambientalista e la capacità di mettere in cammino le idee. Tutto torna: ciao Carlo e grazie di tutto.

Italia, Italia…

Vado all’Ufficio Postale e chiedo dodici francobolli. Strano, ma vero, l’impiegato si mette a sfogliare un faldone – ogni pagina girata appaiono francobolli diversi – indugia, mi guarda, poi volta ancora una pagina e ne estrae dei foglietti grandicelli. Me li sottopone insieme a un tubo di colla: “ognuno ha tre francobolli, per favore li incolli lei, però!” Così scopro una chicchina a me sconosciuta: un triplo francobollo (senza colla) dei Centocinquant’anni d’Italia, “Fatti d’Arme”, riportanti tre battaglie – Isonzo, Bezzecca e Porta Pia – documentati da dipinti di sapore vagamente romantico. Bellissimi, soprattutto commoventi; soprattutto in questi giorni di coda bassa, orecchie basse, di vergogna nazionale e internazionale.
Ne ho comprati più di quanti me ne sarebbero serviti, per ricordo; ricordo di un paese disseminato di idioti, di raccomandati, di mafiosi, di cocainomani da strapazzo, di sgrammaticati incolti, di politici e amministratori indegni, di personaggi più o meno noti che sarebbero presentabili se non si sapesse che sono ‘inviati speciali’ di altri … Eppure questa disseminazione, in cui non puoi fare a meno di inciampare di continuo, non riesce a cancellare bellezza, genio, capacità, dedizione, affidabilità, solidarietà e ancora bellezza: così tanta bellezza che neppure la massa critica costituita dalle troppe vergogne nazionali riesce a cancellare del tutto.
Unica, magra e – ammetto – inutile compensazione di questo orrore è il sospetto che da altrove, si guardi a noi come a qualcosa di cui bisogna assolutamente impadronirsi. Questa è, almeno in questo momento, la sensazione che provo.

Racconti del Tavolo

Se gli oggetti ‘significano’, allora il mio tavolo (o sono io ad essere sua?), il tavolo antico che mi segue da una vita, sa raccontare molte storie. Però i segni che incidono finemente la sua superficie – intessendosi con quelli del noce lombardo con cui è stato costruito – a me raccontano soprattutto quella della signorina Re e di sua madre – la signora Re, che me l’ha lasciato in eredità –.
Facevo il liceo e andavo “dalla signorina Re” per misurarmi un abito, o per prendere le misure per farlo, e scegliere con lei (sotto lo sguardo vigilante di mia madre) tra le belle stoffe che ci arrivavano dall’America.
Una decina d’anni più tardi avrei preso le distanze da quel mondo che andava spegnendosi, mentre dalla via Vincenzo Monti sarebbero stati sfrattati i vecchi milanesi, per far posto a una borghesia ancora discreta, ma già molto ricca e la mia generazione scopriva il made in Italy nelle boutiques.
Sarte e modiste finivano in periferia e subito dopo in disuso, ma ho fatto in tempo ad ereditare il tavolo, che funziona anche come macchina dei ricordi: basta passarci sopra una mano, o posarvi un oggetto e mi tornano in mente. Mi viene da una donna, morta molto vecchia, che aveva lavorato come sarta per tutta la sua vita, sul vecchio tavolo di qualcuno che glielo aveva lasciato, usato come piano su cui tagliare. Si era accorta che lo guardavo sempre e mi aveva detto che sarebbe diventato mio.
Ora che siamo entrati in un mondo che a tratti pare tornare quello della signorina Re, ma spogliato dai valori che rendevano interessante essere tutti un po’ poveri, penso a via Aurelio Saffi angolo Vincenzo Monti in quegli anni e a quelle due donne – così creative e spiritose – che una volta mi hanno cucito un vestito da ballo, infilandogli nell’ orlo il cerchio hula hoop, quando si usava la gonna “a palloncino”.

La Produzione della Felicità

Tra gli uomini importanti che ho conosciuto nella mia vita, Franco Biondi Santi si distingue – a mio, questa volta davvero modesto, avviso – per due tratti che lo rendono straordinario. Un carattere di fondo è la sua assenza di superbia, tutt’essendo consapevolmente orgoglioso di sé e del suo lavoro. L’altro aspetto – che si ritrova talvolta nei grandi artisti – è la capacità di rendere felici quelli che incontrano il suo vino (la sua opera). E’ come se lui ci mettesse un ingrediente unico, segreto e speciale.

Buon compleanno Franco Biondi Santi! Continua per molti anni a renderci felici.

