Tutti i Colori di un’Albicocca

Tra le gioie della campagna, può esserci il buon cibo. Scrivo “può”, perché non necessariamente tutti lo cercano, lo offrono, lo sanno preparare. La confettura di albicocche (non è in vendita) di cui parlo è frutto di una serie di combinazioni felici.

Ho sempre amato la parola spagnola per albicocca – “albaricote” – perché col suo suono riesce a darmi l’idea del sapore di un frutto tra i miei preferiti (e di un colore che dice tutto il bene del mondo).

Amo l’albicocco di Fonterenza – piantato da noi, poche decine d’anni orsono -; un albero avaro, come spesso sono gli albicocchi, che sembra seguire un suo pensiero segreto.

Quest’anno si è esibito alla grande con una super produzione: tanti frutti, di taglia media, tutti sanissimi (e mai neanche un trattamento, da quando è stato piantato!). Le ragazze di Fonterenza ne hanno raccolto una cassetta e l’hanno portata a Luca – il giovane chef de Il Leccio – che ha fatto la sua parte preparando una confettura che poi userà per i suoi dolci ‘hand made’, che propone a clienti ed amici.

(Se capitate al bar, nella piazza di Sant’Angelo, di primo mattino, Luca o il suo babbo vi proporranno, insieme al cappuccino regolamentare, una fetta di una torta “della sera prima”).

Ecco la breve storia di questa confettura – dall’albero alla fetta di pane su cui è stata spalmata, da Luca – in una mattina di giugno, seduti sotto gli ombrelloni, nella piazza di Sant’Angelo in Colle, con una lieve brezza fresca che induceva alla lettura, davanti a una tazzina di caffè. Filiera breve=storia corta.

Que vivan los albaricotes 

Le mille luci del neo-enologo

Che il vino stia entrando nelle corde di molti personaggi, l’abbiamo capito. C’è D’Alema che con i risparmi di una vita ha comprato una tenutina, per mettere al sicuro il futuro della prole (tutti/e a fare il contadino!). Poi c’è Sting, con una tenutona in Toscana (e dove se no?) che, si è già capito, sarà il futuro suo come pierre del vino. Poi ci sono gli attori: la Sandrelli (però è anche nuora di Soldati!), quella francese di cui non ricordo il nome a Pantelleria, quell’altro non so più dove; poi ci sono naturalmente i giornalisti, in primis Lerner (in Piemonte, e dove altrimenti?), poi ci sono gli scrittori – e fa niente se non me ne viene in mente manco uno, perché da qualche parte ci sarà di certo. -.
Quello che invece mi mancava era uno scrittore che si autonomina “enologo”.
In una lunga intervista, in un noto dorso della cultura – genere e medium poco frequentati da quelli del vino, che i giornali li leggono solo per leggere numeri, o per capire a che punto è la notte – Il cosiddetto “edonista della letteratura americana” Jay McInerney si lascia andare con l’ottima Farkas, che lo stuzzica a modino, a dichiarazioni, come dire?, inedite. Una di queste diventa il titolo dell’intervista e pare davvero esagerata: “Ho bevuto in una sera 20 mila dollari di vino” che anche con il cambio che spiace a Obama fanno più di 30 milioni di vecchie lire, cioè praticamente la caparra per un piccolo appartamento.
Poi scopri che proprio oggi esce – per i tipi di Bompiani – “i Piaceri della Cantina” che è il suo libro di autoconsacrazione quale ‘critico del vino’ (ma mi pare che lui preferisca proprio enologo), e scopri pure, continuando a leggere, che – di vino, sempre – scriverà nientemeno che sul Wall Street Journal, come opinionista. Il vino è davvero pervasivo, si insinua nella vita di tutti, è immancabile, indispensabile, insostituibile. E qui si attorciglia anche ben bene all’editoria che sta tra quella cosiddetta “di consumo” e quella di profilo un po’ più alto. Ma dato che i vini si vendono (ancora) – nel senso che si ‘consumano’ e poi la bottiglia è vuota e se vuoi bere devi aprirne un’altra – mentre sospetto che con i chiari di luna correnti, i libri saranno vieppiù prestati (semmai ci si consumano su gli occhi,  almeno io), allora uno scrittore brillante si tiene un job di scorta, così potrà continuare a scrivere, e a bere, senza spendere i 20 mila dollari per bere da solo in una sola sera.

Attenti al lupo!

