Vento di fine anno

Ritorno alla Costaccia dei Fagnani, in questo pomeriggio di dicembre, con il sole a taglio basso che ripartendo dal recente solstizio ha già un altro gusto. Erano anni che non svoltavo di qua, verso la loro aia ricca di humus; dove la vita – che brulica tra le foglie in terra, i frutti marciti, gli stecchi e un po’ d’insetti in fasi transitive verso le forme che solo gli entomologi conoscono intimamente, con verdi inaspettati di muschio che sfolgorano di colpi di luce che bucano l’immaginazione -, non è solo metafora, è quasi la cronaca di quarantacinque anni (giusti giusti, in questi giorni) dall’acquisto di una casa che è diventata un mondo; debiti, viaggi, muratori, errori, chilometri, riunioni, feste, musica, compleanni, litigate, tradimenti, notti insonni, gatti, cani, amici morti e vivi, sguardi in tralice, discussioni, tradimenti, eleganza, curiosità infinite, tradimenti, alberi, querce vive morte risorte, muri che cadono, operai che non vengono, porte da cambiare, insulti e disconoscimenti, tradimenti, travi da cambiare, scarabei rinoceronte, persiane abusive, finestre aperte, chiuse, riaperte richiuse, scoperte di tesori nascosti in bellavista, tradimenti, anni, mesi, chilometri, estati, fichisecchi, candele, acqua che manca, le lunghe pause degli operai dell’Enel con merenda nel bosco, i vicini, gli ospiti, i poeti, le altre feste, fosse biologiche che rigurgitano, altre fosse biologiche, le visite della poiana, querce che cadono (tre!) e cercano di ammazzarti, notti di cieli stellati, la pompa dell’acqua che non pesca, la luna che sorge dal poggio nel luglio, i vicini che pompano l’acqua, Picchio, Pocchio, gli orti con le buche delle fate, l’annestino, il Pulcino che frantuma i massi col fuoco e con l’acqua, gli ospiti, Gastone che accende il forno, le teglie, i piatti, la musica, i Premostratensi che vengono a pranzo, l’organista Mascheroni, Pasqua, Natale, il cortile da ripulire, il serpente vaccaro, l’eternit da eliminare, l’arpa che arriva da Milano, le marimbe e Ben Omar, i tappeti sulle lastre del cortile, grilli, nacchere, timpani, conchiglie, piantare alberi, piantare fiori, piantarla, Armando e Rosa che vendemmiano, i Fagnani che hanno il dito verde e vengono a darmi una mano, bambino piccolo, bambini piccoli, gli amici dei bambini, amici, gli amici degli amici, prendere il sole, tornare alla grande casa che dall’aia dei Fagnani non si vede, ma se ne ascolta la presenza.
Sta accovacciata sul poggetto in cima alla salita, come un animale non completamente addomesticato – lì, in un altro tempo c’era il mare, il fondo del mare, ora, dal basso, se stai in silenzio puoi sentirla respirare, e guardarla per vedere la sua storia – la strada che porta fin su è vecchia di centinaia d’anni, ci hanno camminato  preti, soldati, contadini, viaggiatori. Attraversa boschi, vigne e radure, attraverso la mia vita.

 

 

 

 

 

Mi chiamavano cuore di burro

Cara mamma l’ho proprio pensato qualche decina di minuti fa, quando sono ritornata sui miei passi, verso il bar dove ho appena preso un caffè, per pagare un succo di frutta a un tale a cui ogni tanto lo offro, come ho visto fare da qualche persona di qui. Lui stava arrancando per strada, veniva verso il bar e ho pensato alla sua delusione nel vedermi salire in auto per andare via…
Che mi chiamavano così mi è tornato in mente proprio in quel momento, ma me ne ero già ricordata anche ieri, parlando dei tempi in cui lavoravo in azienda: io sono quasi sempre stata ‘debole’ nei confronti di chi mi sembrava debole, e questo nel mondo del lavoro, di solito, non è consentito, non lo era neanche allora e tanto meno lo è di questi tempi. Te ne sei andata – ventiquattro anni fa – ti sei persa quindi questo scivolare in un mondo cane che assomiglia sempre di più a un racconto di Ray Bradbury. Cara mamma, allora mi chiamavano ‘cuore di burro’ forse perché pareva che fossi un po’ troppo cedevole, ma erano ancora tempi in cui non era indispensabile essere carogne o semplicemente mostrare i muscoli per fare carriera, tanto è vero che io l’ho fatta col mio appariscente cuore di burro; un comportamento e un’allure che ho dismesso solo una volta, quando un uomo davvero brillante e ambizioso mi ha sfidata, trattandomi “come una donna”. So che se tu fossi qui capiresti il senso dell’espressione che sto usando, perché proprio tu mi hai inculcato quotidianamente un paio di concetti: non farti mai mantenere da un uomo e non lasciare mai che essere donna ti metta in una condizione di subalternità.

Cara mamma i tempi che corrono sono molto diversi da quelli che tu hai vissuto, quando mi predicavi dignità e mi raccomandavi di sciacquare i contenitori prima di buttarli (per rispetto di chi raccoglieva l’immondizia), ma sospetto che ‘tenere botta’ davanti alla grettezza in cui mi capita di inciampare quasi quotidianamente, soprattutto nella smagliante campagna in cui saltuariamente ancora abito, sia sempre utile, e forse addirittura un modo per distinguersi. Non solo perché ci sono i figli e tre piccine che devono crescere pensando bei pensieri, ma anche perché scopro che ci sono ancora giovani e meno giovani, in circolazione, che vorrebbero mettere a frutto la loro intelligenza e i loro sguardi su questi paesaggi. E sono più bravi e hanno idee e voglia di lavorare per vederle crescere e affermarsi.
Cara mamma che ne dici?, mica avrò ancora quel cuore di burro?