Sublimare il porco

Ovvero chi siamo, dove viviamo, che cosa mangiamo

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Ricordo che una ventina di anni fa, in tempo di vacanza, passavo spesso a piedi per la strada che da Sant’Angelo in Colle conduce a Castelnuovo dell’Abate, cioè all’Abbazia di Sant’Antimo; a qualche chilometro da Sant’Angelo, mi capitava di incontrare una grossa scrofa che pascolava nell’oliveta sottostante la strada bianca, da cui ne ammiravo le evoluzioni. Si chiamava Tina – me l’avevano detto gli abitanti del podere – e al richiamo, quando era lontana, arrivava al galoppo, facendo tremare la terra. Avevo preso l’abitudine di portarle una mela o un pezzo di pane raffermo e Tina rispondeva all’appello con tale entusiasmo che pensavo mi riconoscesse.

Un giorno, passo di lì e mi metto a strillare per chiamarla, ma Tina non risponde e io – da vera milanese che guardava la campagna con affumicati occhiali cittadini – busso al podere e chiedo ragguagli.

Tina non c’è più, mi rassicurano, “l’è salami”; io resisto al groppo di pianto, penso che comunque non sono vegetariana, ma non tralascio un apprezzamento un po’ sciocco: “oh ma era così buona!”.

Quello del podere, non so se ironico o sarcastico, mi rassicura dicendomi che Tina è sempre buona: “anche ora”.

Mi torna in mente questo episodio, leggendo la recensione a un libro dell’antropologo Marino Niola, che ‘fotografa’ il nostro approccio al cibo, analizzando il profondo cambiamento dei consumi; saltano agli occhi le nuove sensibilità, che aggregando le persone in veri e propri gruppi, in questi anni sono diventate sempre più visibili, fino a configurare nuovi mercati e nuovi interessi.

Vent’anni fa leggevamo le mappe dei consumi, per capire – attraverso i cluster psicografici – com’era il profilo ideale di un potenziale lettore di libri; oggi, quegli stili di vita che parevano numericamente flebili si sono consolidati e spesso radicalizzati, dando vita a un universo alimentare variamente segmentato, con l’irruzione sulla nostra tavola di istanze ambientaliste, salutiste, etniche, religiose, animaliste, spirituali, paesaggistiche; e forse ho dimenticato qualcosa …

Ai tempi della pubblicità – quella vera, scientifica, che deve servire a vendere e non altro – è nozione acquisita che non puoi pensare di fare una campagna per vendere un prodotto, se non ci sono i presupposti per affermarlo; sembra una banalità, ma non siamo arrivati a tenere in rispettosa – se non reverente – considerazione i vegani, oltre agli ormai scontati vegetariani, per inerzia; né la “massaia” (che nel frattempo è diventata sempre più unisex e spesso gay – Barilla insegna –) pretende il “bio” solo per sentito dire o perché sempre più spesso l’aggettivo ‘biologico’ qualifica un cibo più sicuro (o più benefico, o meno inquinante, o più salutare).

Il cibo è diventato conversazione, è affermazione – non tanto di un’identità nazionale o regionale –, è divenuto (non solo diventato) un presidio culturale, nel senso più profondo dell’aggettivo. Io mangio così, perché così io penso, così io sono.

Penso quindi mi nutro; e i pensieri, spesso inespressi, latenti, magari vaghi, vanno e provengono da molteplici direzioni: la crisi ci ha abituati tutti a una maggiore attenzione (anche quelli che non hanno troppo sofferto in questi anni), una specie di pauperismo è diventato quasi un modo nuovo di consumare (meno, ma meglio); sempre la crisi ha accelerato un processo di maggior attenzione agli sprechi, anche ambientali; la crisi, ancora, ci obbliga a volgere lo sguardo alla ricerca di risorse che possano diventare lavoro, nuovo lavoro.

Queste considerazioni sfiorano appena la complessità di un cambiamento di sguardo generalizzato – quindi anche a proposito del cibo – di cui è urgente tenere conto, perché al capolinea delle scelte diverse che diventano di massa, ci sono posti di lavoro, tipi di attività, situazioni economiche – che cambiano, che crescono, che cessano di essere redditizie –.