Un sound che ti ha accompagnato per tutta l’infanzia e per un bel pezzo di gioventù; una canzone le cui parole sono state interpretate in modo diverso, da ognuno di noi; l’amore per gli animali che in sogno possono anche diventare personaggi di fiabe da adulti; il Fosso Lupaio che segna il confine della tua terra; una voce che si interrompe per sempre (e di questi tempi ne senti anche di più la mancanza); fare vino prima di tutto per passione (intrattenere la terra e lavorare duro per farlo come pensi debba essere fatto);i tempi che raccontano nuove storie – più difficili, più appassionanti -.
Le emozioni e i sentimenti che imprimono nuova energia, e un lupo che ti fa venire voglia di cantare una canzone che lui cantava come nessun’altro può. Dedicato a Lucio Dalla

A piedi, a piedi!

“Siamo a piedi!”, era un modo di dire che si usava per segnalare la fine dei soldi, o delle risorse, o uno stato di crisi – parolina insidiosa, quest’ultima, che stiamo esplorando in tutte le accezioni più nere e infelici -.
Per non rimanere a piedi, andiamo a piedi, anzi, mandiamo a piedi i visitatori del bel paese  come ci propone (tardivamente) l’Europa, con un programma succulento, che premierà con finanziamenti – speriamo – non i soliti furbacchioni che subito penseranno di mettere i cessi sul percorso della Francigena (per una pipì del pellegrino più igienica, suppongo) oppure le panchine per la sosta ‘attrezzata’, come dicono certi assessori (sentito con le mie orecchie); forse perché senza panchine per farci il picnic, il pellegrino non saprebbe come fare a mangiare. Invece con le panchine, i cessi chimici, e magari anche qualche altro attrezzo spendereccio – che riuscirebbe a trasformare un percorso dello spirito, in uno squallido itinerario ‘protetto’ – l’Italia de noatri, quella delle connivenze, degli accordi sottobanco, del do ut des, potrebbe servirsi un lauto pranzo, come ha già fatto con una buona parte dei fondi europei su cui è riuscita a mettere le mani.

Quando ho letto di questo “nuovo” programma europeo (in sé straordinariamente interessante e azzeccato), mi son venute in mente alcune cose.

L’una è qui in questo spazio virtuale, teoricamente sotto gli occhi di tutti quelli che siano curiosi e abbiano voglia (e tempo) di appagare la loro curiosità: è la ragione per cui è nato questo mio piccolo blog. Si chiama “Dichiarazione di Cork per la priorità dell’ambiente rurale Europeo”, lanciata nel 1996, e completamente disattesa. La Dichiarazione di cui sopra è disponibile on line (ah che bellezza la rete che svergogna i dimenticoni d’Europa!). E’ un documento bellissimo, pervaso da un sentimento che io condivido fino in fondo, perché si propone di dare un’alternativa culturale al vecchio modello di sviluppo, a cui peraltro l’Europa di oggi pare ancora aggrappata come neanche una zecca a una pecora.

Il modello alternativo è (sarebbe, o devo scrivere sarebbe stato?) quello rurale, nelle sue accezioni più alte e felici. In altre parole, essa non propone di ‘rifugiarsi in campagna’ a zappettare l’orto di sostentamento, bensì di vivere una vita piena nella ruralità (europea), dotata di strumenti che possano (che potrebbero, o devo scrivere avrebbero potuto?) promuovere sviluppo culturale, imprenditoria sostenibile (in questo caso non sarebbe un aggettivo sprecato), lavoro meno legato a logiche contorte, consapevolezza della propria storia, vicinanza alla terra, energia psichica: insomma prospettive più coerenti con uno sviluppo vero (cioè non consumistico!) per le nuove generazioni di europei (quelle di cui l’Europa si è dimenticata, tutta assorta a fare lo zimbello dei padroni delle agenzie di rating).

Altri pensieri mi sono venuti in mente… Considerazioni tristi, a cui non riesco a rassegnarmi. Come può un paese che avrebbe tutto per essere meta anche di pellegrinaggi e turismo arrendersi al cemento, al consumo di territorio con edilizia da ignoranti, alle combine tra affarismo (quando non peggio) e politica?

Perché politici e amministratori non leggono, non si informano, si esprimono rozzamente, non raccolgono le idee che pure circolano (anche in rete), per fare qualcosa di politicamente onesto?

