Lettera ai gatti di Sant’Angelo in Colle

Quando decidi di andare è meglio che tu non ti volti indietro; altrimenti potresti rimanere di sale. A volte andare via da un posto pensato come il luogo ideale per viverci il resto della tua vita, vuol dire salvarsela – la vita – o almeno tentare di farlo. Io però ogni tanto mi guardo indietro ugualmente e non resto di sale: sorrido. Mi capita, quando mi sento osservata – prima mi tengo, resisto, poi però mi giro. E quando mi giravo, a Sant’Angelo, c’era sempre un gatto che mi studiava, fissandomi – con sguardo sornione o con una domanda precisa e diretta. Per questo io sorridevo. Eravate voi, cari gatti; c’era sempre qualcuno di voi alle mie spalle, a valutare se fosse il caso di fare qualche moina, uno strofinamento su una gamba, per ricavare qualcosa (magari una dormitina al caldo, in caso di neve); oppure se c’era da paventare qualche atteggiamento un po’ aggressivo, nel caso fossi spazientita da qualche incidente di percorso, qualcuna delle infinite contrarietà che la vita riserva a noi umani, anche a quelli che in fondo non avrebbero di che lamentarsi.

Sdraiati sulle lastre delle strette vie – quelle lastre che erano destinate a essere sostituite dall’asfalto, in una pensata amministrativa un po’ sbrigativa, di chi non si era accorto vent’anni fa, che i paesani avevano capito che ogni pietra vale quanto un pozzo di petrolio – o rannicchiati dietro a un angolo, alla costola di un arco o sbucanti da sotto un recinto sbeccato, mi avete tenuta sotto osservazione, qualche volta osando anche fingere di non conoscermi.

Sempre parchi di confidenze (in fondo al cuore ho sempre avuto un gatto solo), quando la bella Rachele – l’unica in grado di competere con il ricordo di un gatto che non c’è più, a maggior ragione ora che anch’essa se n’è andata in quel paradiso in cui i gatti continuano a rincorrere farfalle nell’erba – ha mostrato un po’ di condiscendenza nei miei confronti è stato solo per testare la possibilità di avere una seconda casa, quando Alba doveva assentarsi. E solo negli ultimi anni della sua vita si è lasciata un po’ andare e ha smesso di miagolarmi rauca che ero, tutto sommato, un po’ straniera. (Come se lei non fosse arrivata insieme a un cuoco sciagurato che poi l’ha abbandonata al suo destino magari randagio – ma il cuoco, il destino no! -). Ora che Rachele non c’era più, una gatta tigrata che si crede una grande cacciatrice, è sempre appostata davanti al mio uscio – incerta tra il tener d’occhio i miei andirivieni, oppure i topi che a Sant’Angelo non mancano.

Cari gatti, state appostati; tra di voi continuo a intravedere i passi silenziosi di Giacoma che sbuca dal suo vicolo, il volto proteso e sempre la stessa domanda. Qualcuno sbuca sempre da una viuzza da un angolo impietrito, da dietro gli archi; più raramente da una finestra: allora è Ermelindo con il suo fare sonoro e amichevole. Oppure altri paesani che si sono trasferiti più in basso, dove le stagioni non contano più molto, se non per il fango o le foglie morte che s’incontrano andando a trovarli. E non abituatevi troppo al tempo siccitoso, perché pioverà, pioverà di nuovo e vi penso rintanati rinculati negli anfratti che solo voi praticate, in cerca di lucertole e gechi. Allora anche i gradini di casa mia verranno buoni; belli larghi e con la possibilità di evitare il senso della pioggia, spostandosi da un lato o dall’altro, come siete abituati a fare, come ho scoperto che sapete fare, aprendo l’uscio presto, al mattino. C’è sempre un gatto nel mio cuore: e io vi penso assai. 

De Gatos se trata

 Verso una nuova Gattoterapia, con un pensiero segreto a Sinè e ai suoi gatti.

