Può essere l’andamento di una strada – magari un cammino, come questo, che viene da molto lontano nel tempo – oppure un orizzonte in cui occhieggia il mare luccicante, ma solo se lo sai vedere. O come la luce svela nuovi luoghi che credevi di conoscere già molto bene, o il disegno dei campi delimitati dalle siepi della sapienza contadina (quella, nata dall’esperienza, che impedisce alla terra di franare). Innumerevoli sono le meraviglie che uno impara a ri-conoscere, vivendo in campagna.
E non è che in città ci sia poco da vedere, o che quello che ci circonda – in città – sia meno interessante, piacevole, bello. E’ che in campagna il mio occhio ha imparato a rileggere la forma della terra, incitato dalla luce che muta di continuo – nell’evolvere della giornata, con le mutazioni del tempo, con le durezze climatiche -. Qui il verde è il grande maestro di un racconto in cui domina la scena, mostrandoci quanti verdi può essere e diventare, e possono anche essere verdi blù o rossicci, o stinti e dilavati fino a essere bianchi o di quel turchese trascendentale, quasi imprendibile. Perché il verde è, in realtà, un colore che non sta mai fermo, come un bambino che cresce …
Ma naturalmente non c’è solo il verde – lo cito oggi, perché a maggio non se ne può fare a meno, con le vigne che splendono di verdi di tutti i colori – trasparenti e scintillanti – ci sono i colori delle altre stagioni, autunni ancora verdi, ma con campi biondi o rossicci… e qualche volta – d’improvviso – tutto bianco, magari con qualche albero carico di caki che rosseggiano, come un improvviso musicale.
Dopo molti giorni in campagna, ad annoiarsi nel verde silente, uno torna in città e si ritrova a guardarla con occhio più allenato a ‘vedere’; perché stare in campagna ti abitua all’osservazione. Può sembrare banale (forse è banale) questa constatazione. Lo è meno se uno si immagina con quali occhi viene guardato (e visto?) il paesaggio. Ne hanno parlato poeti (quelli che con la poesia mangiano), addirittura citandolo come fonte di ispirazione (Yves Bonnefoy, a proposito del paesaggio italiano); è il grande protagonista della letteratura, il paesaggio fa parte della narrazione – è il contesto in cui si svolge una storia -; ne parlano da sempre tutti quelli che gli riconoscono un ruolo centrale nella loro esistenza (viviamo vite più influenzate dal paesaggio di quanto ci rendiamo conto). I soli distratti sono sempre stati i politici, almeno quelli italiani. Se ne stanno interessando ora e ciò dovrebbe spaventarci molto; io non ho una grande opinione dei personaggi che animano (si fa per dire) la scena politica; mi sembrano opportunisti, di solito interessati a una propria sistemazione economica, ma soprattutto mi appaiono a volte come persone di cattivo gusto, persino ingenue, nei confronti del paesaggio.
Un esempio che mi viene in mente è la scoperta della via Francigena, da parte della politica e dei suoi uomini. Una buona politica sarebbe quella di coinvolgere il cosiddetto territorio in un gesto – camminare – che ha un senso profondo, per ogni viandante; far capire a imprese agricole che chi cammina in campagna è una persona che ama il paesaggio ed è alla ricerca di valori. E’ proprio questa ricerca, di sé, di un senso, di un obiettivo, che ha spinto gli uomini, nei millenni, ad andare a piedi attraverso terre che ha guardato e che ha cercato di ‘vedere’, trovando ospitalità o attenzione, o cura …
Invece la via Francigena della politica implica infrastrutture: non sono più i piedi di mille e mille uomini a tracciare il cammino, bensì attrezzi condotti da uomini che lo spianano. Non è il bastone che scosta il cespuglio, ma è la cesoia della pubblica amministrazione, che costruisce pure i ‘parapetti’ alla via, costringendo il viandante a percorrere una strada prefigurata da altri, non ritrovata mentre si cerca sé stessi. Ma questo i politici non lo sanno, perché cercano di far lavorare uomini che devono poi mostrare la loro gratitudine …
Questa fregola di ‘normalizzare’ tutto è tipica di gente che ha bisogno di tenere il futuro sotto controllo, che pretende di eliminare l’imprevisto – che è invece ineludibile – dimenticando che anche le montagne si muovono (l’Himalaya addirittura di due centimetri l’anno) – perché il futuro non si può contenere, né recintare, né pianificare. Bisogna ‘vederlo’, mentre si guarda, più in là del proprio naso.