Chi scrive è tutt’ora onnivora – ma in modo residuale e con notevoli contraddizioni – difatti mi rendo conto di evitare la carne e pure il pesce, ma mi capita ancora, ma raramente, di mangiarne. Vivo in Toscana e in campagna, cioè in un contesto più carnivoro di quello da cui provengo; molti anni fa, arrivando dal nord non mi pareva vero papparmi una fetta di arista, tagliata spessa, colante olio profumato, tenera e invitante e appagante; e mai l’avrei chiamata Tina, me la sarei sbafata e basta.

Ora, il mio avvocato – cacciatore di lungo corso – mi ha confidato, senza sentirsi un traditore della patria tosco-senese, le delizie di un nuovo ristorantino vegetariano, apprezzando e descrivendomi la raffinatezza dei piatti e permanendo (per ora) carnivoro.

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Senza sondaggi, ma tastando i gusti della gente e le nuove abitudini, segno dei tempi mutati è l’apertura a Montalcino di un negozio la cui insegna dice ‘bio’; ora, in questa terra di cacciatori, di salsicce, di carne che accompagna mitici vini, di gente ligia a una tradizione in completa controtendenza rispetto alle considerazioni che ho esposto qui sopra, accanto ai cibi della tradizione – il miele, il farro, le lenticchie, i ceci, i caci, l’olio extravergine e naturalmente i vini (rigorosamente bio o addirittura biodinamici) – ecco il futuro cosmopolita e nostrano che avanza, sotto forma di quinoa, soia, pasta integrale e panetti di tofu.

E se il vino resta il protagonista, la zizzania è un legume o un cereale alternativo al riso, e il latte di riso è apprezzatissimo dai neo-lattofobi, una casta tutt’altro che esigua, che mette a rischio i meravigliosi formaggi della zona, anche quelli bio.

Ogni tanto io penso al prosciutto, qualche volta ne mangio; ma so bene che perfino chi alleva animali non sfugge a una nuova forma di sensibilità verso la loro vita; è un sentimento che si sta diffondendo e che non necessariamente si traduce in astinenza; spesso prende la forma di una richiesta: un mondo meno ‘bestiale’, anche per gli animali.

Il cibo è davvero diventato conversazione e Expo – se la politica non è abitata da stupidi, come ogni tanto lascia intuire – potrebbe figliare una vera attenzione al riguardo, con molte implicazioni positive.

Possiamo, potremmo, nutrire un pezzo di mondo, spaziando dal porco al farro, ma saziando soprattutto la fame più sublime di quelli che non si accontentano di riempire solo la pancia, e mettendo a frutto vecchie nuove vocazioni, possiamo trovare strade nuove, nel cibo, nell’ambiente e nell’arte, per far avanzare la nostra civiltà.

A Lezione dal Maestro, purché sia quello vero

Sì, purché sia un vero Maestro e lo sia anche con il cuore, cioè con uno slancio che gli viene da dentro e gli dà quella forza – quell’energia psichica – che i discenti riconosceranno anche senza accorgersene, senza razionalizzare.

In tempi di cibo a tutto spiano, purché sia commestibile e se ne possa parlare (o sparlare), spuntano a destra e a manca maestri di gelato, di cioccolato, di lievitazione (o forse di levitazione?), di sfogliatelle, e così via. La spiegazione del fenomeno forse non è solo nell’avvento di Expo, ma – a mio parere – sta nella spinta delle multinazionali del business che da tempo sanno che sette miliardi di uomini sono un target sicuro per un unico prodotto: il cibo e l’acqua.

Cibo che ha caratteristiche religiose, salutistiche, estetiche – etiche, mondane, e qualche volta (spesso?) diviene simbolo di un’appartenenza sociale (status symbol). Mangio (o non mangio) carne o nutrimenti che derivano dal mondo animale, digiuno per ragioni spirituali o perché me lo suggerisce (o impone) la mia religione, oppure me ne frego; non butto mai il pane (ed ecco che riscopro la panzanella) per ragioni scaramantiche o religiose, oppure perché non è elegante farlo (e non lo è davvero!). E così via.

