Pensiero

Quando vivi in campagna la morte arriva come una staffilata, a ricordarti che non camminerai per sempre tra i filari delle vigne, sul ciglio del bosco, osservando le stagioni che ti raccontano il tempo che passa. E tu sei lì.

Allora ti accorgi che l’impermanenza non è una canzone new age, ma l’incontrovertibile appuntamento con l’ignoto, nonostante le vigne, le foglie che brillano dorate, il giro del sole che disegna astrazioni capaci di sorprendere anche i più consumati dall’uso e dalle visioni.

L’affluenza della gente ti aiuta a stare in piedi, facendo parte di un unicum in cui ognuno è staffetta di un futuro in cui solo le stagioni (pur barcollanti, sostiene qualcuno) permangono. Gli umani si passano il testimone.

Ma un funerale in campagna, in mezzo a una comunità che mette in pausa le rogne – grandi o piccole – del quotidiano, per toccarsi lievemente e sinceramente: un gomito, una spalla, e dirsi che siamo qui per ora e garantiamo il rimpianto, perché uno o una di noi si allontana (e non è mai per sempre, perché il mosaico dei ricordi lo ricompone); ma noi che rimaniamo, nel guardare lo splendore inaudito delle colline in tutti i loro dettagli, ci siamo anche per chi se n’è andato.

Pensavo guidando verso la piazza, la chiesa, la gente, com’è più naturale morire, andare, lasciare, partire, dissolvere, finire. Vicino alla terra che uno conosce sasso per sasso, in questo autunno così luminoso e sfibrante. Così scolpito dalla luce che si fa fatica a pensare di lasciarlo. Eppure è così.

Io non so chi sono io

Di solito è meglio scrivere di mattina: resta la traccia dei sogni e poi qualcosa di fresco affiora tra una parola e l’altra. Al mattino folate di parole mi frullano intorno e non sempre riesco a fermarle; anche se raccomando di restare: c’è troppo vento, troppa luce, troppo tutto. Il mattino è il momento più bello, ma non subito: dapprima può sembrarti difficile, ma se ti agiti un po’, ti scuoti e ti riscuoti e ti pensi come un contenitore – non solo succhi gastrici, saliva e tutto il resto -, ma come una fiala, una fiasca, in cui far stare o mettere insieme a quello che già c’è, tutto quello che arriva, con il tempo e la pioggia o a folate, appunto, parole, sabbia, foglie, pensieri, gocciole e prima colazione.

Ma prima è meglio muoversi, uscire, guardarsi intorno; finire di disintontirsi e incominciare a stupirsi; non sapere se hai “le ali ai piedi” e pensare di stare attenta a non prendere una storta (non c’è mica la mia fisio a miracolarmi, qui). Invece il ritmo non include la scrittura; scrivo da seduta e non va bene: il mattino vuole movimento, solo muovendo le gambe si mette in moto la testa, lentamente (ma invece sembra che tutto accada così in fretta) le idee rientrano negli appositi alloggiamenti e si mettono quiete, spesso cambiano significato, a volte impallidiscono, altre volte addirittura scompaiono senza lasciare il minimo segno. Tutto sembra normale, ma poi ti trovi a camminare e guardi la gente in controluce e vedi come il sole mangia i contorni e li fa baluginare, affondi in questa visione e ti viene da pensare se gli altri ti vedono come tu vedi loro. E magari pensano a chi sei e si raccontano delle storie, come fai tu. Di mattino, prendendo a prestito una vita.   

La via dei campi

Ci sono situazioni, momenti (e ovviamente luoghi), che associo a un aspetto del paesaggio, o del panorama circostante. Ciò succede quando mi ritrovo nel limitare tra una zona ai margini dell’abitato di una città (ma anche di un paese),  con le attività umane che lì si svolgono e il ‘subito dopo’, dove la natura prende (o tenta) la rivalsa, il sopravvento.

Possono anche essere situazioni sentimentali – come quando si scivola fuori da un affetto, talvolta sospinti o silenziosamente incoraggiati da un altro – oppure momenti dell’esistenza, più difficilmente individuabili come momenti di ‘cambiamento’ o di transito da una fase all’altra (perché di solito quando c’è stato passaggio da una fase all’altra, ci si accorge dopo del cambiamento avvenuto).

Un momento in cui si cambia, e si sente che ci sta succedendo qualcosa, è quando si allungano le giornate in modo apprezzabile (“al passo di un cavallo”, dice il proverbio), ma non è affatto ancora primavera; anzi può succedere una nevicata, anche abbondante, o una giornata di sole falsamente tiepido. Ma anche se non è ancora primavera, il cambiamento è già dentro di noi, forse anche dentro la terra, sotto gli strati di foglie marcescenti che non hanno nemmeno più la levità o l’energia per sollevarsi al vento, appesantite da una stagione che le ha ineluttabilmente consumate fino a ridurle concime delle stesse piante da cui sono cadute.

In questi limitari è sempre complicato muoversi, starci nel modo giusto – direi quasi, avere il colore giusto, sempre per usare una metafora -. E io spero che nonostante l’uso della metafora, indispensabile scrivendo in pubblico, si capisca che cosa vorrei dire.

