Pensiero

Quando vivi in campagna la morte arriva come una staffilata, a ricordarti che non camminerai per sempre tra i filari delle vigne, sul ciglio del bosco, osservando le stagioni che ti raccontano il tempo che passa. E tu sei lì.

Allora ti accorgi che l’impermanenza non è una canzone new age, ma l’incontrovertibile appuntamento con l’ignoto, nonostante le vigne, le foglie che brillano dorate, il giro del sole che disegna astrazioni capaci di sorprendere anche i più consumati dall’uso e dalle visioni.

L’affluenza della gente ti aiuta a stare in piedi, facendo parte di un unicum in cui ognuno è staffetta di un futuro in cui solo le stagioni (pur barcollanti, sostiene qualcuno) permangono. Gli umani si passano il testimone.

Ma un funerale in campagna, in mezzo a una comunità che mette in pausa le rogne – grandi o piccole – del quotidiano, per toccarsi lievemente e sinceramente: un gomito, una spalla, e dirsi che siamo qui per ora e garantiamo il rimpianto, perché uno o una di noi si allontana (e non è mai per sempre, perché il mosaico dei ricordi lo ricompone); ma noi che rimaniamo, nel guardare lo splendore inaudito delle colline in tutti i loro dettagli, ci siamo anche per chi se n’è andato.

Pensavo guidando verso la piazza, la chiesa, la gente, com’è più naturale morire, andare, lasciare, partire, dissolvere, finire. Vicino alla terra che uno conosce sasso per sasso, in questo autunno così luminoso e sfibrante. Così scolpito dalla luce che si fa fatica a pensare di lasciarlo. Eppure è così.

Riparare stanca

Che in Italia ci si stia avviando, o abituando, a vivere di espedienti? Forse non è solo una sensazione se metto insieme i piccoli e grandi imbrogli di cui si legge soprattutto stando in campagna, dove c’è un maggior controllo su quel che accade tutt’intorno, nelle pieghe della vita quotidiana. Sono come un ‘basso continuo’ in cui risuonano i colpi di grancassa degli scandali che valgono miliardi, e lo schianto dei ‘paletti’ che regolavano la nostra vita di cittadini. Un’espressione che sento sempre più spesso “il mondo alla rovescia” fa parte di una nuova letteratura del quotidiano, insieme ad altre locuzioni, la più frequente tra tutte “il lavoro che non c’è più”.

A quest’ultimo proposito ci sarebbe da ragionare (e da leggere) per mesi. Ma davvero “il lavoro non c’è più”? Di certo sono spariti molti lavori; altri proseguono sottopagati all’estero, in luoghi dove i lavoratori costano meno e la vita pure. Ma tutti i (preziosi) lavori di manutenzione, per cui non si può ancora chiamare un robot, ma che sono indispensabili per continuare a vivere più o meno la vita di pochi anni fa, chi li fa?

Se lo è chiesto un pizzaiolo campagnolo qualche giorno fa, prima di chiudere imbufalito il suo locale, dopo aver atteso invano che la ditta fornitrice di attrezzature alberghiere, di cui era cliente gli riparasse il forno (in garanzia) a cui era saltata la resistenza. Dopo nove giorni d’attesa inutile e di sue risposte sempre più imbarazzate ai clienti, è saltata anche la resistenza del pizzaiolo che non sapeva più a che santo votarsi.

E’ solo un episodio, ma mentre me lo raccontavano mi tornava in mente che avevo chiesto la revisione della mia caldaia campagnola e che dopo un’esitazione lievissima mi hanno pregato di attendere che si riuscisse a fare un groupage di utenti “così con un unico viaggio facciamo il lavoro”. Peccato che la caldaia fosse in panne e io sia dovuta ricorrere a un bricoleur del villaggio per tornare a lavarmi con l’acqua calda.