In questo mondo in cui il cibo è tornato a essere centrale – come in tempo di guerra (infatti) – anche un panettiere di serie B, un po’ furbo o con un consigliere lungimirante accanto, può reinventarsi “maestro”, anche se non sa usare appieno la lingua italiana,  e aspirare a insegnare a nuove generazioni di donne e di uomini (che non l’hanno mai imparato dalle loro nonne smemorate), come si fa a fare un pane, o un dolce, o una crema, anche molto sempliciDSCN7027.Donne e uomini lo ascolteranno ammirati (più uomini che donne?), perché del cibo non si può fare a meno e sette miliardi di clienti vengono orientati, condizionati, pasturati come carpe, e sospinti a scegliere – in questo periodo – tutto ciò che è (o appare) home made, nei punti vendita imprescindibili, come Eataly insegna (in modo sempre meno convincente). Perché il cibo è soprattutto business e il maestro questo lo sa, perché ci campa: l’importante è che insegni con il cuore, affinché il suo pane (o quel che è) sia condito, non solo con gli strafalcioni ma anche con i semi del futuro. Scegliere il Maestro giusto, questa è la scommessa (e il mio augurio). Buon Independence day!

Tra Dubai e la ‘Ndrangheta

DSCN5571Lui sta seduto in terra, appoggiato all’alto cordolo che rende scomodissimo il semicerchio che contiene l’Arco della Pace. Quasi elegante, vecchiotto quel che basta, in una città dove i vecchi – asciutti, eleganti in modo invisibile – si sprecano. Avvicinandomi mi accorgo che è una riedizione di Emilio Tadini (solo un po’ più magro), gli occhi semichiusi, il viso proteso verso l’alto (bisogna pur abbronzarsi il collo e se non lo si tende a dovere ti saltan fuori certe rughe bianche orribili. L’Emilio lo faceva sul terrazzo di casa, in basso, in via Jommelli e mio figlio lo fotografava da casa nostra al quarto piano: un micione al sole, con lo specchio abbronzante aperto come un giornale.
Solo che qui siamo in pubblico, tra gente che corre, sgambetta, fa stretching. Non è primavera, ma riesce a sembrarlo in modo plausibile. Un terzo di quelli che incontro ha il viso stropicciato, sciarpe bellissime, shopper che raccontano una vita ancora ben dentro le cose, quel benessere un po’ così che attutisce il senso della fine delle cose … non di tutto, ma di quello che era come lo conoscevi bene.
Non c’è nulla come vivere altrove e tornare spesso – ma in modo ogni volta diverso, magari a pesca d’idee – in questi posti che nel secolo scorso sono stati il punto di decollo di un paese agricolo e sottosviluppato, per sfogliare una certa storia d’Italia. Qui, nei dintorni della Triennale, sono indecisa se volgermi verso via Paleocapa e ripensare ai Berlusconis, o strizzarmi nel mondo del design (molti di quelli che ho conosciuto sono diventati nomi di vie).
Mi sto allenando a catalogare i cambiamenti – sono su diversi piani, e la città la scompongono come in un caleidoscopio ombre-luci – ne sono affascinata. Taluni ne stanno accentuando i caratteri asciutti e anche colti: riguardano la città che lavora e prospera, che è viva e pulsante, anche se il lavoro è cambiato è rimasto però cosa vera … Ma duecentomila persone arrivate a miscelarsi con i ‘nativi’ hanno portato i loro colori, i loro odori, i loro modi – sudamericani, filippini, nordafricani, asiatici, e in questo quartiere thay, cinesi, coreani, con i loro negozi, gli affari, la lingua ermetica -.
Il turismo è una novità, un turismo ricco di gente che compra, e quello che non compra lo fotografa, di donne asiatiche elegantissime che invece di camminare veleggiano, è una sorpresa, ma non è quel turismo da città d’arte, come si usa dire: questa è gente che viene a respirare una cert’aria di contemporaneità.
Tutt’intorno, ben fuori dalle circonvallazioni esterne, una folla di vecchi – coraggiosi, esitanti, ben messi, malmessi – con vecchine che hanno paura a uscir di casa perché il vicino le ha minacciate, tante donne velate, tanti uomini che ciondolano agli angoli delle strade con le mani in tasca, tanti banchetti di merci inutili. (Tante sale giochi: il vero scandalo del nostro paese e un solo giornale – l’Avvenire – che se ne occupa seriamente).
Dentro la pancia della città, però, tutti vengono sfamati: le istituzioni della tradizione del “coeur in man” si sono irrobustite, altre se ne sono aggiunte, è diventato un sistema, ben gestito, in cui operano migliaia di volontari veri – gente non pagata che serve e assiste, organizza e serve, aiuta e serve: pensionati, professionisti, casalinghe, c’è un po’ di tutti, con grande fatica e impeccabile senso del dovere – nessuno muore di fame, tutti hanno la possibilità di lavarsi e di cambiare biancheria.
Ho l’impressione che se scavassi appena un po’ mi troverei a disagio, come quando mi tocca ascoltare la donna pallida nerovestita che si trascina nella carrozza del metro cantilenando con voce stridula peer favooore, per mangiaare, datemi qualcosa.
Salgo sul tram e incrocio lo sguardo di uno che abita ancora dalle mie parti: non faccio niente per sembrare quella che sono stata e so di non sembrarlo, ma forse qualcosa glielo ha ricordato; una donna mi tossisce ripetutamente in faccia, come se cercasse di passarmi la sua tosse. Mentre penso a come vendicarmi, lei scende e sparisce. Ma sì, è salito un controllore …