“L’onestà viene dal basso”, ho letto sul Corriere della Sera, proprio oggi. Mi è venuto in mente un imprenditore edile che, finito il lavoro, è stato saldato dall’uomo di fiducia del suo committente, il quale uomo di “fiducia”, pagandogli il dovuto, si è tenuto per sé diecimila euro (storia vera!), dicendoglielo in faccia, e ridacchiando pure. E l’imprenditore zitto, perché “poi se devo lavorare ancora, quello è capace di dire male della mia impresa”. (L’Europa forse dovrebbe anche inventarsi un programma per ridare un senso alla parola “fiducia”…).

Torniamo a camminare (camminando vengono le idee) e mandiamo a piedi turisti e pellegrini, nei nostri bei paesaggi. E mandiamo a piedi – togliendo loro le ottocentomila auto blu – anche politici e amministratori: chissà che non gli si schiariscano un po’ le idee!le idee.

 

 

 

 

 

Fratelli d’Italia. Che sa quel che fa

Mentre ogni sorta di bufera impazza, e per l’ennesima volta chi governa cerca di far quadrare i conti inventandosi la vendita dei beni pubblici, mi sono scoperta a canticchiare compiaciuta – tra me e me – un Inno di Mameli inedito, in cui ‘cibo e vino’ stanno al posto ‘dell’elmo di Scipio’.

Ho, infatti, gli occhi pieni della carrellata di ben di Dio che – pagina dopo pagina – compongono l’Atlante di Qualivita, anzi i due atlanti – uno del cibo e l’altro del vino -, e pagina dopo pagina, la sfogliatura mi ha messo di un inatteso buonumore..

Conosco Mauro Rosati da un po’ di anni, e ho ricordi più precisi di lui da quando si è imbarcato in questa avventura chiamata Qualivita, di cui è segretario e animatore. Perché sin dall’inizio m’è sembrata un’impresa velleitaria e impossibile: anche se questo insieme di nostri specialissimi prodotti alimentari (e vini!), legati ai mille distretti (spesso microscopici) che parlano di un’Italia lontana dai meandri della politica, ce l’hanno nel cuore tutti i cittadini più attenti e sensibili, o forse mi sembrava un’impresa ardua, proprio per questo. Perché una cosa è percepire la ricchezza delle nostre produzioni agroalimentari “tipiche”, ben altra cosa è invece trovarle e repertoriarle…

Invece quando l’Atlante Qualivita è giunto a casa mia sono rimasta a bocca aperta…(Tranquilli che questa non è una captatio, né una ‘marchetta’ per ingraziarmi Rosati, a cui – in un’incursione ad hoc – farò, come lui mi ha chiesto, una libera critica del “prodotto”). Però, i due ‘libroni’ che pesano assai – ma te ne dimentichi mentre li sfogli – ti fanno incontrare tutti i prodotti del nostro paese, e ti rendi conto della ricchezza nostrale, del legame profondo tra cibo, vino e la terra da cui nascono. E le mani che li fanno sono mani davvero d’autore.

Ci saranno proprio tutti i nostri vini? E le nostre specialità? Non so rispondermi, perché nei due volumi ho trovato tutti i grandissimi vini italiani, ma anche l’umile ortaggio, la frutta  e poi i salami, i formaggi, il pane …: tutto quello che rende l’Italia un paese così speciale e la nostra “qualità della vita” così rinomata. Ma non sono così esperta dell’argomento specifico, da accorgermi di eventuali mancanze. Quello che mi ha colpito, e che condivido con chi legge, è il progetto in sé, prima ancora della veste in cui esso è realizzato, o dell’assoluta completezza delle realtà rappresentate. Lo vivo come un inizio, uno strumento per acquisire coscienza del paese concreto – mille miglia dalla finanza che tutto traduce in perdite o guadagni, virtuali -.

Ora, bisogna che questi due volumi diventino un punto di partenza; come tutti gli atlanti.che descrivano i luoghi e ti fanno venire voglia di andarci e conoscerli; bisogna che, come tutti i libri, essi stimolino le idee. Perché, come diceva Sergio Polillo – uno degli  uomini grandi della grande editoria, uno che non parlava inseguendo l’apparenza -, i libri devono stare aperti tra le mani degli uomini: devono circolare. Questi atlanti, da qui in poi, devono diventare strumenti di conoscenza diffusa. Io intanto ne manderei subito una copia a Ermanno Olmi, che vuol far ripartire l’Italia dalle campagne e dall’agricoltura. Un’Italia che fa, che sa ciò che fa.