E che dire delle innumerevoli revisioni, dei restauri, riparazioni, adeguamenti e rinnovamento di tutto ciò che ci circonda? Dalla casa agli uffici, dai vestiti alle auto e agli attrezzi di tutte le attività immaginabili. Forse riparare stanca?

Il lavoro di riparazione e rinnovamento è diventato un’attività protagonista, in tempi di benvenuta oculatezza; vuoi perché riparare allunga la vita a un attrezzo, vuoi per i nuovi criteri che tengono in conto (o che dovrebbero) il consumo delle risorse, vuoi per una neonata decenza di pensiero, obbligatoria nei confronti dei troppi poveri nel mondo degli spreconi.

Sono anni però che i cascami dell’informazione promuovono il “lavoro creativo”, sdegnando i lavori che richiedono ingegno e manualità, assieme ad abilità artigianali. E pare che gli unici lavori la cui manualità sia creativa siano il cuoco e il contadino, non certo il riparatore di forni o altri macchinari; ma anche i pizzaioli, certo, sarebbero i benvenuti nel mondo in cui si crea (ma non si ripara).

Ieri sera ho finalmente mangiato la pizza, cotta alla perfezione, accompagnata da un bicchiere di buon vino bianco. Mentre pagavo il conto cercavo di valutare il lavoro perso dal pizzaiolo e di contare quante centinaia di pizze non erano state servite o consegnate, nei giorni in cui quel forno aspettava di essere riparato. Una riparazione eseguita in due ore. Dopo nove giorni di attesa.

Colpo di sole al parcheggio

Ogni giorno passava per il parcheggio appena finito; lo faceva per guardare l’erba che cresceva ogni giorno più alta e ben messa. Sorrideva, quando osservava tra sé che avevano incurvato il percorso pedonale, passando a fianco del grande albero che all’inizio dei lavori aveva temuto tagliassero. Invece no, anzi, nello spazio inerbito che circondava e interrompeva piacevolmente i posti auto, avevano piantato altri alberi che crescendo si poteva immaginare che avrebbero formato quasi un piccolo bosco senza soluzione di continuità con il verde che già circondava il parcheggio. “In Italia non si sarebbero manco sognati di avere uno sguardo paesaggistico per un parcheggio che non è nemmeno a pagamento; chissà come funziona qui”. Perché c’era anche un banano, recuperato dall’assalto dei rovi che bordavano il fosso che scorreva lì, accanto al parcheggio. E sempre sul bordo di quella che le sembrava un’installazione, più che un’opera di urbanizzazione, c’erano un bel po’ di grandi alberi che parevano conversare tra di loro commentando le nuove piantumazioni e sbirciando la quantità di spazio messo a prato che separava le auto dalla strada che scorreva sopra e dalle costruzioni alberghiere, poco sotto. Il parcheggio era stato pianificato per ospitare settantasei auto, ma l’area che gli era stata dedicata poteva tranquillamente contenerne il doppio. Tornava ancora quella considerazione, tra il modo “all’italiana”, che davvero non reggeva il paragone con questa realizzazione. E’ la differenza tra un paese che si vuole bene, e uno, come l’Italia, che ha perso la voglia di essere, dimentico di sé stesso e della propria bellezza – pensava -.

Il parcheggio non sarà a pagamento, forse per questo si erano concessi il lusso di tutte quelle piante salvate e recuperate, dell’inerbimento, l’aggiunta di altri alberi e dei cespugli che sarebbero cresciuti. Nel crepuscolo che avanzava si riusciva già a immaginare una prossima stagione in cui i segni dei lavori recenti e delle nuove piantumazioni si sarebbero stemperati con il folto di alberi lì accanto. Non poteva far a meno di pensare che (in Italia) non pretendere un ritorno monetizzato velocemente, disponendo di un’area a duecento metri da una delle spiagge più frequentate dai surfisti e dal turismo internazionale, sarebbe stato giudicato demenziale, come se i progettisti e i loro committenti fossero colti da un colpo di sole collettivo.