Vivendo mi è capitato di essere tante persone diverse, senza tuttavia essere un camaleonte né tentando di nascondere o nascondermi. Semplicemente accade che qualcosa finisca e qualcos’altro prenda il suo posto e si cambia pelle; proprio come, al limitare della città, sulla via dei campi – in un giorno prima della vera primavera – ci accorgiamo che tra i frammenti di asfalto e di ghiaia stanno crescendo ciuffi di erbe che si riappropriano di spazi che gli erano stati sottratti da un’urbanizzazione incompleta o incerta.

Le chiamavamo ‘erbacce’, poi il nostro sguardo è cambiato e abbiamo capito (stiamo capendo) che sono le preziose avanguardie del verde selvatico e spontaneo, che preparano un ritorno alle loro sorelle più bisognose di attenzione, più delicate, più paturniose.

Stare in campagna mi ha dato più sguardo per questo ‘terzo paesaggio’ e insegnato a vedere che cosa c’è nel limite, tra la fine di qualcosa e qualcos’altro di nuovo.

Ritorno a casa

Dopo mesi di fatica e di immobilità, decido di tentare. Il cane e (per maggior sicurezza) un bastone: caso mai il ginocchio facesse un capriccio. Riparto dall’idea di far contento il cane, travestendo il timore in dovere; nel cielo è tutto un rincorrersi di nuvole, giro accanto al podere (“dov’era l’ombra or sé la quercia spande”) … La caduta della quercia ha cambiato un po’ questo angolo di campagna e più ti allontani più è evidente. A Blackie basta la parola ‘giretto’ per avviarsi, però si volta perché sa che io sto provando, ma non sono davvero sicura di farcela; corre, si ferma, pisciacchiaDSCN8609, poi torna indietro e mi guarda. Quando capisce che ci sono e che non ho problemi, riparte. Azzardo il solito giro, più che altro perché non sono certa che lui capirebbe le ragioni di un’abbreviazione; tuttavia nell’ultimo tratto cammina al mio fianco – cosa non proprio consueta per lui -, poi quando siamo in vista del podere va su veloce e mi aspetta davanti all’uscio: è ormai buio e i suoi occhi brillano ammiccanti, come due led. Brinda con un biscotto, per accordi precedenti.

Diario di un ginocchio

In un momento in cui pare che mi succeda di tutto (e non il meglio, tra l’altro), pur non essendo ottimista, penso di trovarmi in un periodo della vita piuttosto interessante. Però sono in ginocchio, ma non  – appassionatamente – “in ginocchio da te”, come morandianamente sarei pure disposta a cantare: no!, ho proprio un ginocchio che fa capricci, che s’incricca, schiocca, s’inceppa sul più bello e fa un male bestia.

Pare siano in tanti, quelli che possono provare empatia per le circostanze che mi affliggono, perché pare proprio che, passati i cinquant’anni, le ginocchia mostrino il logorio della vita trascorsa sotto forma di doloroso (dolorosissimo) tormento. Murakami Haruki mi capirebbe benissimo, ma leggere uno dei suoi libri, da cui trapela la passione per il camminare (con tutto ciò che il camminare comporta: una meraviglia di sensazioni e di bellurie dello spirito e del corpo) in questo momento mi farebbe sentire ancora peggio. Se vivo in campagna, è proprio per goderne gli orizzonti; non gli orizzonti  – alti e imperiosi – come visti dal SUV, ma quelli che accompagnano una sfrizzolante camminata, con una serie di sintagmi in cui si scandiscono e susseguono i paesaggi che scorrono: tutti i paesaggi, quello più vicino, in cui leggere le erbe, gli arbusti e il verde che si attraversa, nella sua immediatezza; poi quello che si intravede oltre – vigne, olivete, boschi, strade – e poi il cielo, così variabile ed espressivo.

Niente, camminare diventa un miraggio, farlo a passo svelto, nel freddo che sta piegando la stagione al suo destino invernale, è una vera utopia. Non mi resta dunque che camminare con la mente. En garde!  DSCN8122

Uno su due

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In Europa, gli italiani sono la popolazione con il più alto numero di ore passate davanti alla televisione; un italiano su due non legge nemmeno un libro all’anno. Ho sentito questi dati alla radio, ma sono numeri familiari, anche se nella popolazione dei giovani (per quanto riguarda la lettura) sono un po’ meno drammatici.

Nella giratina di stamane, fatta con l’idea di annotare un’anteprima dei colori d’autunno, pensavo che se uno guarda certi programmi tv è un po’ come se diventasse cieco (e sordo); poi non può avere occhi per vedere altro, figuriamoci i colori delle bacche o dei licheni, o quelli dell’invaiatura delle olive. E perché mai dovrebbero interessargli i colori delle bacche e dei licheni eccetera? Cosa resta dentro, dopo una serata davanti a Bruno Vespa o a un altro dei profeti che riformano le idee del telespettatore? Quanto può importare il colore delle bacche a un signore che scivola nel dormiveglia guardando un ‘format’, che si chiama così proprio perché ha (deve avere) un bioritmo sempre uguale al modello originale,inventato per far scattare tutta una serie di relais mentali a chi guarda, provocandogli sentimenti prevedibili e previsti? “Un italiano su due eccetera …”: il colore delle bacche sarebbe importante per la nazione.