 

Come parlare al muro

Parlate – parliamo! – al muro. Perché se gli andiamo vicino e lo guardiamo, possiamo accorgerci che è vivo – vivissimo -. Dunque non lasciamolo solo, non dimentichiamo quanto abbellisca la strada che esso costeggia. Adottiamo un muro; sarà un appoggio per le nostre esistenze frettolose e distratte; ci racconterà la storia di chi c’era prima, del lavoro di quelli che, con pochi mezzi e ancora meno soldi, si sono presi cura di un pezzo di collina, del margine di una strada, dell’intorno a sé, per non farlo decadere. Quel lavoro è’ un pezzo della nostra storia, una delle ragioni per cui il nostro paese piace così tanto – a dispetto di tutto ciò che, invece, lo fa andare in pezzi -.
Troppa nostalgia?
Macché nostalgia, è solo un po’ di obbligatorio senso estetico:e una doverosa salvaguardia del bello, in un paese che, pur cadendo a pezzi – fisicamente e moralmente (persino con l’aiuto di un terremoto) – dovrebbe avere un po’ più cura di sé stesso, ed essere consapevole di quello che deve evolvere, migliorare e innovarsi, ma sapendo distinguere ciò che va protetto e salvato.

Non credo che questo genere di esortazione significhi aver la testa girata verso il passato e la sua mera conservazione. Perché se parliamo di futuro dobbiamo incominciare a tenere da conto (anche) il buon gusto naturale delle cose. Osserviamo il valore che il tempo e la natura aggiungono a un muro, al modo in cui il tempo che passa lo arricchisce di presenze che non chiedono altro se non di essere lì. 

Disegnare è Vivere

Era il maggio del mitico1968 e bruciavano gli alberi sul Boulevard Saint Michel, mentre sbarcavo a Parigi per andare a trovare Raymond Savignac, il bravissimo cartellonista (autore tra l’altro del manifesto di lancio del quotidiano Il Giorno). In quella giornata particolare, raggiungere lo studio del Maestro fu un’avventura; mucchi di spazzatura che assediavano i palazzi fino al primo piano suscitando un tanfo riscaldato dal tepore della primavera e le grida provenienti da piccoli gruppi di studenti che sbucavano improvvisamente su una piazza, rendevano confuso e complicato circolare anche a piedi. Ma che soddisfazione poi chiacchierare con Savignac, bevendo un succo, nello studio gremito di disegni e di appunti visivi – appesi dappertutto -, con i mazzi di pennelli e matite raccolti nei vasi e il suo sguardo sagace pronto a cogliere spunti anche dal pattume che quasi gli si affacciava alla finestra…

Prima di Savignac avevo conosciuto molti disegnatori di grande talento – a cominciare dalla mia compagna di liceo, Marialuisa Gioia, i cui segni delicati ed espressivi hanno raccontato le poesie del Carlo Porta, da Enrica Agostinelli che illustrò per Italo Calvino un indimenticabile Barone Rampante e dalla Margherita Saccaro e i suoi personaggi animati – ma durante i primi anni di lavoro e di Accademia, ancora adolescente in una Milano ricca (come forse mai più) di idee e di grandi maestri, avevo conosciuto e frequentato  – tra gli altri –Bruno Munari ed Enzo Mari.

Ora, quando mi capita di disegnare, penso a questi geni e alla loro apertura mentale (un modo di essere che li ha fatti grandi) e agli incontri con altri grandi artisti – Folon, Ben Shahn, Milton Gleaser – che disegnando hanno vissuto così intensamente. Perché “disegnare è vivere”, l’ha detto Enzo Mari – anzi ne ha fatto un libro – e disegnare è un modo di guardare e raccontare anche gli altri, le loro storie, la loro esistenza.

nb: i miei disegni sono solo un modo di annotarmi il paesaggio; oppure, qualche volta, di provare a raccontare qualcuno che conosco e la cui faccia mi ha colpito. In questo caso, oltre alla faccia di Luciano, mi ha colpito anche il suo Brunello, che lui fa – come piace a me – senza mezzi termini, senza compromessi, senza venire mai meno a un’idea della terra che gli arriva diretta da suo nonno Bramante – 96 anni: il vendemmiatore più vecchio di Montalcino – da cui andavo a comprare le legna nel 1975! 