Gentrificazione in viale Monza

Una corsa a perdifiato e loro due – il padre e l’infante – che trovano il tempo (e il modo) di un gioco da complici, teneri e sghignazzanti; una marcia longhissima che mi trova impreparata, come un percorso in treno in mezzo a un paesaggio noto che però non puoi (più?) toccare. La scuola a cui siamo diretti è quella di mio figlio al suo primo giorno e sento ancora il pianto disperato (proverò la stessa angoscia anni dopo e per mia scelta). Passa nel chilometro, tra cinesi e fashion che chiudono e aprono, lanciato nel tempo, la mia vita di bimba – qui suor Maria Ersilia mi prendeva per le spalle e scuoteva, scuoteva la mia animuccia di bimba pigra e meditativa per riportarla alle regole dell’ortodossia monacale, qui anche i vini tipici pugliesi d’un tempo e poi qui abitavano i Montorsi, soprattutto lei la signora Montorsi a cui penso spesso e non so perché – il corpo minuto e il volto scarno e intelligente, il marito col cappello grigio e floscio -; qui il matrimonio di Grazia V. col marito parente dello scienziato scomparso nel nulla (la chiesa squallida da periferia senza sogni e il colbacco bianco di pelliccia), i marciapiedi con le cacche di format milanese, le scritte prive di pensiero che imbrattano i muri, le cancellate ridipinte, le belle architetture liberty e déco, le cornacchie impudenti che rubano i sacchetti e ci frugano dentro, gli eterni piccioni, l’amica a Bruxelles a rifarsi – da vecchia – una vita interessante, qui stava la Fortis noblesse oblige fidanzata con l’intellettuale schivo che saliva con i piedi sull’asse del cesso e lasciava sporco; qui il lattaio dove era cliente Rina Fort, il tram che è come un jingle, il super che legge il futuro, Vinicio ritrovato girando l’angolo a Parigi, Sanae Ando che scende dal tram in kimono per Natale, Augusto Morello e i marchi d’origine controllata, il boalum e la sinfonia dalla Cavalleria Rusticana, il Gerry Mulligan Quartet alla Salle Pleyel, tanti alberi conosciuti in un’altra vita, nel parco grigio e freddo, Fabrizio Corona. Poi il ritorno sempre di corsa, e di corsa mi ri-affaccio su viale Monza che non riconosco (ma ero qui un mese fa!). “Ci prendiamo un caffè?”: gentilezza e cortesia come in Piemonte (o in Sicilia) nel bar pieno di professionisti in nero grigio blu, due parole col figlio che ti sembra un tuo babbo remoto: “gentrification”, e te lo spiega pure.