La Cutrettola e il Pellicano

Ovvero come passare di colpo dalle gioie della campagna alla percezione del marciume in cui affondiamo. La cutrettola è un passeraceo molto singolare – ha una camminata lieve a cauta che la fa somigliare ad una danzatrice: infatti viene chiamata ballerina – e io ne conosco alcune famigliole che nidificano intorno al villaggio non natio dove abito. Osservare una cutrettola (che, tra l’altro, tende a interagire anche con gli umani) è una vera delizia; solo l’upupa riserva soddisfazioni simili!
Stamattina però ne ho incontrata una che non conoscevo, in un luogo inedito, ai bordi della provinciale vicino al ponte sull’Orcia, quasi in provincia di Grosseto. Pareva facesse l’autostop: quasi non si scansava al passaggio delle auto, tornando continuamente sui propri passi, sul bordo della strada che percorreva camminando su e giù, con una certa determinazione. Cercate una cutrettola e osservatela nelle sue azioni quotidiane: vi consolerà delle porcherie che quotidianamente potete scoprire leggendo ciò che resta della libertà di stampa del nostro paese.
Ma come – si può obiettare – il governo è cambiato, ora c’è gente davvero sobria, che finalmente si comporta e si esprime come dovrebbe farlo chi tiene in mano le redini di un paese, in un momento così delicato…
E sull’allure di chi governa il paese non c’è proprio niente da dire, se non quello che magistralmente – in poche frasi, infilate una dopo l’altra, con ineluttabile consecutio – osserva Travaglio (un giornalista che ho spesso trovato detestabile), sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, oggi, dando corpo a tutto quello che pensiamo in tanti – diversamente appartenenti – ma che viene taciuto da tutta la stampa “che conta”. Più che malinconico, allarmante.

Cavoli Miei

Ho scoperto “le Colombaie”, un punto vendita senese di verdure cresciute in un grande orto omonimo, a Pian dei Mori, vicino a Sovicille. Tra una rapa e un porro ho trovato anche certi cavolfiori che mi piacciono moltissimo e ne ho acquistato uno. Mentre lo lavavo per cuocerlo (lessato poco, con poco sale e poi condito con olio e pepe), pensavo che questi cavoli – si chiamano cavolfiori romani? – mi piacciono prima di tutto esteticamente. Hanno un’aria orientaleggiante, un po’ stilizzata e quelle loro cuspidi paiono piccole pagode, e sono belle sode quando le metti in bocca; mi piacciono anche perché non acquisiscono mai quella patina un po’ viscida che ogni tanto prende i cavolfiori comuni (che pure sono molto gustosi).
Mentre lo mangiavo facevo una riflessione.
La vita in campagna, dove il controllo sociale è fortissimo, dove tutti sanno tutto (o presumono di saperlo), dove tutto viene letto e decrittato in chiave “bianco o nero”, “amico nemico”, eccetera, insegna a capire anche altri contesti e le conseguenti dinamiche.
Perché nessun luogo, come un luogo piccolo, ti fa capire quanto gli interessi di matrice diversa (ad esempio quelli pubblici, o quelli di lavoro, e quelli privati) sono spesso destinati a incrociarsi e mischiarsi tra loro; e come questo miscuglio sia poi ancora destinato a miscelarsi con sentimenti e pensieri; e quindi come il tutto, infine, dia luogo a comportamenti – magari un saluto particolarmente cordiale, o al contrario un saluto che improvvisamente diventa reticente – che non vengono capiti, soprattutto da chi è arrivato dalla città o da altri paesi lontani.
Curiosamente, la città, viene comunemente vissuta come “un luogo pericoloso”, mentre la campagna è gabellata come luogo idilliaco (e lo è, quando non attraversi sentimenti e interessi ignoti).
Chissà se l’espressione “sono cavoli miei“, invece che essere lo pseudo addolcimento di quell’altra più brutale e diretta, non dipende invece dal fatto che dalla campagna vengono i cavoli, appunto. E alcuni cavoli, magari un po’ diversi dai soliti, sono proprio i cavoli miei!

Nelle Nuvole

Il paesaggio è nelle nuvole, ma con i piedi ben in terra. Le nuvole si trasformano in nebbie, allagano la valle, si infilano negli anfratti e si impigliano nei tralci vecchi delle vigne che attendono di essere potate. Diventano un lago, là dove una volta c’era il mare: sennò come avrebbe fatto ad arrivare fin lì, sotto il Castello di Poggio alle Mura, l’enorme balena antica, di cui si sono ritrovati i resti fossili? Sennò come sarebbe diventata così speciale questa terra che è stata fondo marino, navigata dagli etruschi, percorsa dai soldati, cantata dai poeti, arata da migliaia di uomini che ci hanno lavorato? Così è il paesaggio in una delle sue mutazioni, di questa campagna. Le nuvole, oggi, sono solo un modo per cambiare faccia, nascondendo una parte di sé e rivelandone un’altra. Buon anno, paesaggio!