Gigli da guardia

Chi vive da sempre in città – anche se magari viaggia molto, e in luoghi molto esotici rispetto al nostro paese – quando arriva in campagna può fare scoperte entusiasmanti quanto in un viaggio in terre lontane. Perché, di solito, anche il più avventuroso dei viaggi avviene in situazioni abbastanza protette per ciò che riguarda i contatti con la natura e le diversità sociali più estreme. Invece chi arriva in campagna tende a sentirsi ‘a casa’, almeno in Europa. Perciò l’incontro con tutto quello che è rimasto allo stato naturale può essere una scoperta inattesa, perché in realtà la natura è abbastanza sconosciuta ai più…
Quanti ‘cittadini’ hanno mai avuto un incontro ravvicinato con un’Upupa? O con un Ramarro (divenuto oggi quasi una rarità). Chi, vissuto sempre in città, distingue i diversi passeracei, o sa cos’è una Donnola (che non è un’ennesima diminutio della donna)?
Ma uno degli incontri più emozionanti – frequente nelle terre del mio esilio – è quello con  l’Istrice (Hystrix Cristata), da non confondersi con il grazioso, più piccino e più avvicinabile Porcospino.

Sono passati parecchi anni dal mio primo incontro con questo meraviglioso roditore dall’aspetto preistorico. E’ successo di notte, l’estate era al suo culmine e io stavo osservando la luna che sorgeva dal poggio antistante il podere in cui passavo una breve vacanza. Ero presa dal globo pallido che pareva salire con fatica, districandosi dai rami del bosco che mi appariva nero, in controluce. Aspettavo il momento in cui la luna, salendo nel cielo, si sarebbe distaccata definitivamente dal bosco e con un impercettibile balzo sarebbe apparsa in tutta la sua rotondità celeste.

Ero sola e ogni tanto lasciavo vagare la vista sotto i due noci antistanti la vecchia costruzione, ascoltando i fruscii della notte e rimirando le Lucciole che mi tenevano compagnia. Ad un tratto un raspare improvviso e più forte, un trambusto prodotto da qualcosa (qualcuno) che si manifestava con prepotenza. Alcuni punti rosso intenso – quasi tizzoni ardenti – che si muovevano rapidamente: a pochi metri da me, sola e in silenzio, erano gli occhi di brace di quattro Istrici intente alla loro danza d’amore che pareva di guerra, tanto era fragorosa: sembravano indiani che muovessero al ritmo di tamburi. Una performance, uno spettacolo che avrei rivisto altre volte; come spesso mi capita, su certe vie sterrate, sentire un fracasso di rametti calpestati e veder uscire improvvisamente dalla boscaglia due Istrici che si rincorrono – solo apparentemente lente e goffe, a causa dell’ingombrante livrea spinosa che le rende incarezzabili e inavvicinabili-.

Va male quando si ha un orto, in cui si son piantate patate – l’Istrice ne è ghiottissima e abile a penetrare attraverso i recinti, anche i più accurati – ma è anche peggio per le bordure di Giaggioli, il cui fittone risulta tra i pasti preferiti della bestiola. I miei vicini di podere mi avevano insegnato a piantare un filare di Gigli a guardia delle bordure degli Iris, perché i Gigli bianchi hanno radici velenose (o sgradevoli) e tengono alla larga le istrici, guastando i sapori della loro cena.

La poesia dell’altro mondo

¿Sólo así he de irme
como las flores que perecieron?
¿Nada quedará de mi nombre?
¿Nada quedará de mi fama aquí en la tierra?
¡Al menos flores, al menos cantos!
¿Que podrá hacer mi corazón?
En vano hemos llegado,
en vano hemos brotado en la tierra.

Queste parole appartengono a una composizione degli indios Nàhuatl che, così poeticamente e con versi tanto commoventii si domandavano “che ci stiamo a fare” aquì en la tierra, se poi non lasciamo dietro di noi qualcosa di significativo a testimoniare il nostro transito.

L’unica volta che sono stata a Città del Messico, mi sono emozionata due volte. La prima, quando ho ‘visto’ la scoperta dell’America in controcampo (nel vero senso della parola), attraverso gli occhi tristissimi, e le grida di protesta, dei campesinos che le manifestavano contro (era il 12 ottobre 1992). E la seconda volta, al Museo Antropologico, quando mi apparve questa poesia – incisa in uno dei ‘frontoni’ che accolgono i visitatori – che dà voce alla domanda delle domande.

Ecco, se io facessi vino,  non vorrei tanto che la mia memoria fosse legata al mero successo commerciale della mia cantina, quanto a qualcosa di più sublime (e magari anche redditizio, con il debito impegno) come può esserlo un grandissimo vino – unico e inimitabile -; perché sarebbe la risposta perfetta alla domanda che si fanno gli indios Nàhuatl; una risposta altrettanto poetica che dà senso ad un’intera vita spesa vicino e sulla terra.

Perché il vignaiolo fedele alla sua terra conosce bene il senso del suo passaggio su di essa.