Un incontro a Montalcino

DSCN2515Non solo vino, “quel vino”, mitico, spesso straordinario, talvolta sublime. Se scrivo di un incontro a Montalcino, l’associazione è immediata, invece l’incontro è quello fotografato qui sopra. Un incontro un po’ ‘giapponese’ – forse penso così, per via delle mie passioni (Hiruki, Banana, Mishima e le loro suggestioni di un modo diverso di guardare le ‘cose’)-. No, niente animismo, né ombre o magìa, forse solo un pizzico di oriente che si insinua nel mio occidentalissimo (e un po’ rigido) modo di pensare: un oriente necessario, per i vecchi, massimamente per i vecchi occidentali – abituati a reagire e ad agire con schemi obsoleti -; ma in realtà il mio pensiero, incontrando questo ramoscello portato sui miei passi dal vento gelido che soffia sul primo giorno dell’anno nuovo (spingendolo a forza, mi pare, sulla terra) è stato molto paesano. Un ricordo della recentissima povertà degli abitanti di questo angolo famoso della famosissima Toscana.

Il ricordo me lo suscita proprio questo fuscello da niente e di nessuno. “Eh no, se stava su una proprietà – per vasta che fosse  – raccoglierlo era rischioso, perché il proprietario, o uno dei suoi famigli, aveva da ridire: era suo”. Durante una delle innumerevoli camminate domenicali nella campagna, in compagnia di qualche camminatore locale piuttosto colto (e piuttosto riflessivo), incontrando pezzetti di legno, pigne, frutti selvatici, fichi maturi (quando è la stagione), asparagi selvatici, e tutte le piccole grandi scoperte che si fanno (e che si impara a vedere, andando a piedi), ho avuto questa rivelazione (per me stupefacente, ma poi acquisita e ben digerita).

Fino a qualche decennio fa – si parla del dopoguerra, abbondantemente dopo -, in campagna non circolava denaro, piuttosto ci si arrangiava; i bimbi e i ragazzetti, oltre a lavorare molto precocemente, quando girellavano, avevano sempre cura di tornarsene in casa con legnetti trovati,e altri piccoli beni, utili per accendere il fuoco (Gazprom e Putin non erano ancora stati inventati), o per insaporire un pasto. Ma guai se la cerca avveniva su proprietà privata: si rischiava, mi è parso di capire, anche qualche manata pesante …

Mi è già capitato di riflettere sul significato sociale, ma anche etico e spirituale, di questa realtà che in superficie ora è inintelligibile, ma che (re)esiste nel DNA di tante persone, cresciute dentro questi pensieri che talvolta hanno tarpato il meglio della loro intelligenza – che spesso fa capolino in quello che dicono e nel loro sguardo – e della loro sensibilità.

Mentre mi chinavo per afferrare il ramoscello, prima di pensare che non ho fuoco, in casa, ho cercato di immaginare come avrei fatto a portarmelo via senza farmi cogliere sul fatto dal proprietario del terreno su cui stavo camminando. Zen? No, empatia (o allenamento).

L’ultima volta al Derby Club

Ascoltando la radio, ogni volta che tra una notizia di politica e una cronaca culturale sono levitate le note di Renato Sellani sono tornata a sedermi in penombra al Derby, a Milano, in una sera come un’altra, quando il clima, la politica, gli affari e il mondo tutto si smaterializzavano, lasciando solo le immagini dense e fluide, di colori imprendibili, che Sellani ci raccontava.
Ogni volta che provo a visualizzare la ‘cifra’ di Milano, di “quella” Milano, rivedo il profilo di Sellani, seduto al pianoforte che racconta – senza però lasciarsi andare, senza uscire dal disegno della sua armonia -. Eppure volando e invitando noi al volo, sulla città che formicolava di idee e di genialità – aperta al mondo, per dare, per fare, per andare -.
Renato Sellani è stato il sound della mia città, ante Tangentopoli, ante Berlusconi atto secondo, ante ‘Ndrangheta, ante il dopo. Suonerà – lui diceva – insieme a Chopin; io spero insieme a Brahms, più adatto – a mio modo di sentire – al rimpianto per la classe che non è acqua, e purtroppo a volte, non è nemmeno vino.

