Dindo

<<Ci si alzava prima del sole, si andava al lavoro a piedi  – io andavo fino a Poggio alle Mura – e finito il lavoro si tornava a piedi.>> Non c’erano mezzi se non le proprie gambe, per coprire la distanza tra casa e lavoro; ben più di dieci chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Bastano questi numeri per dare un’idea di cos’era la vita di uno che lavorava nei campi da queste parti; non secoli fa, ma nelle prime decadi dopoguerra.

Di questa vita così vissuta ci sono ancora testimoni, ma non tutti hanno voglia di raccontare il mondo primitivo di quegli anni, in questa campagna. Dindo – che io chiamavo sempre rigorosamente col suo nome intero Ermelindo, l’ho conosciuto da vicino; se non altro perché l’unica finestra di casa sua era di fronte alle mie e tutte le sere, quando rientrava dal suo lavoro misterioso (un po’ qui un po’ là), risaliva ciabattando lo stretto vicolo che separa le case parlando da solo o rivolgendosi a qualcuno che poteva incontrare per caso.

In quegli anni il paese era ancora abbastanza abitato e non era ancora avvenuta la sostituzione quasi integrale tra i vecchi abitanti – ma dovrei dire ‘antichi’ – e quelli nuovi: cioè la robusta colonia tunisina (ormai assimilata e dà un tocco esotico al villaggio) di operai agricoli evoluti, che all’ora dei pasti si mescola ai turisti sciamanti tra la piazza e il terrazzo naturale sul paesaggio, e diventano artisti dell’obbiettivo, con il loro smartphone, appena scesi dal suv e già con un bicchiere in mano, roteando il vino e strabuzzando gli occhi per vedere tutto e riuscire a ricordare e raccontare.

Dindo ora non riconoscerebbe il suo villaggio che in certe ore somiglia abbastanza a Venezia – acqua a parte – e forse avrebbe paura ad attraversare la piazza per andare a fare la sua piccola spesa quotidiana, o forse no. Certo ora è inimmaginabile incontrare uno come lui, qui o altrove. Ma una manciata di anni fa, qui lo incontravi sotto curva e contromano, con le luci a singhiozzo nell’imbrunire, a cavallo della sua sgangherata Lambretta, come lui incrostata dagli anni, e rischiavi l’omicidio stradale. C’era un’ora in cui bisognava essere particolarmente cauti – quando, poco prima che facesse buio, c’era il rientro degli operai agricoli – Dindo era in sintonia con l’orario di lavoro degli altri, anche se lui (forse in pensione) un lavoro non ce l’aveva più, ma aveva la Lambretta e forse si sentiva emancipato dal mezzo. Forse per questo lavorava anche di domenica,

Era un uomo gentile e civile ma a modo suo; niente acqua né gabinetto in casa, si appartava per i bisogni sui sentieri che circondano il paese, con discrezione. Una sola volta l’ho visto risalire il “nostro” vicolo, completamente nudo e forse un po’ bevuto (qui il vino non è mai mancato, anche se non era proprio come quello che bevono i turisti), di notte, litigando con qualcuno a voce alta, tanto da svegliarmi.

Oggi lo si direbbe un “diverso”, ma oggi tutto sta diventando diverso da com’era ai tempi di Dindo; lui oggi sarebbe un’attrazione per le signore che visitano il paese guardando le vecchie pietre con stupita ammirazione e per loro sarebbe un personaggio. Mi ha suonato all’uscio una volta e aveva in mano un mazzo di fiori – alcuni con la corolla in su, altri in giù -: era il suo modo per esprimere niente più che cortesia.

Non ricordo il suo funerale; so che a un certo punto era stato trovato, esanime ma vivo, forse in un fosso in cui era caduto con la Lambretta; credo che qualcuno ne abbia avuto cura fino all’ultimo. Poi, giorno dopo giorno, il paese si è abituato alla sua assenza e Dindo è entrato a far parte del paesaggio dei morti: quello che i turisti che arrivano quassù non fotograferanno mai, anche perché non ne sospettano l’esistenza. Per me è un ricordo intermittente; una di quelle storie che quando te la racconti non sei sicuro che sia vera e che sia veramente avvenuta. Come il suo lavoro da schiavo, la distanza lunare tra i luoghi che da giovane percorreva a piedi, il cibo eternamente misero, la vita ridotta a pulsazioni del cuore e della vecchia Lambretta.