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Quando ho parlato a Gabo Marquez del poeta cubano che avevo ospitato in Toscana a Fonterenza, e delle poesie che aveva dedicato a ognuno di noi (perfino all’incidente d’auto in cui avremmo potuto morire tutti insieme), mi sono impappinata sul nome, che non riuscivo a ricordare; ma quando gli ho citato la poesia gattofila e cosmicamente triste che Pablo Armando Fernandez aveva scritto, al Gabo si illuminarono gli occhi, riconoscendolo come “el hombre electrico!”, sì, un uomo con occhi elettrico-magnetici!

“Si me preguntan: donde està El Dorado? / podrìa responder: Està en el antifaz de Bastet, deidad de los felinos. / y en las siemprevivas, / en una calle alegre entre la flor del agua / y el verano …     e poi  …  Es Zaida entre la yerba / juguetando / a ser la gata eterna / de la luna, / a ser su rìo / que corre / y lento va al encuentro / del gato azul / que colme sus quimeras.

Ho sempre pensato che l’inizio e la chiusa di questa poesia racchiudano la vita vissuta dai gatti, anche quella che essi vivono conto terzi, cioè la nostra vita. Anche se non sono in grado di razionalizzare questo pensiero … Questi versi mi ritornano in mente ogni volta che guardo un gatto e ne osservo comportamenti ed espressioni. E la poesia di Pablo Armando mi è tornata in mente quando ieri ho pubblicato sul mio profilo FB le foto del gattone ‘in carica’ a Fonterenza, il podere che ha emozionato le nostre vite e quelle di molti che ho conosciuto. Di tutti quelli che hanno percepito l’atmosfera speciale e il magnetismo del luogo.

I gatti, che hanno abitato il podere anche più intensamente degli umani fino a intridersi dello spirito del luogo e impersonarlo, sono stati una presenza continua, con sovrapposizioni caotiche (ricordo nidiate frenetiche e invasive, oltre alle mamme gatte, come Frisby, che hanno figliato per anni, spargendo la loro prole nei boschi e nei dintorni, fino a colonizzare parzialmente il vicino paese di Sant’Angelo in Colle). Una quindicina di anni fa c’è anche stato un gatto guercio, di pelo lungo e grigio, che aveva l’abitudine di arrampicarsi addosso ai visitatori, con effusioni imbarazzanti. Poi una pattuglia di gatti ninja, battaglieri e corpulenti, che bussavano sfacciatamente alla piccola finestra che dà sul tetto a nord chiedendo cibo e minacciando ritorsioni con zampate unghiute.

Per diciassette anni è venuto in visita da Milano gatto Abril, cacciatore di topi e ahimè pure di uccelletti, fino a morire vecchio e afflitto da numerosissimi orribili acciacchi ed essere sepolto in un luogo che al momento non svelo. Presenza costante, sentinella del mattino, ombra bianca dotata di poteri speciali, consigliere e consolatore, con un miagolio apparentemente buttato lì commentava un pensiero pensato a occhi chiusi, che magari uno non osava neppure dire a se stesso; ma lui, dotato di telepatia, sapeva. Poi c’è (ancora ne avverto la presenza silenziosa e felpata) Matilde, che ho sempre – nel mio immaginario – associata al realismo magico e alla poetica della Cronica de una muerte anunciada: nera, magra, lustra di pelo, sinuosa, aveva il vezzo camminando sul tetto, di voltarsi a guardarti allontanandosi da te, per poi arrampicarsi sui regoli delle finestre, per chiedere di entrare, magari infastidita (o impaurita ) dai cani che l’hanno inseguita innumerevoli volte in un’interpretazione esagitata e furibonda di entrambi i generi (canino e gattesco). E ora c’è Tom che sta studiando da gatto di famiglia e si lascia fare carezze pesanti da una bimba piccola e curiosa, in attesa di essere acquisito nelle vesti di custode di un suo imminente animalismo.

E mano a mano che ne scrivo – Gatti di Fonterenza – mi appare come un pamphlet (saranno stati una cinquantina, i mici,  finora?), pieno di episodi, screzi, avventure, buffonate, tenerezze e magie. De gatos se trata …