Jonathan Zenti, che ho avuto la ventura di incontrare (e un po’ conoscere) recentemente, mi ha consegnato due consapevolezze legate alla mia età. Una è la diversità tra i vecchi e i giovani, ma una diversa diversità, più profonda e più appetibile e vitalistica. Un’altra invece me l’ha tirata fuori facendomi chiacchierare (Daria Corrias era lì con occhi e sorriso scintillanti), e riguarda ciò che un vecchio deve permettersi e cioè una franchezza senza peli sulla lingua, munita sì di tutti gli strumenti dialettici che rendono udibile e accettabile (talvolta persino gradita) una presa di posizione su temi delicati, come quello in onda nella mente di tutti in questa vigilia pasquale.
Colgo la palla al balzo e visito la chiesa di Sant’Angelo in Colle – frazione di Montalcino: poco più di 200 abitanti, meno di cinquanta nel centro storico, dove la maggioranza è composta di tunisini musulmani più o meno praticanti – .
Nella chiesa di Sant’Angelo anche quest’anno le donne del paese hanno allestito l’altare con la veccia: un legume della famiglia delle fave, che seminano un mese o poco più prima di Pasqua e poi mantengono al buio, in una cantina. Il risultato di questa operazione è un cuscino di delicati fili platinati. Oggi sono andata a scattare una foto in chiesa, e l’altare è completamente ammantato da questo particolare evento vegetale, la cui creazione avrà una sua storia e che discende da chissà quale tradizione …
Mi sono ritrovata a parlare di questo specialissimo addobbo a diverse persone, come colta da un raptus irrefrenabile. Mi sono accorta che la necessità di raccontare la mia ammirazione per la decorazione pasquale è strettamente legato all’ennesimo crimine degli enfants de la mort – erroneamente chiamati terroristi islamici -. La breve e politicamente scorretta riflessione a quel proposito ve la giro e propongo, con la consueta franchezza da vecchia.
Dopo Bruxelles ci siamo espressi ad abundantiam ma monotonamente. Rivado alle dichiarazioni, anche di privati cittadini, che tradiscono una specie di montaggio parallelo della tragedia terrorismo con il drammatico viaggio di migranti e profughi. La forza delle immagini è paritetica, ma giorno dopo giorno sbiadisce in un’assuefazione che rende quasi impossibile descrivere efficacemente il mosaico di casi, di singole storie e di fatalità di un racconto oscuro e senza vie d’uscita: un dramma della comunicazione che aggiunge buio al buio, creando una specie di buco nero che risucchia tutto, impedendo il pensiero.
Fin dal primo giorno della mia vita di lavoro ho dovuto imparare a ‘mettermi nei panni’ degli altri – di solito un target per un prodotto da vendere o da far conoscere -; questo esercizio quotidiano è diventato quasi una seconda natura, che qualche volta prevale sull’istinto più immediato di mandare a l’interlocutore. Si chiama anche empatia, questa abitudine a calarsi in ciò che l’altro pensa, e può essere usata per vari scopi, anche nobilissimi (esercizio di pietas), o molto pragmaticamente per immaginare la reazione di un altro di fronte al messaggio pubblicitario.
Ho sentito invocare più integrazione da giornalisti e cittadini, da politici e intellettuali, e tutti mi fanno pensare a una sottomissione a eventi che sopravvengono, a un azzeramento quasi totale del comune buonsenso. Su tutto, l’invocazione all’integrazione mi sembra mancare di conoscenza, di senso critico, di – appunto – empatia, cioè della capacità di mettersi nei panni dell’altro.
Quale integrazione sarà mai possibile, tra persone legate a costumi così radicalmente diversi da quello più corrente tra noi abitanti della vecchia Europa? Un blog non lascia posto a riflessioni che richiedono posti a sedere e carta stampata, ma basterebbe pensare che nel paesello in cui vivo, alcuni nativi chiamano gli immigrati (spesso qui da vent’anni) ‘talebani’, e che questi ultimi – pur vivendo qui da vent’anni o poco meno – diffidano degli autoctoni e non condividono niente, a cominciare dai loro pensieri. Con rarissime eccezioni, che confermano la proverbiale regola.
Perciò io insisterei sulla veccia e su una civile e pacifica convivenza, ma integrazione, con sospensione di riti nostrani, no. Anzi, comincio a sospettare che sia proprio questa nostra cialtroneria (così credo possa apparire agli occhi degli altri) rinunciataria delle belle vecchie tradizioni a dare adito a sospetti sulla nostra capacità di essere “noi”. Beviamoci su un bicchiere di sangiovese, prima che arrivi l’invito a non bere pubblicamente il vino per non offendere i musulmani che coltivano queste vigne (e che, in privato, invece, bevono birra).