La Settimana Enigmatica

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Che messaggi ci manda il tempo che passa? Che domanda pretenziosa – penseranno molti – … e, sì, è una domanda un po’ pesante, soprattutto di questi tempi: tempi che di messaggi ce ne inviano una valanga.

Ma la cosiddetta pausa di ferragosto, che pausa vera e propria non lo è più, da tempo e per molti (magari per troppi che sono in “pausa” perenne da tanto tempo, e magari ci hanno pure fatto l’abitudine), a me personalmente porta consapevolezze nuove – troppo poco ascoltate finora -. Mi ripropone i rapporti con gli altri con una luce inedita (ferragostana) molto utile per farmi intuire alcune storture nel mio rapporto con loro. Be’ non tutte, ma alcune mi saltano all’occhio proprio in questi giorni … perché la gente, nella settimana di ferragosto, cambia passo: le telefonate, gli incontri e i messaggi che giungono sono marcati da queste giornate in cui il clima, la meteorologia e le attività convergono per segnalare – come d’abitudine – che stiamo facendo un ‘giro di boa’ intorno all’anno e che dopo ferragosto nulla sarà come ‘prima di ferragosto’. Un’altra banalità canicolare?

A me pare che il ‘prima di ferragosto’, quest’anno, sia stato radicalmente diverso da quello che era stato negli anni passati, e questa settimana mi pare che metta in evidenza questa diversità – un insieme complesso di tanti fattori più o meno evidenti -, me ne accorgo osservando il mondo e la vita quotidiana della gente. Potrei capire meglio quello che sento se avessi tenuto i giornali quotidiani dell’anno passato, mettendone a confronto i titoli con quelli di oggi.

Ma il vero confronto che dovrei imparare a tenere in evidenza, e su cui rifletterò – approfittando dei messaggi che la mia settimana di ferragosto mi invia, in modo un po’ enigmatico – è quello che mi tocca nel profondo: tra ciò che sento e quello che sono capace di esprimere agli altri, tra ciò che capisco e quello che vorrei ‘restituire’ a quelli intorno. Una (sola) settimana potrà aiutarmi ad assomigliare di più a quello che davvero vorrei essere e a pronunciare ciò che sono troppo abituata a tenere per me?

Pensieri Piccanti

DSCN6246DSCN6251DSCN6254Mentre la luce calava, per giungere a gustare la saporita pasta di Ilaria, siamo passati attraverso una nutrita (e nutrientissima) batteria di assaggi. Su tutti, tre “frutti dell’orto”, di un orto raffinato e speciale, a mollo nell’olio debitamente affettati, erano lì a ricordarci, in tricolore, che il mondo (vegetale) è ricco e creativo. E straordinariamente piccante.

Mentre la luce calava, filtrando tra le forme di un ricco giardino – pieno di ricordi – in undici eravamo a parlare, tutti insieme. Poteva quasi sembrare un trattato sulle ragioni di una scelta comune, pur diversamente motivata. Mi veniva da pensare che non c’era un toscano che non avrebbe potuto concludere, ascoltando, perché, in tanti, allora abbiamo scelto questa terra, e di quali pensieri, allora, ha arricchito le nostre vite.

Al Nemico pela il Fico

Il fico comune (Ficus carica L.) è una pianta xerofila dei climi subtropicali temperati, appartenente alla famiglia delle Moraceae. Rappresenta la specie più nordica del genere Ficus, produce il frutto detto comunemente fico.Ficus CaricaIncombe il Ferragosto e mi secca pure ricordarlo nel mio diario on line. Ogni anno mi pare la stessa storia, con poche varianti che non fanno altro che incrementare la banalità della ricorrenza e dei commenti che la riguardano. Ma alcuni ricordi piacevoli vengono stimolati dal profumo delle piante e delle erbe; chi ha l’abitudine di camminare in campagna, in questi giorni potrebbe farlo ad occhi chiusi e ascoltare con il naso i messaggi delle piante.

