E’ andata così. In tempi che a pensarci ora pare siano trascorsi cent’anni, ma invece era solo il 1985 (forse il 1984?), lavoravo felicemente in una grande casa editrice, da cinque o sei anni; la terra ruotava regolarmente su sé stessa e si muoveva nello spazio senza troppi trambusti straordinari. Ero atterrata in quel posto di lavoro esule dal mondo – decisamente più eccitante – della pubblicità. L’unica mia affinità iniziale con l’ambiente erano i libri, cioè il prodotto – come dicevo io, ma guai a chiamarli così in casa editrice perché prodotto’ e ‘mercato’ per autori, funzionari, editor e compagnia bella erano due parole volgari, che non si addicevano all’aureola di cui i libri erano circonfusi -. L’unico con cui ci si poteva esprimere liberamente in tale modo era l’editore. Cioè colui che mi aveva assunta, sapendo che ero anche una che leggeva molto e con molto gusto.
All’inizio mi era sembrato un ambiente un po’ datato, pieno di gente che ‘se la tirava’ per il solo fatto di essere lì, e che a ogni parola che ricordava il mondo più disincantato e vivace della pubblicità non mancava di uscirsene con chiose che segnavano la distanza tra cultura e “incultura”. Ma lavorando, giorno dopo giorno, avevo apprezzato un impegno che mi faceva crescere e che, grazie alla molteplicità di incontri e conoscenze, mi apriva finestre mai immaginate prima di allora. Lavorando avevo a che fare sia con giornalisti sia con autori di libri e il rapporto con questi ultimi era ogni volta ricco di sorprese e di imprevisti originali.
Nel 1982 la casa editrice aveva acquisito Marquez, autore a cui aveva fatto lungamente la posta; non conosco i particolari (né i costi) di quell’acquisizione prestigiosa, ma ricordo bene, invece i tempi del Macondo – a Milano – locale simbolo di resistenza trasgressiva delle generazioni sessantottine. E ricordo bene che la notizia dell’acquisizione a me rinverdì ricordi di quegli anni un po’ barricaderi aggiungendo un’emozione personale all’idea di un autore lontano dai territori abituali della casa editrice, che pareva vivesse in un suo mondo piuttosto circoscritto – amici registi, amici giornalisti, Fidel Castro e così via -. Avevo un mio vissuto che andava oltre il suo mitico “Cent’anni” e l’autore, nonostante la sua grandezza, mi evocava storie e ricordi privati; per il resto era lavoro. Marquez arrivava da noi, fresco di un Nobel che andava sottolineato, in occasione della pubblicazione di “Cronaca di una morte annunciata”. La sua agente aveva scelto la casa editrice che era in grado di mettere a disposizione del nuovo libro in uscita investimenti e organizzazione tali da rinverdire un mito che rischiava di rimanere legato a un libro così ‘unico’ che tutto quello che veniva dopo restava un po’ nell’ombra, con possibile flessione delle vendite degli altri titoli. Ma ora c’era il Nobel che dava l’occasione per dire qualcosa di diverso in libreria.
Quell’anno era tornato in Italia per qualche mese un vecchio amico – un autentico talento della grafica – ne avevo approfittato per affidargli il tema e chiedergli di disegnare un’affichette da regalare ai lettori nel loro luogo, la libreria e di offrire loro così un’antologia visiva di Marquez, un messaggio per raccontare l’autore di molti libri, non solo i mitici “Cent’anni di solitudine”. L’affichette fu un successo, era eloquente e delicata, con il Gabo, sintetizzato in un ritratto scuro e misterioso, che si affaccia tra pagine – simbolo, colorate e lievi, a raccontare una storia, forse addirittura a scriverla. Di quel lavoro mi è rimasto quello che viene chiamato definitivo, perché l’affichette andò a ruba e sparì anche dal mio ufficio.
Andò così che Marquez, che aveva apprezzato molto quella sintesi visiva della sua poetica, e che amava molto le nuove copertine che rivestivano tutti i suoi titoli nelle nostre edizioni, volle conoscermi personalmente, quando stava per uscire il suo nuovo libro (“El amor en los tiempos del còlera”). Nessuno, in casa editrice lo aveva mai incontrato di persona e l’editore arrivò affannato e felice nel mio ufficio ad annunciarmi che dovevo partire immediatamente per Barcellona, dove il nostro autore era ospite della sua agente, per sentire dalla sua viva voce quello che aveva da dirmi.
L’ufficio della Carmen Balcells era in Diagonal, dove arrivai in una tarda mattinata ed ero quasi più intrigata all’idea di conoscere una donna di cui avevo sentito parlare in termini straordinari – la Mamà Grande, l’aveva ribattezzata forse lo stesso Marquez -, non solo come agente, la Carmen era una consigliera ascoltatissima, e curava gli interessi di tutti i più importanti autori di lingua spagnola; avrei imparato, negli anni, che era anche molto lungimirante, anche per conto di quelli che amava e stimava -. Da una stanzetta si affacciò il Gabo, proprio come due anni prima dalle pagine dell’affichette disegnata dall’amico americano. Che cosa l’aveva spinto a incontrarmi?
Aveva una storia da raccontarmi, a proposito del suoi “Amor en los tiempos del còlera”; amava moltissimo le copertine che la casa editrice aveva creato per i suoi libri, le amava talmente che le voleva per tutte le edizioni dei libri, in tutto il mondo. Gli spiegai che da noi c’era un ufficio, con alcuni talenti, veri artisti che lavoravano alle copertine di tutti i libri pubblicati; gli dissi anche che le illustrazioni delle sue copertine erano state ricercate e scelte dall’editore in persona; lo sapeva già e gli piaceva molto quella con l’amorino in primo piano che stavamo mandando in stampa con il libro in uscita, ma voleva una modifica e non voleva essere frainteso. Gli era piaciuta anche l’affichette con cui avevamo celebrato il Nobel e non voleva la sua richiesta venisse interpretata come un’intrusione, un’invasione di campo nel lavoro creativo di altri, e mi raccontò il suo desiderio.
Ai tempi del colera, i battelli che solcavano i corsi d’acqua nella foresta, quando avevano a bordo un malato alzavano una bandiera gialla; questo gli era stato raccontato quando era piccolo e questo particolare gli sarebbe piaciuto inserire ‘nel racconto’ che l’illustrazione della copertina evocava – un corso d’acqua in mezzo a vegetazione tropicale, un amorino in agguato in una radura lì accanto – . Ma non voleva invadere il lavoro di altri e mi chiedeva di scegliere insieme a lui come inserire “il barco” che avrebbe potuto figurare in modo naturale nell’illustrazione e come appiccicargli anche la bandiera del colera, però senza ferire chi già aveva lavorato. Con garbo.
Mentre lui mi raccontava i suoi pensieri, io pensavo a quante volte mi era capitato di incontrare persone che non avevano avuto scrupoli a intervenire nel lavoro pensato da altri, fare modifiche, usarlo come proprio, cambiarne il significato …