Brunello è meglio

E’ come al cinema, quando vedi una dissolvenza lenta di un’inquadratura con un’altra immagine che affiora al suo posto (dissolvenza incrociata). Così, e neppure molto lentamente, sta cambiando il vissuto della campagna, della vita e del lavoro in campagna e sulla terra; un cambiamento che non è affatto un ritorno alle origini, come parrebbe a una lettura superficiale di quello che – libri, film, saggistica, premi e canzoni – la cultura e l’informazione ci stanno proponendo.

Una mattina di chissà quanti anni fa, vicino a piazza del Campo, mi incontro con Emilio Giannelli che aveva pubblicato un libro delle sue già famose vignette da Mondadori; son trascorsi così tanti anni che fatico a ricordare se l’incontro era pianificato (credo di sì) oppure casuale. Sta di fatto che Giannelli era un autore della Casa Editrice e il mio lavoro prevedeva anche la cura della comunicazione in occasione dell’uscita dei libri … Perciò mi ero ritrovata il libro di Giannelli, alla fine del giro delle dediche, con il disegno di una matita che invece era una bottiglia di Brunello e la scritta “Brunello è meglio!” quale dedica personalizzata. Ma io del Brunello sapevo – a quel tempo – poco o niente; ero solo la felice proprietaria di un bel casale nel comune di Montalcino, anzi era il casale che si stava impadronendo della mia vita e mi tiranneggiava non poco.

In altre parole, nonostante da sempre io amassi la campagna, come luogo dello spirito, da vivere e soprattutto immaginare, non pensavo affatto di andarci a stare; mi piaceva andare, stupirmi, riempirmi gli occhi e la testa (di virgiliane riflessioni) e tornare alle snervanti incombenze (ma così appassionanti) e alle responsabilità che l’Editore mi aveva affidato. Tuttavia, misteriosamente, la pausa che mi concedevo così raramente nutriva la mia vita, la allargava e l’approfondiva, facendomi intravedere significati che anni prima mi erano sfuggiti. Per esempio, ho riletto sul filo di quei vissuti la storia della mia nonna materna – nata in una famiglia borghese e finita proprietaria di un piccolo appezzamento di terra, dove, dopo essere rimasta vedova, aveva cresciuto uno stuolo di figli, allevato animali, coltivato frutti e ortaggi, resistito all’occupazione tedesca – nel sud della Francia -. Sì, insomma dalla terra veniamo tutti quanti e se riusciamo a distaccarci dal riflesso automatico che nella mente della maggior parte di noi la lega all’idea di lavoro troppo faticoso e (fino a pochi anni fa) socialmente emarginante, essa ci può far sentire emozioni oltremodo liberatorie, soprattutto in questi tempi di prevalenza della finanza in un mondo visibilmente più angusto.

Fu sul filo di questo intimo sentire che quando, alcuni anni dopo, mi trovai nell’occasione di acquistare un pezzo di terra in questa campagna, con una buona dose di incoscienza e senza alcuna esitazione, mi ci buttai a corpo morto. Su quella terra ci pascolavano alcune greggi di pecore che ‘rotolavano’ giù per la collina accompagnate dal lavoro frenetico di tre o quattro pastori maremmani e mi sembrava che nulla sarebbe mai cambiato, dal punto di vista scenico.