Così, già al mattino presto, col primo sole che le stimolano, le piante emettono odori, alcuni più verdi, altri più dolci; tra questi sentori campagnoli, inevitabilmente mi colpisce quello degli alberi di fico: le foglie, i frutti, forse anche il tronco, profumano in modo molto particolare, con un sentore che è il prodromo di quello del frutto, quasi un avvertimento…

E’, quello del fico, un odore di memorie – sensuali, vacanziere, amicali, gastronomiche -; e il frutto, così polposo che “non sta più nella pelle”, stillando umori e resine e fluidi appiccicosi è stato ed è legato a piccole storie il cui ricordo mi fa allegria.

Ho imparato il proverbio “al nemico pela il fico, all’amico il persìco” da Laura Malloggi, in un memorabile weekend d’agosto di un secolo fa, quando la Toscana era ancora il mito di noi milanesi e poco mancava che baciassimo la terra appena riuscivamo a venirci. I Malloggi hanno un bel podere – l’Infernino – , piccino e ben messo, in un’ascella della terra sotto Sant’Angelo in Colle, circondato da bosco ulivi vigne e alcuni alberi da frutta, ficaie (così in toscano) incluse. In quel weekend furono colti i fichi (che non stavano più nella pelle!) e aiutai Laura a pelarli, a passare la polpa al setaccio e fare quindi una gigantesca marmellata di fichi, che più gigantesca non si riesce a immaginare. I fichi erano svariate decine di chili, furono pelati in un nugolo di vespe e api impazzite dall’eccitazione: impiegammo tutta la giornata a preparali, immerse nelle bucce fino ai fianchi, e parte della notte a cuocere la marmellata e a metterla nei vasi. Fino a qualche anno fa ancora si poteva trovare in circolazione qualche vasetto testimone di quell’estate molto calda e delle ficaie molto produttive. Fu durante la pelatura di quei frutti che Laura mi spiegò che la marmellata è l’unica circostanza in cui il fico va pelato, altrimenti va mangiato con la sua buccia che è davvero squisita. Mentre la pesca (il persìco, nel proverbio) ha una pelle fastidiosa e sgradevole: perciò è da pelare, quando lo offri a un amico.

 

Numerology

guarda come volo!Gli animali sanno contare?
Secondo gli specialisti, la nozione di numero non è estranea al comportamento di certi animali. Anche i più scettici attribuiscono ad alcune specie una rudimentale capacità di contare, che si esplicita in svariati modi.
E’ quanto afferma Georges Ifrah, nell’introduzione di “Storia Universale dei Numeri” (Mondadori 1983), un libro coinvolgente, in cui si può anche cercare – junghianamente – la spiegazione di qualcosa di particolare, di un evento che ci sembra in sincronia con qualche nostro pensiero.
Perché, come scriveva Aristotele, ben più di duemila anni fa, a proposito dei seguaci di Pitagora, “pareva loro evidente che tutte le cose modellassero sui numeri la loro natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico“.
Il numero appare sempre di più, oggi, la chiave per comprendere i fenomeni più diversi.
Il libro che cito qui sopra si impegna a raccontare e spiegare una fase eroica dell’umanità: quando gli uomini che abitavano la pianura lungo il Nilo, i giardini di Babilonia o le foreste dello Yucatan hanno inventato i modi per rappresentare i numeri.
Io, più modestamente, ho capito l’essenza dei numeri quando mi sono resa conto di avene smarriti ottocento. Quelli telefonici che – più o meno – sono in grado di dare voce a un amico, prenotare un ristorante, raggiungere qualcuno che (càpita) si è perso di vista, in una fase successiva della vita, chiamare qualcuno in aiuto, in un momento critico; oppure lavorare.
Ottocento numeri non erano tutti quelli della mia/nostra esistenza, tuttavia sono quelli che – con o senza sei gradi di separazione – mi connettono con il mondo, o con quella sua porzione che ha acquisito spazio e vitalità nella mia vita di ora. Grazie alla rete ne ho recuperati quattrocentoventitré; poi si è materializzata Vodafone – un po’ in ritardo, ma con la voce gentile di Rafaela – e mi ha dato altri tre numeri, che dovrebbero mettermi al riparo da altre incresciose disavventure.

Per tornare a ciò che ho perso e spiegare a me stessa come sia potuto accadere, mi rifaccio al messaggio di Aristotele che ho trascritto qui sopra. Questa perdita è come doppiare una boa e misurarsi con un vento nuovo, la cui forza è tutta da misurare.

In vista del Ferragosto.

12 agosto (08) 2013: numero antroposofico: (1+2+8+2+0+1+3) = 8