Ma non voglio tanto raccontare una storia di famiglia (verranno, pochi anni dopo, le mie figlie a costruire lì sopra un pezzo della loro vita), quanto constatare che nei vent’anni che sono trascorsi da quel tempo e da quei vissuti è avvenuto il cambio di fotografia a cui faccio cenno all’inizio del post. Mentre io guardavo la terra con occhio bucolico e la mente piena delle ricerche psicografiche che fotografavano i cambiamenti socioculturali, i vini docg iniziavano una nuova tappa del loro viaggio sui mercati del mondo e nella mente dei loro futuri pubblici di riferimento. Uno in particolare – come aveva scritto Giannelli: “Brunello è meglio!” – sarebbe diventato la bandiera enologica del made in Italy …

Non voglio nemmeno parlare di quel mercato e di quei vini, ma della spinta che essi, con il loro successo, hanno dato a un nuovo sguardo sulla terra (magari inizialmente solo sulla vigna) e sulla vita in campagna. Perché all’inizio ci fu il vino, forse non da solo perché per quelli di città anche gli olivi contavano (si stava scoprendo l’olio extravergine!).

Ma se avete avuto la pazienza di leggere queste righe, ora vorrei concludere facendo un’ultima osservazione. Fare vino, soprattutto un vino famoso – legato più che a un concetto di eleganza all’idea di essere un bene di lusso (purtroppo!)  – ha attratto verso la campagna, e bene o male verso un certo “stile country” nostrano, moltissima gente e soprattutto un bel po’ di soldi. Chi è milanese come chi scrive sa bene quanto “la vigna in Toscana” (ma anche in Piemonte) sia simbolo di stato nel mitico quadrilatero del design e della moda … Ma chi gira nel mondo del vino si sarà anche accorto del profondo mutamento che da alcuni anni ne sta ri-segmentando le preferenze e i consumi; un po’ sbrigativamente si può dire che se una volta (vent’anni fa) parlare di vino bio faceva storcere il naso (e di vini naturali non si parlava per niente), ora si guarda sempre di più al vino come a un (passatemi l’espressione) dono di un terroir, a qualcosa che deve essere figlio di quella vigna e di chi l’ha creata.

Attenzione; non sto parlando di vino in senso enologico, sto facendo delle associazioni con dei vissuti che non ho spazio, in questo contesto, di ampliare e approfondire; ma quello che vorrei sottolineare è il nuovo concetto di campagna, di vita in campagna, di lavoro sulla terra – ora non più obbligatoriamente la vigna – che si sta facendo strada nelle fasce e nei cluster più ‘meditativi’ e critici della nostra società (ma che non è ancora così acquisito dal mondo del vino).

Me ne sono trovata una fotografia puntuale proprio oggi sul Corsera, con il pretesto di una recensione al film (che non ho ancora visto) di Alice Rohrwacher, con il racconto di alcune esperienze di vita quotidiana e lavoro in campagna con “la fatica della terra che convive con la chiavetta Usb per collegarsi al web”. E non è più la testimonianza un po’ modaiola di un nuovo “stile di vita”, bensì il reportage di scelte più sentite nel profondo, meno estetizzanti e più faticose nella pratica, per andare verso qualcosa che si sente come più vero, qualcosa che lascia più spazio ai lati affettivi che le generazioni appena precedenti hanno scansato, in favore di un benessere che ha un po’ irrigidito la loro anima  …

Anche se dietro l’angolo c’è come sempre l’affarismo aggressivo e senza regole – si parla ancora poco di land grabbing, ma è un fenomeno che ha già sconvolto popolazioni dell’Africa – oggi molti giovani e anche molte persone di mezza età che non hanno liquidato il pezzetto di terra dei nonni, lo stanno ritrovando e rivalutando come un luogo di vita e una nuova dimensione da cui provare a vivere con meno. Non so se sia una “decrescita”, o se invece non si tratti di un vero e proprio sguardo nuovo, ma è il vino l’artefice di questa apertura, il nuovo e diverso mercato del vino che con il vecchio (ma recente) modo di viverlo ha ben poco da spartire. “Si beve con la mente” ha constatato e scritto Angelo Gaja. Di certo si beve molto meno ed è un’opportunità per guardare al vino in modo nuovo, e per guardare alla campagna come un luogo per pensare (e immaginare che cosa significherà – per le nostre vite – questo nuovo sguardo sulla terra).